di Michele Brancale
Le tre P della Comunità di sant’Egidio (preghiera, poveri, pace) trovano espressione concreta nel lavoro quotidiano di tanti, giovani e anziani, che decidono di dedicarsi all’aiuto degli altri, anche a costo della vita, come nel caso del giovane congolese Floribert Bwana Chui ucciso per essersi sottratto alla perversa logica della corruzione e del denaro. O come coloro che hanno fatto della «controffensiva dell’amore» la molla per uscire dalla sterilità di una esistenza solitaria per dedicarsi a chi ha bisogno. Gli esempi qui riportati ci parlano espressamente della felicità fondata sulla condivisione.
La parabola di Floribert
Gli anziani da aiutare a restare a casa, gli stranieri nuovi concittadini a cui dare la lingua e la cultura del Paese in cui si approda. La scuola di pittura con le persone disabili e un lavoro attento per garantire loro una casa. Accanto, i senza fissa dimora, di cui conoscere con rispetto nome e storia e ai quali portare da mangiare, vestiti, quella medicina essenziale che è l’ascolto e un’amicizia fedele. Un’educazione colma di affetto per i tanti bambini italiani e stranieri che frequentano le «Scuole della pace». La distribuzione dei pacchi alimentari.
Sono tante le parabole che nascono da quelle che sono state definite le tre P di Sant’Egidio: preghiera, poveri, pace. E si è promotori di iniziative di Pace, a tante latitudini dove Sant’Egidio è presente, proprio perché coinvolti nella vita dei poveri.
Quella di Floribert Bwana Chui è la storia di un giovane congolese che ha mantenuto il cuore pulito, non ha tradito i poveri per restare fedele a Gesù. Meglio morire piuttosto che accettare i soldi della corruzione, per far passare partite avariate di cibo. No, non per un giovane di Sant’Egidio che credeva al Vangelo e sognava, come ricordano i suoi amici, di «mettere alla stessa tavola i popoli del mondo». E questo giovane, funzionario della dogana in Congo, alla frontiera col Ruanda, è stato ucciso nel 2007 a 26 anni per il rifiuto di fare male e di prendere soldi in cambio. Si chiamava Floribert Bwana Chui, era nato il 13 giugno 1981 a Goma. Si era fatto vicino con Sant’Egidio ai maibobo, espressione swahili per indicare i «bambini di strada», spesso senza nessuno, senza scuola, senza affetti. Floribert se ne prendeva cura personalmente, li faceva studiare, coinvolgeva tanti amici in questo sogno di cambiamento, sul quale avrebbero ironizzato i mandanti del suo omicidio attraverso emissari: «Non penserai mica tu di cambiare il Congo». E invece sì. Si cambia prendendosi cura degli altri, come faceva lui. Un bambino ha raccontato: «Non ero mica della sua famiglia, ma lui veniva a cercarmi… si preoccupava di me».
La beatificazione a Roma
Domenica 15 giugno Floribert è stato beatificato a Roma, in una liturgia solenne nella basilica di San Paolo Fuori Le Mura, presieduta dal cardinale Marcello Semeraro, prefetto del Dicastero per le Cause dei Santi. Hanno partecipato anche numerosi rappresentanti della Chiesa congolese, tra cui mons. Willy Ngumbi, vescovo di Goma, e il cardinale Fridolin Ambongo, arcivescovo di Kinshasa, altri vescovi congolesi, centinaia di rappresentanti delle Comunità di Sant’Egidio dal Congo e da altri paesi africani, come Benin, Burundi, Costa d’Avorio, Malawi, Mozambico, Senegal e Togo. È stato un momento di grande intensità, che unisce l’Africa e l’Europa nel ricordo di una vita giovane, spezzata dal male ma illuminata dalla fede. «Rendiamo grazie per la testimonianza di fede e santità di questo giovane, che condivideva la vita della Comunità nell’amore per i poveri e nella protezione dei più piccoli – si legge in una nota – Floribert, funzionario della dogana alla frontiera con il Ruanda, attivo da quando era universitario nella Scuola della Pace di Sant’Egidio a Goma, si rifiutò di far passare, in cambio di soldi, carichi di cibo avariato che avrebbero messo a rischio la vita dei più poveri». Per questo, nel luglio del 2007, «venne torturato e ucciso a soli ventisei anni».
