di Massimo De Angelis

Il ricordo di Gorbaciov e dalla sua visione della Casa comune europea – nel disegno di un mondo multipolare, purtroppo mai realizzato – è la premessa per una valutazione critica della situazione geopolitica attuale. Una situazione che va inquadrata anche in relazione alla questione della crisi della democrazia liberale (che sembra aver perso la sua spinta propulsiva a favore di sistemi «democratici» illiberali) e all’eclissi del modello di vita occidentale, da ricondurre principalmente all’affermarsi di una concezione che pone come unico principio di riferimento la scelta dell’individuo, nel contesto di un relativismo totale nel campo dei valori.

Quando Mikhail Gorbaciov parlava di «Casa comune europea»
Proverò a fornire alcune idee per un confronto su questo grande tema affrontando tre macro-temi, tre questioni principali: l’equilibrio mondiale in bilico tra unipolarismo americano e multipolarismo; la crisi della democrazia occidentale; i valori dell’Occidente e la loro eclissi.
Vorrei iniziare la disamina della prima questione rievocando la figura di Mikhail Gorbaciov, di recente scomparso. Incontrai Mikhail Gorbaciov nell’inverno del 1989. Facevo parte, insieme ad Antonio Rubbi e Giuseppe Boffa, della delegazione del PCI guidata da Achille Occhetto (del quale ero portavoce) che incontrò quella del PCUS capeggiata appunto da Gorbaciov. Ne ho scritto 20 anni fa nel mio Post (Guerini, 2003). E riprendo da lì alcune mie impressioni perché non avrei davvero nulla da mutare. «A quel tempo le sue proposte di politica internazionale avevano come principale interlocutore l’Europa. Poi egli cambiò in favore degli USA, e non credo che la cosa gli abbia giovato. Allora, all’inizio dell’89, la sua preoccupazione principale era quella di fugare le diffidenze degli americani, canadesi e inglesi per il progetto di Casa comune europea. Quel che ho sempre pensato, da quell’incontro in poi, è che la caduta dell’URSS ha lasciato vacante un ruolo geopoliticamente essenziale. Un ruolo di cerniera più che di capofila dell’URSS tra Occidente e blocco del “Terzo mondo”. Per i suoi rapporti con la Cina, col mondo islamico e africano ma anche per quelli con l’India e col resto del mondo asiatico. Un ruolo di cerniera non solo geopolitico, non solo militare, ma di cultura, di civiltà, antropologico. Tutti, ora, dobbiamo stare ben attenti a come riempire quel vuoto. Qui il discorso porta all’impianto universalistico del disegno di Gorbaciov. Alla sua quasi ossessiva attenzione per i problemi globali: l’ambiente, la demografia e la fame, lo sviluppo economico mondiale, e al suo vero sogno: l’interdipendenza come globalizzazione politica, guidata dalla politica. Questo, per lui, era il socialismo nell’epoca attuale. Mancava qualcosa di importante nel suo disegno. Quando si affrontò la riforma economica, parlò soprattutto di cooperative (una suggestione che gli veniva dal suo vecchio amico cecoslovacco Mlynar). E io pensai: ma come si possono illudere? Non vedono come è ridotta la società civile sovietica? Già Gramsci diceva che in Russia la società civile non esisteva, e lo stalinismo negli anni ha cosparso solo sale. Qui ci vorrebbe un dirigismo tecnocratico con management occidentale o addestrato in Occidente, un grande colbertismo russo, altro che cooperative!». Fin qui quanto scrissi. Si potrebbe tornare sui suoi anche gravi errori in campo economico che ebbero grande parte nel suo fallimento. Ma voglio qui soffermarmi sulla sua visione delle relazioni internazionali e del mondo globale. La sua grande idea era quella dell’interdipendenza che dava tutt’altro significato alla prospettiva socialista, e il suo sogno era quello della Casa comune europea che non doveva essere contro gli anglosassoni ma anzi includerli in una architettura di sicurezza mondiale. Un disegno universalistico, ben diverso da un disegno imperialistico. Si trovò però di fronte un certo cinismo americano e la solita ignavia europea. Kohl, del resto, pensava solo alla riunificazione.
