di Vannino Chiti

Il rapporto con il mondo cattolico ha costituito una radice fondamentale della diversità che ha caratterizzato i comunisti italiani sia nei confronti del comunismo internazionale che degli stessi socialisti europei. Le caratteristiche peculiari della società italiana, per la presenza forte della Chiesa e per la diffusa religiosità popolare, hanno spinto il PCI a interrogarsi sul rapporto con la religione, a dare un’interpretazione non dogmatica del marxismo e a sostenere la pluralità delle vie per la costruzione del socialismo. Da quella storia va ricavata la lezione relativa all’importanza del rapporto fra credenti e non credenti anche per affrontare le grandi sfide del mondo contemporaneo.

Il destino di un’idea
La mia tesi è che per i comunisti italiani, archiviata la fase di Amadeo Bordiga, il rapporto con il mondo cattolico abbia rappresentato una radice fondamentale della diversità che li caratterizzò nel movimento comunista internazionale e, per tutti gli anni Cinquanta, rispetto agli stessi socialisti europei. Il doversi misurare con una società, quella italiana, nella quale il cattolicesimo aveva la sua guida universale e al tempo stesso un carattere popolare, sollecitò i comunisti ad analizzare le differenze tra Russia e Occidente, ad approfondire la pluralità delle vie per la costruzione del socialismo, a darsi un’interpretazione non dogmatica del marxismo. Questa tesi l’ho sviluppata in un libro uscito di recente Il destino di un’idea e il futuro della sinistra: qui mi limito a qualche schematica sottolineatura. La diversità del PCI nel movimento comunista internazionale è riconosciuta anche da quanti non condivisero le sue idee. Meno nota è quella con i socialisti europei. In questi ultimi, fino al 1958, Congresso dei socialdemocratici austriaci, e soprattutto al 1959, quello dei socialdemocratici tedeschi a Bad Godesberg, prevaleva nei confronti della religione un’impostazione illuministico-positivista: sarebbe scomparsa con il progresso della scienza, della tecnica e il superamento del capitalismo. Il revisionismo nei partiti socialisti europei assumerà a riferimento una comunanza di valori e aspirazioni con il cristianesimo, insieme all’abbandono del marxismo. In Italia percorso ed esito saranno gli stessi, ma si verificheranno assai più tardi, nella seconda metà degli anni Settanta, con Bettino Craxi alla testa del partito. Basti pensare che la stagione del centro-sinistra non sarà impostata dal PSI come accordo di governo tra una forza di sinistra e una moderata o conservatrice, ma come incontro storico tra socialisti e cattolici: una delega alla DC della rappresentanza politica del mondo cattolico, quando in questo mondo, per le spinte innovatrici del concilio Vaticano II, maturava il pluralismo.

Il ruolo chiave di Gramsci
Gramsci ha un posto chiave in una cultura che varca i confini storici del suo tempo e quelli del PCI: è sua l’analisi della complessità della società civile in Occidente, non solo di quella italiana se si ha in mente americanismo e fordismo; sua l’elaborazione del concetto di egemonia per realizzare il socialismo attraverso la conquista progressiva del consenso, la «guerra di posizione», non come in Russia con la presa del potere nello Stato e poi il governo imposto alla società; suo è anche il primo studio approfondito di un marxista italiano sulla religione, sviluppato da un lato in rapporto al senso comune, dall’altro a una visione della società in cui la sovrastruttura non è mera espressione dell’economia e dei rapporti di proprietà. In questo quadro rifletterà sul cattolicesimo, sulla storia secolare della Chiesa, sull’esperienza che lo affascina di San Francesco, sul legame tra gerarchie e intellettuali, sull’Azione cattolica, sui rapporti tra masse popolari e fede. Gramsci non è credente ma nella sua opera non c’è una banalizzazione della religione. Sul piano più direttamente politico è attento alla nascita del Partito Popolare, alla sua influenza nel mondo contadino, ritiene indispensabile risolvere la «questione romana», dando al papa garanzie internazionali sulla sua autonomia e libertà.
È contrario invece al Concordato. La sua concezione si fonda sulla prassi, sulla soggettività dell’uomo che nell’agire storico realizza la sua liberazione. Ha e ritiene indispensabile una fede anche se laica. Ci sono pagine straordinarie nelle quali sottolinea come la trasformazione socialista sia opera di lungo periodo ed esiga una fede, perché la maggiore difficolta consisterà nel saper cambiare noi stessi, gli orizzonti e il senso della nostra quotidianità, senza cui non può nascere una società più libera e giusta.