Il suo martirio «in odio alla fede» è stato riconosciuto nel novembre scorso da papa Francesco aprendo la strada alla beatificazione, in quanto legato alla corruzione e al culto del denaro ad ogni costo, che inquina il futuro e le speranze dell’Africa. La sua resistenza al male è un segno di speranza e di resurrezione per la martoriata regione del Kivu, attraversata da anni da una dolorosa guerra civile, aggravatasi negli ultimi mesi, ma anche per tutti i giovani del continente che rappresentano la grande maggioranza della sua popolazione.
Nel corso della sua visita nella Repubblica Democratica del Congo, papa Francesco, il 2 febbraio 2023, lo aveva ricordato così allo stadio dei martiri di Kinshasa: «Un giovane come voi, Floribert Bwana Chui, a soli ventisei anni, venne ucciso a Goma per aver bloccato il passaggio di generi alimentari deteriorati, che avrebbero danneggiato la salute della gente. Poteva lasciare andare, non lo avrebbero scoperto e ci avrebbe pure guadagnato. Ma, in quanto cristiano, pregò, pensò agli altri e scelse di essere onesto, dicendo no alla sporcizia della corruzione. Questo è mantenere le mani pulite, mentre le mani che trafficano soldi si sporcano di sangue. Se qualcuno ti allungherà una busta, ti prometterà favori e ricchezze, non cadere nella trappola, non farti ingannare, non lasciarti inghiottire dalla palude del male. Non lasciarti vincere dal male, non credere alle trame oscure del denaro, che fanno sprofondare nella notte. Essere onesti è brillare di giorno, è diffondere la luce di Dio, è vivere la beatitudine della giustizia: vinci il male con il bene!».
I partecipanti alla liturgia di beatificazione sono stati ricevuti da Leone XIV: «Da dove – ha chiesto il papa – un giovane traeva la forza di resistere alla corruzione, radicata nella mentalità corrente e capace di ogni violenza? La scelta di mantenere le mani pulite – era funzionario alla dogana – maturò in una coscienza formata dalla preghiera, dall’ascolto della Parola di Dio, dalla comunione con i fratelli».
Questo martire africano, in un continente ricco di giovani, «mostra come essi possano essere un fermento di pace “disarmata e disarmante”».
«Se dovessi avere qualche problema», disse Bwana Chui a un’amica, «prendi il Vangelo e leggilo. Ti consolerà e ti darà gioia». La pace nelle città, in ogni città, si fa strada così, disarmata e disarmante.
È anche uscito un libro, Il Vangelo della gratuità. Floribert Bwana Chui, giovane martire africano per il XXI secolo di Francesco de Palma (ed. San Paolo). Dello stesso autore Il prezzo di due mani pulite (ed. Paoline) con la presentazione di Andrea Riccardi.
Medì. Le città vogliono vivere
A Livorno, il 2 e 3 maggio 2025, si sono svolte le due giornate di convegno internazionale Medì. Le città vogliono vivere. Dire no all’ineluttabilità della guerra non è un’ingenuità né una forma di disfattismo. La parola di papa Francesco «è importante in un mondo dove c’è un regresso delle tensioni unitive», spiega Andrea Riccardi, storico e fondatore di Sant’Egidio, a Medì, che ha riunito a Livorno i testimoni delle città del Mediterraneo su iniziativa della Comunità. «Il colloquio diplomatico – ha sottolineato Riccardi – ha bisogno di riservatezza (…) non dell’uso della violenza verbale» che si è vista poco tempo fa contro il presidente ucraino. Ma «l’incontro davanti alla bara di Francesco è stata la vittoria postuma del papa morto». Aveva ragione papa Francesco: «Ogni guerra lascia il mondo peggiore di come lo ha trovato». Quando la guerra è pensata come naturale allora essa si eternizza e imprigiona popoli interi. No al riarmo, con una particolare preoccupazione di Riccardi per la Germania, dove la formazione di destra estremista AFD rappresenta un quarto dell’elettorato.