Mitterrand alla Casa comune e a una confederazione europea ci credeva, ma forse non abbastanza o forse si sentiva solo o peggio era disincantato. Gorbaciov ebbe in questa partita una grande sponda in Giovanni Paolo II, che coltivava lo stesso disegno di Casa comune europea come volano del futuro, l’Europa a due polmoni, come egli stesso diceva. Ma il punto debole, come scrivevo allora, era la confusa prospettiva della perestrojka economica. Su questo tutto il suo disegno si insabbiò. Potere dalle ceneri. Già nell’89 i moti di Tienanmen e le vicende romene, le più gravi tra quelle di tutti i paesi dell’Europa dell’Est, furono dei campanelli d’allarme o meglio delle sirene. Avvenne poi la caduta del Muro. Credo che poco dopo, sarebbe interessante ricostruirlo, gli americani cominciarono a pensare di cambiare cavallo. E forse non fu allora un caso che nei paesi baltici, segnatamente in Lettonia, vi furono nel 91 i moti per l’indipendenza che videro l’opposizione di Gorbaciov. Si arrivò così allo «strano» golpe organizzato da Kriuschkov, capo del KGB. Al golpe seguì l’incoronazione di Eltsin e la strettamente connessa dissoluzione dell’Urss che il nuovo zar con ogni evidenza aveva promesso ai suoi sostenitori. Sono convinto che già in Lettonia la Nato avesse dato il là al primo rullio di tamburi che porterà alla presenza in quasi tutti i paesi ex URSS, sino alle tragiche vicende ucraine di questi giorni.
Eltsin, in cambio della leadership, consentì e garantì tutto ciò, oltre a una liberalizzazione selvaggia e incivile della società e dell’economia russa. Gli americani non potranno mai essergli grati abbastanza.

Il Blocco non occidentale
Il grande sogno di Gorbaciov e di Giovanni Paolo II finì con ciò nei cassetti della storia. Al suo posto furoreggiò l’unipolarismo USA interpretato da Clinton, uno dei più luccicanti e meno lungimiranti presidenti della storia americana. In ciò, si può dire ex post, Gorbaciov si rivelò ingenuo e si espose troppo. Quel che è ad ogni modo certo è che la fine del disegno di Casa comune europea e di sicurezza globale non è rimasto senza conseguenze. E i nodi non sciolti allora vengono ironicamente al pettine oggi. Dopo aver a lungo covato risentimento per l’umiliazione patita e per le crescenti pressioni militari della NATO, la Russia ha gettato il dado della guerra in Ucraina mentre cresce la tensione strutturale Usa-Cina. La Casa comune europea rischia di diventare l’inferno europeo; la sicurezza comune ancora vagheggiata, alquanto velleitariamente, da Bush Jr. e Putin a Pratica di Mare, sembra diventare nuova guerra fredda.
Non è ancora chiaro quali saranno gli esiti del confronto militare in Ucraina.
Alcuni effetti si possono però cogliere a occhio nudo: soffrono innanzitutto le economie europea e russa (cosa ovvia e prevedibile vista la loro interconnessione), molto meno quelle cinese e americana; l’Occidente ha cercato il primo mese di guerra di fare della Russia un Paese paria puntando al regim change. Il tentativo però, nonostante le enormi pressioni, è sostanzialmente fallito. È emersa invece una nuova divisione in blocchi: Occidente da una parte, Cina, Russia, India ma anche in prospettiva buona parte del mondo arabo e anche sudamericano dall’altra. È questo un processo fluido ma va tenuto in conto che il blocco non occidentale raggruppa la maggior parte della popolazione mondiale e un PIL che va verso il 40%. Non solo. È un blocco che ha dalla sua grandi risorse in campi strategici: alimentare e materie prime. Questi dati fanno emergere un quadro su cui riflettere: l’unipolarismo USA e/o occidentale sembra essere respinto nella sua vasta dimensione economica, culturale, geopolitica e strategica. Tuttavia non è detto che gli USA siano rimasti sorpresi da ciò. Forse essi hanno messo nel conto tale parabola già allorché hanno abbandonato l’Afghanistan e con l’Ucraina hanno pensato di cogliere la palla al balzo. Pensando di sostituire l’unipolarismo d’antan col blocco delle democrazie occidentali unite guidate dagli Usa, contro il mondo delle autocrazie. È questo il nuovo bipolarismo per il prossimo futuro cui pensa la Casa Bianca. In esso si staglia a occidente una divaricazione tra il mondo anglosassone dei five eyes (Usa, Canada, Gran Bretagna, Australia, Nuova Zelanda) e l’Europa. Il primo sottoinsieme è lontano dai conflitti, ha sufficienti materie prime e produzione alimentare, il secondo è al centro dei conflitti (in Europa ma anche in Medio Oriente), è carente sia di materie prime che alimentari, è e sarà sottoposto a ondate migratorie bibliche.
