curato

Cronache di vecchi e nuovi curati di campagna
di Mauro Sbordoni

Quando parlava alla radio Padre Lombardi

“Il partito democristiano, verso cui generalmente simpatizzano tutti coloro che amano l’ordine, cerca di attuare una vera penetrazione nelle masse e in tale sua opera viene indirettamente appoggiato dal Clero che pur attenendosi alla sua missione squisitamente spirituale, non trascura una certa propaganda a favore di detto partito”.
Così recitava nel lontano febbraio 1945 un “riassunto dei rapporti delle regie Prefetture” del nostro paese.
Tre anni dopo – esattamente l’8 Febbraio 1948 – Luigi Gedda, dirigente di spicco dell’Azione Cattolica fonda, in accordo con  Papa Eugenio Pacelli, i Comitati Civici, strumento di propaganda, di mobilitazione sociale, elettorale e politica in favore della DC e – nelle intenzioni di più lunga prospettiva – di condizionamento dello stesso partito. I risultati delle elezioni del 18 Aprile incoraggeranno nuovi passi e iniziative in una strategia che dal sostegno alla DC passerà al tentativo di condizionare lo stesso partito, di conseguire una vittoria piena e irreversibile sul campo avverso, di costruire in tempi brevi una civiltà italiana integralmente cristiana.
Alcune delle iniziative in questa direzione ebbero una chiara valenza pubblica e andavano alla ricerca di un immediato impatto popolare. Innanzitutto il Decreto emanato dal Santo Uffizio il 28 Giugno 1949 – promulgato poi da Papa Pacelli il successivo giorno 30 dello stesso mese – con cui veniva sancita la condizione di scomunicati per i votanti al Partito Comunista e gli aderenti a questo partito e a varie organizzazioni collaterali (dalla CGIL, all’UDI, alla Federterra). Poi le processioni della “madonna pellegrina” organizzate un po’ in tutta Italia a partire dal successivo anno ’50. Infine la campagna di predicazione radiofonica “Per un mondo migliore” iniziata a partire dallo stesso anno ’50 dal gesuita Padre Riccardo Lombardi e sfociata poi nel ‘52 nella creazione dell’omonimo movimento.
Questi atti e queste iniziative attraversarono tutto il paese dalle grandi città alle frazioni più remote, mescolandosi in qualche misura con la sua diffusa orditura sociale, politica, antropologica; seguendo il complesso passaggio dalla fase post-bellica e della immediata ricostruzione a quella di un processo di modernizzazione rapido e dagli sviluppi non tutti prevedibili e controllabili.

Fra politica, religione e cultura quotidiana: cronache degli anni’40-’50 in un paese del Valdarno