Se la guerra è pensata come naturale allora non finisce e la guerra imprigiona i popoli. Dopo l’89 e la scomparsa progressiva dei testimoni della Seconda Guerra mondiale, «il cui racconto faceva parte della storia delle famiglie», «si è logorato il senso drammatico della guerra». È prevalsa «l’immagine tecnologica della guerra pulita», che è invece ancora più sporca e colpisce i civili. È il terreno su cui si sviluppano fake news. La guerra dei russi in Ucraina doveva durare pochi giorni e si è visto cosa è successo.
I presenti al Teatro Goldoni, pieno di persone, insieme ai relatori intervenuti nella prima giornata di convegno, hanno attribuito un grande applauso alla memoria di papa Francesco, e sottoscritto un appello per la pace che sarà diffuso a Livorno, Barcellona, Beirut, Genova, Lampedusa, Odessa, Trieste e Malta.
I rappresentanti delle città del Mediterraneo hanno individuato sei punti sensibili e decisivi per il futuro di tutti e rivolto un appello per la pace. Come uomini e donne del Mediterraneo chiedono: l’avvio di trattative che possano portare a soluzioni giuste e durature, laddove c’è un conflitto; il rispetto per ogni individuo, per ogni comunità, per ogni fede, affinché possa vivere nella libertà, nella dignità e nella sicurezza; l’impegno a promuovere il dialogo interculturale e interreligioso, per rafforzare i legami di fratellanza e di comprensione reciproca; l’attenzione e la cura per l’ambiente e per il mare, che ci lega tutti e che costituisce un bene comune da preservare; l’apertura di corridoi umanitari o comunque di vie legali di ingresso e la semplificazione delle procedure necessarie a chiedere asilo, a trovare rifugio dai conflitti e dalla persecuzione; la lotta all’analfabetismo, la promozione della scuola e dell’istruzione, pubblica e gratuita, che è premessa di libertà.
L’appello è stato firmato da Khaled Rifai, architetto, di Beirut; gli storici Giovanni Brunetti, di Livorno, e Meritxell Tèllez, di Barcellona; l’antropologa Anastasjia Piliavsky, di Odessa; Pierangelo Campodonico, storico e direttore del Museo del Mare e del Museo delle migrazioni di Genova; Darya Majidi, imprenditrice, di origine iraniana e livornese di adozione; Vito Fiorino, l’artigiano di Lampedusa che ha tirato fuori dal legno delle barche dei naufragi, molte vite; Maria Quinto, responsabile per Sant’Egidio, dei «Corridoi umanitari» che da Beirut hanno portato in Europa, attraverso una via legale e sicura, migliaia di profughi dalle guerre odierne; Pietro Spirito, giornalista e scrittore di Trieste, e Manuel Delia, giornalista, di Malta.
La «controffensiva dell’amore»
Sarà la «controffensiva dell’amore» a salvare l’umanità delle nostre città e il mondo stesso; sarà questo l’antivirus all’illusione che le bombe, o le onde, distinguano innocenti e colpevoli, bambini e adulti, che l’ambiente è in fondo un problemia degli altri finché non te lo trovi dentro casa, all’idea che non si avrà mai bisogno di nulla e invece… La «controffensiva dell’amore» non è una frase messa lì, un’espressione bella in sé, ma è qualcosa che si vive, che si fa, che dà senso. Mauro Terreni è un livornese che ha fatto le barricate «per far guadagnare qualche lira in più agli operai della Spica, una fabbrica». 50 anni nel PSI, responsabile nazionale per anni della CGIL Tesoro. Gli chiedi: come superare le divisioni sociali? E lui risponde: «Con la controffensiva dell’amore. Il nostro imperativo è: “Eccomi”. Sono disponibile a stare con te, a incontrarti, a parlare, a farti visita». La sua voce si unisce a quella di tanti anziani che hanno animato a Firenze «La forza degli anni», su iniziativa della Comunità di Sant’Egidio in collaborazione con l’Arcidiocesi, nella basilica di San Lorenzo: non un convegno sugli anziani, ma anziani che parlano alla città, pensionati che hanno ripensato la loro vita: chi va in Congo ogni anno ad aiutare una missione; chi tiene un deposito di vestiti per i senza dimora; chi custodisce la memoria della città raccogliendo testimonianze. Chi come Mauro, per l’appunto, è stato travolto dallo «tsunami» dell’incontro con i bambini delle scuola della pace nella sua città. Poi, nel quartiere di Corea, con altri amici il lunedì prepara pacchi e aiuti da portare nei quartieri limitrofi. A questi anziani, portare Gesù in cronaca interessa molto. «La morte di Gesù crocifisso ha dato vita ad un evento che rivoluzionava il paradigma che fino a quel momento l’umanità viveva. Un uomo muore per un altro perché questo si salvi». L’umanità è «sulle soglie della guerra atomica perché ha perso questo senso».