Va tenuto conto che anche nell’altro blocco la guerra in Ucraina sta spostando pesi dalla Russia alla Cina. Si può perciò concludere che questa guerra costituisce probabilmente il terzo e ultimo suicidio europeo (la Germania, insieme all’Italia, rischia di essere il Paese che più degli altri uscirà con le ossa rotte). Mentre produrrà una crescita di ruolo di USA e Cina, con uno spostamento definitivo nel Pacifico del cuore del mondo nel quale i five eyes più Giappone hanno senz’altro una posizione di partenza favorevole verso la Cina che potrebbe avvantaggiarsi a sua volta di una stabilizzazione in Ucraina che I five eyes, al contrario, vedono come fumo agli occhi.
Sembra insomma di essere tornati a Schmitt e alla sua tesi degli imperi di terra e di mare. Gli anglosassoni, impero di mare per eccellenza, è probabile conquisteranno un vantaggio strategico fondamentale dalla guerra in Ucraina.
Ho voluto partire da Gorbaciov perché le soluzioni che si prospettano oggi sono l’esatto opposto di quelle pensate allora: lì era al centro la Casa comune europea, qui si presuppone che la Casa europea è spezzata e in fiamme; lì vi era il disegno di un mondo che affrontava insieme le sfide globali realizzando una architettura di mutua sicurezza, qui si assume il ritorno alla Guerra fredda, agli armamenti e al mondo diviso (col quale, si noti, affrontare i grandi problemi ecologico, della fame e dell’immigrazione è impossibile se non attraverso la guerra). L’unica cosa che si può sperare è che in Europa e nel mondo sorgano, come 50 anni fa, forze pronte a battersi per la distensione, il multilateralismo, la pace e la cooperazione mondiale.

È finita la spinta propulsiva del modello liberaldemocratico?
Sembra essersi esaurita la spinta propulsiva del sistema liberaldemocratico nel mondo. Non cresce più il numero dei paesi che accettano questo sistema, mentre cresce il peso geopolitico di sistemi più o meno autocratici. Tale trend ha una causa ideale di fondo: con sempre maggior difficoltà i due termini, liberalismo e democrazia si tengono insieme. E in effetti, quei regimi più o meno autocratici si ritengono bensì democratici, o aspirano ad esserlo, ma vogliono essere non-liberali.
Come si sa la democrazia ha come soggetto il popolo, mentre il liberalismo ha come soggetto privilegiato l’individuo.
Ebbene, in Occidente il primato sempre più assoluto dell’individuo sta erodendo l’altro soggetto: il popolo. Il popolo, la nazione, è il più grande soggetto collettivo insieme ad altri: la famiglia, la generazione, le comunità religiose, culturali, etniche. Il popolo racchiude memoria e sentimento di sé che permea gli individui, costituendo la loro storia e il loro destino. Dando vita, attraverso la lingua, a una coscienza personale e collettiva. A una cultura. Ma oggi il popolo, la nazione, sta perdendo peso culturale e politico.