Cercherò di tratteggiare le evidenze, le orditure di questa trama così come vennero agite e vissute in quegli anni in un paese del Valdarno fiorentino dove allora vivevo.
Anche in questo paese la scomunica per i comunisti (anzi per i socialcomunisti come veniva detto a dissipare ogni dubbio e ogni “inopportuno” distinguo) apparve prontamente sotto forma di AVVISO, redatto in forma sintetica, e affisso – come si usa appunto per gli avvisi – alle porte della chiesa parrocchiale e della cappella delle suore (sede anch’essa di celebrazioni di messe e altre funzioni religiose aperte alla comunità dei fedeli).
La cura delle anime in questo paese era affidata a un maturo Parroco e a un giovane “cappellano” di recente nomina. Il cappellano aveva svariati interessi culturali che esprimeva nelle attività che proponeva ai ragazzi e ai giovani: non solo le riunioni della risorta Azione Cattolica, ma anche tentativi di teatro, di scoutismo, di gare sportive. Tentativi, perché in quei tempi la provincia non poteva offrire molto spazio e possibilità finanziarie per il tempo libero dei giovani e perché i ragazzi e i giovani interessati a quelle attività potevano essere solo studenti e (beninteso con la rigida compartimentazione di genere ovunque vigente) studentesse: in ogni caso – in quel paese del Valdarno e non solo! – una piccola minoranza numericamente del tutto trascurabile e ben delimitata sociologicamente rispetto a una folla di contadini, operai per lo più pendolari, casalinghe, ricamatrici.
Il giovane sacerdote esprimeva il suo attivismo anche attraverso appassionate prediche nel corso delle quali l’argomento principale era spesso l’attacco diretto al Partito Comunista, l’irrisione degli “attivisti” e della loro propaganda. Un attacco che si avvaleva ora anche dell’autorevole pronuncia del Santo Uffizio. Ciò non impediva in quel paese la regolare vittoria alle elezioni dei “socialcomunisti”.
Il Parroco, uomo semplice, di poca cultura e tradizionalista in ogni suo atteggiamento, non partecipava alle iniziative socio-culturali, né si produceva dal pulpito in questa “battaglia delle idee”. Egli preferiva organizzare al meglio una serie di attività di “istituto”, quali le predicazioni quaresimali (affidate di regola a valenti predicatori della città, “monsignori” o appartenenti agli ordini), le processioni come quella del Corpus Domini e del Venerdì Santo, le benedizioni pasquali.
Era la benedizione pasquale l’occasione per contattare in maniera capillare e personalizzata ogni famiglia, nel capoluogo e nelle frazioni, recandosi a piedi – del resto anche volendo non avrebbe avuto altro mezzo – nelle case di tutti i paesani.
Di tutti? Sì, proprio di tutti. Eccetto di un personaggio locale che, abbandonato dalla moglie nel corso delle varie traversie procurate dalla guerra, conviveva adesso notoriamente – seppure con privatissima discrezione – con un’altra signora. Anche in questa famiglia la casa veniva ogni anno premurosamente predisposta con pulizie di fondo alla visita del parroco e alla relativa benedizione. Il padrone di casa attendeva sulla porta l’arrivo del parroco: una speranza che ogni anno si rinnovava e un muto ma inequivocabile invito. La signora in quell’occasione non aspettava il Parroco come le altre donne, ma si teneva fuori di casa, al suo luogo di lavoro. Questa situazione di temporaneo allontanamento però non bastava. Il parroco, senza proferire parola, tirava di lungo. Ogni volta, ad ogni ricorrenza pasquale, l’evento si ripeteva e il paese sospirava sulla dura – ma inevitabile – severità del Parroco e sullo sconforto della coppia di esclusi.
Il paese esprimeva poi la sua quasi totale unità nelle varie processioni. Attraverso la partecipazione diretta e ancora di più attraverso le decorazioni floreali (nel caso delle processioni diurne come quella del Corpus Domini) o le illuminazioni. Le eccezioni erano poche, ben note, volontarie e dichiarate: uno o due comunisti più radicali (ma il popolo democristiano preferiva dire “accaniti”) e un anziano misantropo sospetto di appartenenza massonica.