La «controffensiva dell’amore» è rimettersi in gioco e in campo, «non arrendersi di fronte al tempo che passa», spiega Marina Ferletti, che con altre persone prepara pacchi alimentari e distribuisce la cena ai senza fissa dimora nei quartieri di Ponte di Mezzo e Novoli. «Avevo solo tre anni – ricorda – quando con mia mamma sono scappata tra i palazzi a Trieste in mezzo ai bombardamenti. Oggi vedo quanto subiscono tanti bambini nelle guerre e i segni che porteranno nelle loro vite. Io per anni non riuscivo a camminare all’aperto perché avevo paura che i palazzi mi cadessero addosso. Nelle guerre, anche chi risulta vincitore ha perso».
Gli anziani sono capaci di grandezza e di bellezza. Don Marco Viola, priore della basilica di San Lorenzo, si guarda intorno nella sua chiesa e pensa a Donatello, «che finito il suo lavoro viene qui, a più di 80 anni, a realizzare due pulpiti: in uno Cristo, affaticato, esce dal sepolcro». Donatello ha consegnato in vecchiaia questi capolavori anche per dire agli anziani di non vivere da sepolti vivi. Ed eccola «la controffensiva» di cui parla Mauro anche in Teresa Bruno, 77 anni, originaria di Matera, che anima un servizio di distribuzione di vestiti nel centro di Firenze. Racconta del padre tornato dalla guerra, che vedeva ovunque possibili tradimenti. «La violenza non finisce con la guerra». Ma c’è un altro modo per continuare i conflitti. La guerra contro gli immigrati ad esempio. Teresa ricorda i senegalesi uccisi in piazza Dalmazia e Idy Diene sul ponte Vespucci della Città del Fiore, per sottolineare come la pace sia «preparata dalla protezione e dell’accoglienza dei deboli». «Ci domandiamo mai se abbiamo ferito gli altri? – chiede Teresa –. Questa domanda è un modo per vivere come persone pacifiche, mentre non fare niente, non chiedersi niente, è rendersi complici». Allora vigilare come anziani «perché la violenza non prevalga, come accade quando accade che amici non si parlino più e familiari si ignorino».
«Nessuno vuole essere forestiero del mondo»
Besnik Sopoti, artista italo-albanese che da molti anni vive a Modugno, in provincia di Bari, è nato in Italia da madre italiana e padre albanese. In seguito alle leggi razziali è stato costretto a trasferirsi in Albania dove è rimasto fino agli anni 90 e dove ha subito a lungo la condizione di intellettuale proibito. Dopo una battaglia di molti anni, nel 2017 è riuscito a riottenere la cittadinanza italiana. «Con l’informazione comincia la nostra formazione», dice. La voce degli anziani può risuonare nel presente, anche come espressione di un passato che parla e vive principi buoni. Nessuno vuol essere forestiero del mondo. Chi lo sa, non può accettare di vedere donne maltrattate e giovani morire. Ci sono «programmi», secondo Sopoti, preparati con cura «per trasformare gli altri in soldatini di piombo. Ogni dittatura esprime di fatto un’estetica volgare» e riandando a quanto vissuto in Albania, ricorda un ex stagnino con solo quattro classi elementari diventato presidente di un tribunale che condannava a morte patrioti, scrittori e filosofi. Lavorare ancora, sognare, chiamare a fare festa sono linee su cui muoversi anche da vecchi. Anche per questo Sopoti ha proposto a Firenze di istituire un «giorno della vita», vita che è sempre importante, vita che è relazione. A questo riguardo suor Giovanna Sgarra, francescana dell’Immacolata, ha raccontato di una signora malata di Alzheimer e ha riportato brani di una lettera del marito di lei: «Qualcuno mi dice che sono stato forte a restare, a impuntarmi a non lasciarla in istituto. Mi sento ferito da queste parole. Che cosa significa amare qualcuno, se non amarlo proprio quando non conviene? Rifarei tutto. La sposerei di nuovo».