Alcuni fenomeni sembrano essenziali nel determinare questa parabola. Nella globalizzazione l’economia di mercato ha accentuato squilibri e disuguaglianze tra strati sociali e territori. Tanto più ove, come in Occidente, essa è poco o nulla sottoposta a una moderazione statale. La stessa economia sociale di mercato europea, che un tempo moderava, rispetto al liberismo anglosassone, i fenomeni di concentrazione, soprattutto tra finanza e industria, ora, attraverso l’esaltazione unilaterale del principio di concorrenza, è divenuta un cappio al collo per le economie meno forti. Ma soprattutto l’individualismo occidentale e la proliferazione continua dei cosiddetti «diritti umani» (come vedremo meglio nel terzo macro-tema), finisce col porre come unico valore condiviso e condivisibile la libertà di scelta individuale mentre l’oggetto di tale scelta, il bene o male comunque venga esso inquadrato, non è oggetto possibile di confronto pubblico. E questo, come chiaro, oscura la possibilità di valori comuni e quindi di un sentimento comune che è la radice di una identità nazionale o popolare che dir si voglia. A questo si deve aggiungere la crescente composizione multietnica delle società occidentali e lo sradicamento culturale prima ancora che territoriale degli individui. Ebbene, questi fenomeni avrebbero bisogno, per produrre integrazione in una nuova comunità, esattamente di una maggiore identificazione in una educazione, cultura e sentimento, di una identità comune da realizzarsi anche attraverso forme di «meticciato», mentre l’individualismo assoluto che contesta in principio persino il valore dell’educazione e che porta al disconoscimento di ogni valore condiviso (tradizione, religione ecc.), oltre che del primo nucleo sociale fondamentale, la famiglia, recide le radici di ogni identità popolare e trasforma inesorabilmente il popolo in quanto entità (anche miscela) omogenea in moltitudine, miscuglio eterogeneo, massa. In effetti da alcuni decenni stiamo assistendo alla trasformazione del sistema liberaldemocratico in sistema liberal-liberista. Questo, e il già considerato svuotamento del soggetto popolare, ha come conseguenza la crisi dell’istituto democratico stesso e delle sue istituzioni. Il distacco tra popolo e istituzioni (di cui è sintomo anche il sempre crescente astensionismo elettorale, così come, per altro, lo sono le vampate elettorali populiste) produce e si traduce nella crisi del momento della rappresentanza e nell’ipertrofia di quello della governabilità, che dovrebbero armonizzarsi, mentre il secondo toglie sempre più spazio al primo. Tutto ciò è il riflesso di un peso sempre maggiore delle élites (élites peraltro sempre più dominanti ma sempre meno capaci di egemonia e sempre meno colte perché sempre più separate dalla linfa popolare e sempre più autoreferenziali). Élites o forse è meglio parlare di oligarchie giuridiche-finanziarie-tecnocratiche-informative. E in effetti il governo delle tecnocrazie è oggi all’ordine del giorno. Tale parabola è particolarmente marcata nella UE, dove i poteri principali sono sottratti a un rapporto diretto con la fonte popolare, ma è per altro verso particolarmente marcato ed evidente in Italia, dove, praticamente, con la parentesi del Governo Renzi, hanno governato dei tecnici (Monti, lo stesso Conte, Draghi) dal 2012 a oggi. Sia chiaro, è oggi impossibile per la politica governare se essa, non essendo in grado di incorporare nelle sue decisioni un alto quid di competenze tecniche. Ma altro è questo, altro è sostituire la politica con la tecnocrazia. Il problema è chi guida i processi e con quale legittimazione.

La premessa della crisi dei valori occidentali
La premessa filosofica della crisi della parabola dei valori occidentali va molto in là nel tempo. Ha le sue origini nella svolta filosofica «soggettiva» di Cartesio e in quella religioso-morale di Lutero che ha posto in primo piano il valore della scelta rispetto all’oggetto della medesima. Il tutto portato poi a sintesi critica nel pensiero di Nietzsche. Tutto ciò – lo sottolinea anche Fukuyama nel suo ultimo libro Il liberalismo e i suoi oppositori (Utet) – oltre a indebolire l’autorità delle istituzioni (a cominciare da quelle formative e morali), ha condotto a far sì che l’unico valore indiscutibile sia la libertà di scelta di ciascun individuo nella sua autonomia assoluta, mentre è sempre meno accettato come oggetto di discussione pubblica l’oggetto di tale scelta. In ciò si consuma il passaggio da un liberalismo che considerava valido ogni punto di vista al fine di approssimarsi alla verità, a un altro liberalismo, molto più unilaterale e aggressivo, che pone come unico valore la scelta individualista nel contesto di un relativismo assoluto dei valori. Questo relativismo e il sottostante, crescente, formalismo del pensiero filosofico liberale (vedi Rawls) ha come effetto paradosso, per fare un esempio, che per esso non ci sia nessuna differenza morale tra un figlio di papà che passa tutto il giorno sul divano a chattare sul computer o a vedere serie televisive e una ragazza di umili origini che si dà da fare per studiare e insieme lavorare per mantenere se stessa e la propria madre. Se il criterio è fare ciò che si vuole senza danneggiare un altro, non c’è modo di definire la condotta della ragazza migliore di quella del ragazzo.
In effetti, e a conclusione, si registra oggi una crescente separazione tra individuo e consapevolezza morale.