L’apertura ai cattolici: un tratto caratterizzante
Il partito nuovo ha fin dall’inizio nel rapporto con il mondo cattolico un tratto caratterizzante. Nel giugno del 1945, alla prima conferenza delle donne comuniste, Togliatti mette in evidenza come la religiosità non sia causa di arretratezza né un ostacolo per l’emancipazione, se non interviene una propaganda reazionaria estranea al vero sentimento religioso. A fine anno, al V Congresso, viene approvato l’articolo 2 dello statuto: possono iscriversi al PCI tutti i cittadini che, compiuti 18 anni, ne condividano il programma politico «indipendentemente dalla razza, dalla fede religiosa e dalle convinzioni filosofiche».
Nello statuto resta il riferimento al marxismo-leninismo come dottrina guida, ma la contraddizione non annulla una novità assoluta per i partiti comunisti e socialisti. Non è mia intenzione dare l’idea di percorsi lineari. Il rapporto con il mondo cattolico resta tuttavia un orizzonte mai smarrito, neanche negli anni delle polemiche aspre con la Chiesa di papa Pacelli, delle scomuniche, dello scontro politico frontale con la DC dei governi centristi. Senza la consapevolezza dell’essenzialità di quella radice non si comprende il voto del PCI sull’articolo 7 della Costituzione, che assume nella Carta fondativa della Repubblica il Concordato del 1929. Si ridurrebbe la scelta a tattica contingente, a realismo politico – certo presente – per garantire la pace religiosa del popolo italiano e la tenuta delle ancor fragili istituzioni democratiche. In Togliatti vi è anche la volontà di presentare il PCI come interlocutore della Chiesa, garante delle libertà e protagonista dell’unità tra masse popolari cattoliche, socialiste e comuniste. Due i capisaldi: incontro e con i cattolici ma nella distinzione dei reciproci valori; priorità sul piano politico ai rapporti con la DC, ma senza smarrire l’attenzione verso il mondo cattolico nel suo complesso. Sta qui una differenza tra PCI, socialisti e forze laiche, che talora darà luogo nella base a una sintonia più forte tra comunisti e democristiani. Non è un artificio la sottolineatura fatta da padre Turoldo del PCI come secondo partito cattolico o comunque destinatario dei voti di masse popolari cattoliche né, negli anni Ottanta, la nascita delle cosiddette giunte anomale, realizzate attorno ad alleanze locali tra PCI e DC. Tra il 1948 e il 1956, fino al XX Congresso del PCUS e la denuncia dei crimini di Stalin, l’azione innovatrice di Togliatti si blocca: è la fase della Guerra fredda.
Il PCI, come si vedrà nella posizione assunta di fronte alla repressione della rivoluzione ungherese operata dall’Armata rossa, è allineato alle posizioni dell’Unione Sovietica. Togliatti è e resterà un uomo della Terza Internazionale.
Il suo impegno sarà quello di impostare, con la via italiana al socialismo e l’unità nella diversità, un rinnovamento culturale e politico fondato sull’autonomia delle esperienze nazionali, così da renderlo compatibile con la preminenza dell’URSS e del campo socialista.