Queste storie sono alternative ad altre scelte intergenerazionali. Vanna Bernini, di Firenze, rilegge il meccanismo ossessivo della ricchezza, un ingranaggio malefico e ossessivo: «Penso al gioco d’azzardo e a quanto sia illusoria e distruttiva la ricerca del vincere a ogni costo. Ho visto con i miei occhi quanto male può arrecare la ricerca ossessiva della vincita alle persone care ma anche alla vita di chi ne è preda». Natale Dimauro, è invece un romano che ha lavorato una vita nel settore degli impianti di condizionamento. Ora ha 86 anni. Alcuni anni fa ha cominciato a sentire il bisogno di «restituire qualcosa». Ha cominciato a telefonare agli anziani soli del suo quartiere, stringendo legami con loro e aiutandoli a restare nella propria casa fino alla fine: «Con l’idea del prendere o lasciare ci lasciamo andare a malinconie e tristezze. Ma l’incontro con gli altri, l’aiuto agli altri, ci fa riscoprire la felicità». È felice di quello che vive e si commuove Daniela Mariotti, che vive a Rufina. Ci scherza anche su, ricordando il ritornello di una canzone: «”Eravamo 4 amiche al bar che volevano cambiare il mondo…” e nel 2007 con le suore benedettine di Firenze ho portato i miei passi nella Repubblica democratica del Congo e precisamente nel Kasay, realizzando progetti a favore degli ultimi, dei dimenticati, nella profonda savana tra i pigmei, nei vari villaggi che oggi visitiamo portando aiuti alle mamme che con tanta fatica lavorano la terra, ai bambini che ogni anno calziamo, vestiamo, aiutiamo nella ripresa della scuola in un Paese dove non viene contemplato nemmeno il diritto allo studio».
Grazie all’azione di Daniela e dei suoi amici sono stati costruiti due pozzi, tre scuole, sostenuti bambini a distanza per lo studio, alimentazione e cure, ospedali («due padiglioni, l’ultimo dei quali inaugurato quest’anno durante il nostro soggiorno») con maternità, reparto neonatale, medicina generale. Questi sono anziani che colgono l’appuntamento con la Storia, che porta nelle nostre strade e nei nostri mari tanti migranti. Vito Fiorino aveva un’azienda a Milano. Ha deciso di andare a Lampedusa, nello sconcerto di parenti e amici, e ha chiuso la ditta dopo che i dipendenti avevano trovato un’altra sistemazione. Lui nell’isola ha messo a posto una barca. Ci andava a pescare, con gli amici. Una notte in mare ha sentito suoni da lontano e credeva fossero gabbiani. Invece, avvicinandosi alla fonte di quelli che sembravano sempre più lamenti, si è accorto che erano naufraghi che gridavano. Lui e gli amici hanno chiamato i soccorsi e nel frattempo hanno cercato di imbarcare quanti potevano tra mille difficoltà. Morirono 368 persone. Vito e i suoi amici hanno salvato quella notte 47 persone.
Vito, Mauro, suor Giovanna, Daniela, Marina e tutti gli altri hanno riaperto una finestra per essere di nuovo utili e ritrovare l’aria che fa respirare, per usare un’immagine di Vanda Valencetti che da 40 anni è impegnata nella Misericordia di Rifredi. Ora prepara e porta la cena ai senza fissa dimora con gli amici di Sant’Egidio: «Ho scoperto la bellezza di non fare le cose da soli». Ecco come si fa la controffensiva dell’amore, anche in mezzo alle tempeste.