Le conseguenze di tale mentalità sulla nascita e tenuta delle famiglie nonché sull’etica pubblica e sulla coscienza civile sono chiare a tutti. Risulta immotivabile, nel contesto del relativismo, ogni ipotesi di educazione, che viene infatti contestata, risultando legittima solo la formazione professionale e tecnica. Qui va però notato un altro fondamentale fenomeno del presente. Al posto dell’ethos pubblico cresce quella che il filosofo francese Philippe Nemo ha definito religione di sinistra. Essa, un po’ come la rivoluzione robespierrista, vuole i propri santi, le proprie feste e i propri dei. Essa santifica il politically correct, che trova la sua festa di riferimento nei gay pride, e, nel nome dell’uguaglianza di tutti nella libertà assoluta di ciascuno, mirano a fare di questa una verità non condivisa ma imposta, attraverso leggi come quelle francesi che negano la libertà di pensiero, o movimenti come il cancel culture.
È attraverso questo passaggio che il liberalismo individualistico giunge a inflessioni virtualmente totalitarie, perché tende a espellere dal mondo della cultura, dell’informazione e, in definitiva, dalla vita sociale qualsiasi pensiero non conforme all’individualismo stesso come valore assoluto che si autocelebra, valido per il presente, per il futuro, ma anche per il passato, attraverso la demonizzazione di ogni memoria e di ogni figura storica che abbia vissuto secondo costumi diversi da quelli attuali, demonizzando del pari ogni pensiero non conforme a tale politically correct come relitto del passato che in quanto tale è da condannare.
Va considerato che tale momento totalitario del liberalismo attuale ha una volontà di espandersi non solo nel tempo ma anche nello spazio, portando a quella volontà di uniformare a sé valori e comportamenti di tutte le comunità mondiali, che devono uniformarsi al villaggio globale e al suo credo individualistico, respingendo come folclore ogni tradizione e mentalità non conforme. Si tratta di un unipolarismo ideologico che si accompagna, supporta ed è supportato da quello politico-strategico di cui abbiamo parlato all’inizio e che mira, un po’ come nel sogno marxista, a edificare un uomo nuovo.
Un liberale onesto deve chiedersi: questo liberalismo è compatibile con la libertà autentica? Questo liberalismo-liberista, distruggendo tutte le vie di costituzione di identità, personali ma soprattutto di gruppo, va verso il postumano come sbocco necessario. In quest’ottica è centrale la connessione con l’innovazione scientifico-tecnologica. Quella neuroscientifica e biotecnologica che, attraverso il farmaco, può penetrare, alterare e sedare l’interiorità e quella digitale che pure penetra e manipola i meccanismi più interni dell’individuo (inconscio e pulsioni) condizionandoli, orientandoli, rendendoli prevedibili e sedandoli. Infine, la narrazione di Orwell e di Huxley hanno qualche fondamento anche se, per ora, non hanno dato vita al grande potere. Ma da questo punto di vista va approfondita la riflessione sull’enorme potere esercitato in tutti i campi dal manipolo di piattaforme digitali e dalla loro persuasione algoritmica. Per questa via l’uomo è destinato a liberarsi del suo Sé acquisendo una coscienza sempre più legata alla tecnica, sempre più orientata a scegliere e decidere, sempre meno consapevolmente, e sempre più automaticamente o in modo farmacologicamente e informaticamente guidato.

Il tipo umano del futuro
Si può immaginare un tipo umano alternativo a quello offerto dal tardo individualismo, in grado di garantire un futuro a se stesso? Concludo con questa domanda condita da una indicazione. L’indicazione è quella di soffermarsi sulle riflessioni al riguardo di Romano Guardini, specie quelle de La fine dell’epoca moderna. Il potere. L’uomo dovrebbe avere un rapporto originario col potere. «Quest’uomo – egli scrive – deve saper accettare che il senso della cultura del futuro non è il benessere ma il dominio».
Quest’uomo sa di essere l’ente più arrischiato (si pensi all’Heidegger di Sentieri interrotti e alla poesia di Rilke che egli lì commenta) e sa che il mondo è affidato alla sua responsabilità. «L’uomo del futuro è decisamente illiberale» sostiene Guardini. Sa comandare e obbedire e ha un nuovo senso dell’ascesi. In un certo senso la sua è una rinuncia all’Io per il Sé.