L’unità senza alcun distinguo si manifestava nei funerali. In quelle occasioni un’interminabile fila di persone seguiva un feretro portato a spalle dall’abitazione al camposanto (quando si trattava di una persona di qualche importanza c’era anche la banda musicale, una banda molto semplice di pochi suonatori senza divisa, solo un berretto con visiera in testa ). Quasi in testa alla processione, dietro la bara, il parroco, con la tonaca, la cotta, la stola (non ricordo in quegli anni la celebrazione di funerali civili).
Un altro momento non di unità ma di incontro diffuso nel paese era dato dalle prediche quaresimali. In quell’occasione la cerchia dei fedeli si ampliava a comprendere non solo “le solite donne” ma anche molti adulti maschi di mezza età che facevano poi i confronti fra le abilità oratorie dei diversi predicatori.
Le processioni della Madonna Pellegrina – al di là delle intenzioni di “conversione” e “riunificazione religiosa dell’Italia” che le ispirarono – vennero sostanzialmente vissute come un capillare e diffuso rinforzo di ricorrenze popolari (le processioni toccarono anche le frazioni più lontane), di festa (luci e, dove non vi era ancora luce, lumini a olio e fuochi) e di devozione mariana che coincideva con il periodo dell’avanzata primavera.
Le prediche radiofoniche “per un mondo migliore” del “microfono di Dio” – così veniva chiamato il predicatore gesuita Padre Lombardi – toccarono solo le famiglie dei cattolici praticanti piccolo borghesi che si potevano permettere una radio e il tempo di ascoltarla. Padre Lombardi era colto e aveva un timbro di voce suadente. Le sue prediche erano precedute dall’annuncio del collegamento con la Radio Vaticana e dalla dizione intensa dell’invocazione “laudetur Jesus Christus”. Il tutto conferiva solennità e delimitava volutamente un “ambito del sacro nello spazio pubblico radiofonico”. Ma Padre Lombardi non raggiunse mai la popolarità dei predicatori quaresimali, né – per ampliare il raggio delle comparazioni – quella dei grandi predicatori evangelici d’oltreoceano.
Fin qui lo spazio pubblico del religioso, della tradizione, della ritualità: il ruolo del Cappellano e quello del Parroco .
E lo spazio politico-istituzionale? Il ruolo del Sindaco?
Il Sindaco del paese era espresso dalla maggioranza socialcomunista. Era un socialista appartenente al ceto medio impiegatizio. Era laico e nient’affatto praticante. Anch’egli però come il parroco, non si esibiva in attività oratorie e non partecipava apertamente alla battaglia delle idee. Era – come negli stessi anni il sindaco di Firenze Mario Fabiani – un sindaco riformista al servizio del paese. Non invadeva mai la sfera dei sentimenti religiosi, né subì mai ostilità o attacchi da parte del parroco.
Nel suo complesso il paese era quindi diviso socialmente (una maggioranza di contadini e operai, una minoranza di piccola borghesia per lo più impiegatizia) e politicamente (maggioranza socialcomunista, minoranza democristiana) ma con alcuni momenti – culturalmente fondanti – comuni, dati da alcune ricorrenze e alcune fasi del ciclo vitale della campagna e delle persone. Occasioni in sé non cristiane ma assunte dalla Chiesa, “officiate” – presidiate in un certo senso – dal personale ecclesiastico più omogeneo alla tradizione locale.
Il Sindaco rappresentava anch’egli una tradizione laica, certamente meno antica, ma già solida e radicata tanto da perdurare sostanzialmente fino ai giorni nostri.
Come fino a pochi anni fa, pur con tutta una serie di mutazioni sociali, politiche e culturali si è mantenuta in molte zone d’Italia la sostanziale “coesistenza” fra le due culture: quella di origine socialista e quella religiosa cattolica. Qualcosa di molto diverso e di ben altra dignità e complessità rispetto al quadro delineato in quegli anni da Guareschi: artatamente semplicistico, apparentemente bonario ed equidistante, in realtà profondamente tendenzioso e irridente nei confronti della figura del sindaco comunista di paese. Il successo ripetuto (e non a caso oggi riproposto!) di questo scrittore e più ancora della filmografia (?) che alle sue opere si ispira è la riprova che nell’industria culturale di massa può avvenire – oggi come ieri – la stessa cosa che avviene in economia: la moneta cattiva scaccia quella buona.