Il 1962, un anno cruciale
Nella riflessione sulla religione si registrano sviluppi di rilievo: al X Congresso nel 1962 è assunta l’impostazione che una «sofferta coscienza religiosa» di fronte ai problemi del mondo contemporaneo è di stimolo per realizzare il socialismo. La scelta socialista può essere fatta non «nonostante» la fede religiosa ma in coerenza con essa. A questo esito si perviene sulla base di due novità di segno diverso: la guerra, che con le armi atomiche rappresenta un rischio di distruzione dell’umanità e la vitalità mostrata dalla Chiesa con il pontificato di papa Giovanni. A metà degli anni Cinquanta comunisti, sinistre, movimento cattolico guidato da personalità come La Pira si erano ritrovate insieme nell’impegno per la pace e il disarmo. Giovanni XXIII con l’enciclica Pacem in terris segna una svolta: rivolge il suo appello a credenti e non credenti e scolpisce nelle relazioni tra Chiesa e mondo la distinzione tra «errore ed errante». Finisce il tempo delle scomuniche e tramonta il disegno di un rilancio del primato cattolico fatto coincidere con l’Occidente, il mondo capitalistico, la promozione di crociate politiche. È convocato il Concilio Vaticano II: la Chiesa si interroga su come trasmettere la fede, sull’opzione per i poveri, la dignità della persona e la liberazione dei popoli.
Togliatti, a Bergamo, nel discorso su Il destino dell’uomo, colloca l’incontro tra credenti e non credenti su un terreno nuovo, quello della lotta all’alienazione. Le sue cause non sono individuate solo nella proprietà privata dei mezzi di produzione ma nella esclusione dei più dalla partecipazione alle decisioni collettive, nella omogeneizzazione che impone consumi superflui e identità fittizie. È un ponte sul futuro. Togliatti morirà poco dopo.
Non passerà molto tempo che il mondo comunista entrerà in crisi profonda e si frammenterà; per ragioni diverse, l’affermarsi del pluralismo nelle scelte temporali, neanche il mondo cattolico si presenterà più come un’entità omogenea. Non è possibile affrontare insieme l’alienazione senza condividere gli stessi valori.

Alla luce del pluralismo
A metà degli anni Sessanta si sviluppa, non solo in Italia, un confronto culturale tra cattolici e marxisti: Firenze ne è protagonista. La città vive esperienze che lasciano tracce indelebili nella Chiesa e nella politica: don Milani, padre Balducci, don Facibeni, La Pira. Nel dialogo si ricercano fondamenti teorici che sostengano possibili convergenze pratiche. Il tema centrale è se il marxismo sia separabile dall’approccio ateistico che vi si è collegato, tanto da divenire in URSS e nei paesi dell’Est dottrina di Stato; se il materialismo storico possa essere assunto anche dai credenti per analizzare i cambiamenti sociali. Uscirà un libro Il dialogo alla prova, che segna un’epoca: ne sono autori tra gli altri Gozzini, Lombardo Radice, Di Marco, Orfei, Gruppi e Meucci. Dieci anni dopo alcune personalità come Mario Gozzini, Raniero La Valle, Massimo Toschi, il pastore Tullio De Vinay saranno candidati indipendenti nelle liste del PCI. La Chiesa con Paolo VI deplorerà ma non ci sono scomuniche: del resto associazioni cattoliche, figure di primo piano come Balducci, Turoldo, Enzo Bianchi difendono la legittimità di quella scelta. Il pluralismo è diventato irreversibile nel mondo cattolico: ne è una conferma il Convegno della CEI su Evangelizzazione e promozione umana, l’approdo più alto raggiunto dalla Chiesa italiana nel dopo Concilio. È cresciuto il dissenso verso la DC. Il Centro-Sinistra ha rapidamente consumato la sua carica riformatrice e gestisce una normalizzazione esposta al dilagare della crisi economica, dell’inflazione e agli attacchi dei terrorismi fascisti e del brigatismo rosso. Sono gli anni di Enrico Berlinguer, del compromesso storico, della solidarietà nazionale. Soprattutto con Berlinguer il PCI fa sue due concezioni che vanno oltre Togliatti e la Terza Internazionale, anche se troppo tardi se ne trarranno le conseguenze: la democrazia come valore universale, non più dunque fase di transizione o una delle vie per realizzare il socialismo, ma fondamento del socialismo; la laicità. Nella concezione del partito, la laicità è senso del limite. Compito della politica non è rispondere agli interrogativi sull’origine del mondo e della nostra vita, se ci sarà o meno un «dopo» al suo termine terreno. La politica della sinistra deve proporre un progetto di società, relazioni più giuste e libere tra persone e popoli, il primato della dignità di ognuno, l’uguaglianza tra uomini e donne, la realizzazione della pace. È questo il significato della risposta alla lettera del vescovo Luigi Bettazzi, il senso delle parole che il PCI vuole essere laico e democratico e «come tale non teista, non ateista e non antiteista». Nel 1979 il XV Congresso cancellerà dallo statuto il riferimento al marxismo come ideologia comune. Il partito può avere a suo riferimento una pluralità di culture progressiste: il marxismo è una di queste ma non nella sua vulgata che lo riduce a materialismo ateistico. È la condizione della pari dignità politica di credenti e non credenti.