Dal curato di Bernanos a Don Lorenzo Milani

Il diario di un curato di campagna venne scritto da Bernanos nel 1936. Ma la prima edizione in Italia si ebbe solo nel 1946. Le edizioni di questo romanzo si ripetono negli anni 50 . E insieme ad altre opere di autori cattolici francesi trovano una rispondenza e un’attenzione crescente in un’area cattolica critica e riflessiva che si interroga sulla Chiesa. Il curato di Bernanos è l’antitesi del “giovane curato attivista”. Ad una rilettura attuale (questo libro si presta come tutte le grandi opere letterarie a successive e diverse “riletture”) colpisce l’incipit dell’autonarrazione: la parrocchia, scrive il giovane curato iniziando il suo diario, è “una parrocchia come tutte le altre… le parrocchie d’oggi naturalmente… La mia parrocchia è divorata dalla noia… Era la mia parrocchia ma io non potevo fare nulla per essa.”
Più avanti l’io narrante afferma: “Mi dicevo dunque che il mondo è divorato dalla noia. Naturalmente bisogna riflettervi un po’ sopra, per rendersene conto; la cosa non si sente subito” .
La noia non è tanto il frutto di un’inettitudine organica, di una pigrizia mentale, del giovane prete ma di una sofferta coscienza critica: dell’avvertita contraddizione fra la “spaventevole presenza del divino” accettata da chi si fa prete e la piattezza e i compromessi del clero locale, “capi parrocchia, … padroni, insomma uomini di governo”, come li definisce l’alter ego del curato di campagna, il curato di Torcy che ne comprende sentimenti e inquietudini ma a cui una diversa tempra e una consolidata maturità permette di sopravvivere al viluppo della noia e mantenere una sua coerenza con lo spirito originario che lo condusse al sacerdozio.
Anche il giovane curato di Bernanos – come qualche anno dopo il cappellano del Valdarno – tenta di avvicinare i giovani parrocchiani attraverso varie forme di attivismo: il cinema settimanale, associazioni giovanili, gruppi sportivi, il “circolo di studi”. Ben presto però egli misura l’inutilità di questi tentativi, non solo per l’incomprensione del popolo delle campagne, ma anche perché egli prende coscienza del suo scacco esistenziale: il divario fra la sua scelta di vita e la compromissione quotidiana che invece la “chiesa istituzionale” a lui richiede, e che un autorevole prelato locale, il Decano di Blangermont, enuncia esplicitamente: “…temo che i vostri successi scolastici vi abbiano un poco falsato il giudizio. Il seminario non è il mondo. La vita al seminario non è la vita. Basterebbe poco, senza dubbio, per fare di voi un intellettuale, e cioè un rivoltoso, un dispregiatore sistematico di quelle superiorità sociali che non siano fondate sullo spirito. Dio ci scampi dai riformatori.”
Via, via il curato di Ambricourt si sentirà schiacciato da una serie di contraddizioni e di paradossi: fondamentale quello fra il ruolo salvifico e profetico che la Chiesa assegna ai poveri, le speranze che sembrò a suo tempo aprire l’Enciclica Rerum Novarum, la quotidiana effettiva complicità della Chiesa con le forze della conservazione sociale, e – su altro versante – i limiti ontologici, che Bernanos per bocca dei “suoi sacerdoti” denuncia, dei progetti politici e tutti terreni di riscatto dei poveri. La malattia e la tara ereditaria (l’alcoolismo) che porta il giovane sacerdote sulle soglie dello smarrimento, e poi della morte precoce e dell’estremo atto di fede, sono metafora di un male più profondo individuato da Bernanos nella Chiesa e nel clero del XX secolo.
Alla fine degli anni 50, le compromissioni del clero, i limiti – anzi “i peccati” – dell’attivismo cattolico troveranno in Italia un’ organica testimonianza critica e un circostanziato rovesciamento valoriale nel primo libro di don Lorenzo Milani, Esperienze Pastorali. Feste e processioni dirà don Milani sono catechisticamente negative, la ricreazione – sia essa organizzata dalle parrocchie o dalle Case del Popolo – è la rovina della classe operaia. Quando dà alle stampe questa opera egli, già viceparroco in un paese di campagna, è stato confinato nel remoto villaggio di Barbiana. Diversamente dal curato disegnato da Bernanos non si lascerà sconfiggere dall’inutilità e dalla noia, né dal disgusto intellettuale, né dalla sofferenza. Non altrettanto avverrà per altri giovani sacerdoti che come lui verranno confinati in quegli anni pre-conciliari e poi nel periodo post-conciliare a fare i curati di campagna.

Nuovi spazi pubblici tra le due sponde del Tevere

Oggi gli spazi assegnati dalla TV italiana alla Chiesa cattolica non sono preceduti da nessun “laudetur Jesus Christus”, ma fanno parte del normale “pastone televisivo domenicale” o in caso di eventi particolari (ma non più come un tempo eccezionali…) come i viaggi pontifici, del palinsesto dei telegiornali di ogni giorno. Ciò che la Chiesa guadagna in termini di acquisizione di spazi lo perde in termini di banalizzazione e di assimilazione all’universo mediatico. Diventa una delle tante voci. All’orizzonte nessun predicatore televisivo del tipo di Padre Lombardi. Anche se un altro padre Lombardi è portavoce del Vaticano: ma – appunto – portavoce. Seguendo così anche in questo modalità comuni all’universo della politica, dove la necessità di essere ogni giorno partecipanti al flusso di parole intercambiabili – vere e proprie “flatus vocis” senza più alcuna pretesa di durevolezza (non diciamo universalità!) di significato – richiede l’istituzione sempre più diffusa di queste figure sussidiarie. Penso proprio che non esistano più predicatori che vanno in giro per le province ispirando annuali cicli di meditazione, penitenza e perdono.
Lo spazio virtuale è egemonizzato da predicatori profani che hanno rovesciato il sermone della montagna: beati sono i ricchi (ricchi sic et simpliciter, irridendo sempre più a qualsiasi considerazione weberiana di “merito”), gli “assetati di giustizia” sono derisi come “giustizialisti”, altrettanto avviene per i “pacificatori” chiamati – anch’essi con valenza spregiativa – pacifisti; i poveri semplicemente non devono esistere. Essi stessi del resto preferiscono, come nuovi “fuori casta”, essere sempre meno visibili e meno riconosciuti.
Il capo carismatico di questi predicatori, è stato eletto anche capo del Governo Italiano. Pertanto, come da istituzionale e consolidata consuetudine, è stato ricevuto dal Papa. E si è chinato a baciare due volte la mano pontificia. Diffuso l’apprezzamento dei giornali italiani quasi si trattasse della “conversione” di Enrico di Navarra. Nel coro di queste lodi particolare rilievo (per la rappresentanza di cui gode nel mondo cattolico il giornale che lui dirige) quelle del direttore dell’“Avvenire” Dino Boffo. Egli, intervistato da “la Repubblica”, ha dichiarato senza mezzi termini che fra i vari politici italiani Berlusconi è quello che trasmette ai cattolici “maggiore rassicurazione” (ben più – ha teso a dire – del cattolicissimo Prodi). E poi “…resta l’immagine di Berlusconi e il suo atteggiamento con il Papa. Ha lanciato un messaggio anche subliminale, che dà sicurezza…”. Infine – quasi fosse anch’egli “portavoce” del Papa – ha anticipato il compenso con cui il Pontefice contraccambierà, ha già contraccambiato, questo “messaggio subliminale”: “Il Papa ha dato voce a una condizione psicologica di tutti noi cittadini. Uscire dal terremoto politico. Voglia di costruire. Arrivare a rapporti fra i partiti più distesi e senza umiliare la dialettica democratica, dare esito alle riforme desiderate dagli italiani.”
Mai come in questo caso le sponde del Tevere sono apparse fra di loro così vicine. Anzi pressoché annullate. Il grande comunicatore, dall’etica e dai pubblici comportamenti quanto mai lontani da quelli di un “buon cattolico”, non sembra dal canto suo ancora appagato. Egli non è uomo da ravvedimenti e conversioni, nemmeno ispirate dal tornaconto politico come lo fu quella di Enrico di Navarra, perciò ha pensato bene di lucrare ulteriormente dal suo baciamano. Quindi “in prima fila alla messa Vip (sic!) di Portorotondo… ha ritenuto di aprire platealmente la questione della comunione ai divorziati rivolgendosi al vescovo, durante la liturgia”. Non so quale sia stata la risposta del vescovo – e se vi sia stata – all’irrituale interruzione del rito, ma sembra che i confessori del grande comunicatore – ben tre tanto per mostrarsi anche qui più ricco di disponibilità dei comuni cittadini – si siano pronunciati benevolmente.
Penso che nessuna meraviglia tutto ciò susciti fra i nuovi “curati di campagna” e i preti delle estreme periferie urbane, sempre più spesso non esiliati dall’autorità ecclesiastica ma volontari testimoni in zone di frontiera. Non so cosa pensino invece i maturi parroci, custodi duri ma imparziali dell’ortodossia, del rigore, della tradizione. Ma forse non esistono più.