Ricordi personali
I protagonisti di quel lontano dialogo tra cattolici e comunisti, le personalità che sfidando l’incomprensione dei fratelli di fede si candidarono da indipendenti nel PCI hanno avuto ragione: si può operare insieme, condividendo nell’agire politico valori comuni; l’ateismo non è un tratto costitutivo della sinistra. E hanno avuto ragione quanti hanno sofferto per gli impedimenti posti al manifestare pubblicamente il loro essere credenti e comunisti, ma non hanno rinunciato a farlo. Mi legano a questa fase politica due ricordi di ordine personale: mi impegnai direttamente per inserire nelle tesi del XV Congresso la cancellazione del richiamo al marxismo-leninismo. Con Mario Gozzini facemmo tante iniziative per sostenerlo. Poi, anni dopo, nel 1988, da segretario regionale del PCI, indirizzai una lettera pubblica ai vescovi della Toscana. Sottolineavo la necessità di rendere praticabile anche in Italia da parte della Chiesa il pluralismo nelle scelte politiche per i cattolici e indicavo alcuni temi fondamentali su cui confrontarsi e operare insieme, nel rispetto della reciproca autonomia. Il cardinale Piovanelli, arcivescovo di Firenze, portò la lettera per una riflessione e risposta comune nella Conferenza episcopale toscana. Tempo dopo, quando ero presidente della Regione, avemmo occasioni per riparlarne. Con padre Balducci ebbi un paio di confronti: uno a tu per tu, assai schietto; l’altro anche con il direttivo di «Testimonianze». Nella discussione a due padre Ernesto mi disse di condividere i contenuti, i temi su cui operare con il mondo cattolico ma che secondo lui esageravo il ruolo e l’importanza dei vescovi. Non erano più in grado, al di là di un’autorappresentazione benevola, di orientare i credenti nelle scelte di ordine temporale. La mia convinzione, ribadita, era che si potesse e dovesse rivolgersi all’area cattolica e anche alle gerarchie, che non si dovessero lasciare rendite ed esclusività di relazioni e che questo fosse utile per la Chiesa e per la sinistra.
Vado con una certa nostalgia a quei momenti, a ricordi di discussioni su impostazioni di rilievo, su un interrogarsi sul futuro, sui percorsi compiuti e sui traguardi ancora da definire.

La politica deve ancora porsi la questione della religione?
Fin qui la mia corsa schematica nella storia dei rapporti tra PCI e cattolici. L’intento non è solo quello di tenere viva una memoria storica ma anche di interrogarci sulla lezione che può venire al nostro presente. Si riassume in una domanda: la politica deve ancora porsi la questione della religione? Della religione, non solo del cattolicesimo, perché siamo interpellati da un pluralismo delle fedi. La destra nel mondo si è posta il tema della religione: l’obiettivo è renderla uno strumento ideologico di cui servirsi per la sua narrazione, per un’opera di divisione tra persone e nazioni; per conservare un’economia che si regge su disuguaglianze e saccheggio dell’ambiente; per giustificare l’abolizione di un welfare universale. Altre forze, che concepiscono la politica moderna come estranea ai valori, sono indifferenti: il loro obiettivo è il successo personale, spregiudicato, strumentalizzando le emozioni del momento. Altri sognano una nostalgica e anacronistica riedizione della DC. La sinistra dà spesso per scontato il sostegno dei credenti.
È un errore. La presenza nei partiti di sinistra dei credenti è tanto indispensabile quanto da costruire. Indispensabile perché senza nuovi valori non si esce dalla crisi: dignità di ogni persona, ecologia, diritti umani, pace, non si affermano senza un impegno comune di credenti e non credenti. Le sfide antropologica ed ecologica non si vincono senza il contributo delle religioni. Papa Francesco con il suo magistero e con le encicliche Laudato si’ e Fratelli tutti dà un messaggio al mondo; il dialogo interreligioso è decisivo per il bene dell’umanità. Le fedi orientano le moltitudini e dai credenti può venire l’impulso a un progetto di società, che abbia contenuti di radicalità nella qualità delle relazioni umane, sociali e nello sviluppo. È l’idea di un nuovo umanesimo per non rassegnarsi alle ingiustizie del presente e costruire una società libera, responsabile, giusta e fraterna.