di Emma Fattorini

Una giovane studentessa si avvicina alla redazione di «Testimonianze», in via Gino Capponi, spinta dalla volontà di approdare dalla natia Romagna alla facoltà di Lettere e Filosofia di Firenze, ma, soprattutto, di venire a contatto con gli stimolanti ambienti del cattolicesimo fiorentino «del dialogo». Una ricostruzione nel flusso di ricordi di anni intensi, ricchi di discussioni teologiche e politiche stimolate da padre Ernesto Balducci e dal gruppo di intellettuali che animavano la rivista.

La sede di via Gino Capponi era bellissima
La sede in Via Gino Capponi era bellissima. Luminosa e soleggiata di giorno, con un giardino interno ricco di agrumi, la sera era particolarmente buia, come la strada, scarsamente illuminata. Una oscurità che aveva qualcosa di intimo e di raccolto. E uno dei miei primi ricordi è il buio. Lì lungo la strada, mentre stava superando la nostra sede incontrai un amico; mi disse che doveva proseguire, con i fratelli Giovannoni, per andare alla redazione di «Note di cultura»: «Sai, dobbiamo sistemare tanti libri di La Pira». La sede si sviluppava in profondità: si attraversavano diverse stanze una dentro l’altra, per il lungo; tra le prime postazioni si affacciava il viso luminoso dal sorriso rassicurante di Maria Teresa Pacini, «la Segretaria». In realtà una compagna di vita e di spiritualità di tanti, i più «vecchi» che avevano cominciato con Il Cenacolo, e la rivista «Testimonianze» nel 1953.
Con il tempo avrei scoperto la sua profondità, la sua intelligenza e la sua vicinanza. Il suo sguardo incoraggiante significava tante cose, soprattutto che potevo proseguire fino all’ultima stanza, quella che chiudeva la sequela delle stanze, quella di padre Ernesto Balducci. Che potevo proseguire oltre e arrivare a quella sancta sanctorum, io giovincella, la più piccola, matricola di Lettere e Filosofia, proveniente dalla provincia romagnola. E soprattutto: donna. Quante volte, prima con una certa diffidenza, poi come incoraggiamento e infine con plauso mi sentivo dire: «Sei la prima donna che fa parte della redazione di “Testimonianze”». Una comunità davvero accogliente ma in quegli anni ancora «maschilista» e molto «fiorentina». Per questo Maria Teresa, si occupava di me con vera sollecitudine, indimenticabili alcune domeniche, quando mi ospitava nella sua bella casa confortevole, per ristorarmi dai miei luoghi studenteschi da fuorisede.

Una scelta convintissima
Non ricordo a chi sarei dovuta essere grata per questo privilegio: essere la prima donna. Non ricordo chi mi accompagnò in via Gino Capponi, certo che non ci arrivai distrattamente. La scelta di iscrivermi alla facoltà di Filosofia e trasferirmi a Firenze anziché a Bologna dopo il liceo, contravvenendo alla consuetudine familiare, era stata meditata e convintissima: volevo incontrare, immergermi nel cattolicesimo fiorentino «del dialogo», e studiare filosofia con professori che ne spiegavano i presupposti teorici e che divennero i miei maestri. La mia generazione, si era formata ai libri di Dietrich Bonhoeffer, e di Don Lorenzo Milani – Lettera a una professoressa, era per noi il livre de chevet – ai testi conciliari, e a quelli dei teologi europei che ci sforzavamo di leggere nelle lingue originali. Una generazione che vedeva nel cattolicesimo fiorentino, il faro di quel variegato mondo del dissenso post-conciliare e delle sue riviste. Tra cui la più prestigiosa e autorevole, certamente ai miei occhi, era «Testimonianze». E l’Università di Firenze ci offriva un raro orizzonte internazionale: dal filosofo Cesare Luporini sentivo parlare dei mitici convegni internazionali promossi dalla Paulusgesellschaft sul dialogo tra marxismo e cristianesimo. La profondità e la vitalità di quel laboratorio, così originale, aveva radici lontane. «Testimonianze» nasce nel 1958 dall’esperienza del Cenacolo che dal 1953 vide crescere un gruppo di giovani, intorno alla figura di Ernesto Balducci e con alle spalle la grande personalità di Giorgio La Pira, «(…) un uomo mite, di preghiera che, quando può, erra di convento in convento a trar gli auspici non dalle urne dei forti ma dalla conchiusa armonia dei chiostri…» scriveva, con il suo stile lirico, Ernesto Balducci nel primo numero della rivista1. Temi antropologico-esistenziali e di teologia della storia mettevano a fuoco forti intuizioni anticipatrici: l’irreversibile unificazione planetaria dell’umanità che ritornerà nell’ultimo Balducci, le critiche al laicismo islamico che si intuiva avrebbe potuto produrre reattività identitarie, la «povertà» come carità e non come filantropia.
E soprattutto la critica alla cultura occidentale, con i suoi limiti tecno-scientisti, condotta sulla scia della radice intransigente come critica alla modernità2. La radice, diciamo intransigente (spirituale), della critica alla modernità è a mio parere il punto più interessante, quello davvero peculiare della Rivista, il suo filo di continuità. Fu un prezioso antidoto contro gli orizzontalismi secolarizzanti post-conciliari e sostanziò di basi solide il dialogo con il marxismo quando, nella prima metà degli anni Settanta, si addentrò nella dialettica tra fede e politica, per approdare all’adesione al Partito Comunista.

Due visioni in discussione
Se dovessi sintetizzare oltremodo i termini di quella dialettica direi che due erano le versioni in discussione. La prima, incline a valorizzare l’affinità «religiosa» tra cristianesimo e marxismo e a privilegiare l’escatologia nel primo e l’utopia nel secondo. Era un filone che guardava più al protestantesimo che al cattolicismo, che aveva in Ernst Bloch il principale riferimento teorico europeo e in Italo Mancini quello italiano, e che, infine, ha avuto in Giulio Girardi e nei Cristiani per il socialismo una traduzione ideologico-politica affine ai disparati movimenti cristiani di liberazione.
Siffatta impostazione viveva il rapporto cristianesimo-marxismo in termini di cooperazione, identificazione, competizione. Accadde che la migrazione dal cristianesimo al marxismo fu quella più frequente. «Testimonianze» era più che scettica verso questa prospettiva, sempre molto avvertita, come era, verso i rischi di possibili integralismi.
La seconda variante era quella dei cattolici comunisti che aveva il principale riferimento ideale in Franco Rodano. Tale variante, immune sia da suggestioni protestanti che moderniste, era schiettamente cattolica e teologicamente legata in modo assai stretto al retaggio tridentino. Anche per questo, forse, «Testimonianze» non derivò la sua adesione al PCI dall’approccio teorico rodaniano. Anche se Rodano fu preso molto sul serio per la distinzione tra fede e storia, natura e sovrannatura. Il dialogo tra cattolicismo e marxismo – secondo tale impostazione – avrebbe potuto portare a purificare quest’ultimo da ogni elemento religioso, ideologico e perciò tendenzialmente assolutizzante, rendendolo – come si conviene a ciò che è terreno – pensiero e prassi politica realista, storicista, gradualista ancorché volta alla trasformazione radicale degli assetti sociali dati. Una prospettiva, come si capisce, consonante con la politica a lungo propria del Partito Comunista Italiano. E questo fu l’approdo di tanti cattolici legati a «Testimonianze» che entrarono convintamente nel PCI, però più come compagni di strada, «da esterni» che non «organicamente».
Io, mascotte trasgressiva, unica eccezione, ero più vicina al «manifesto».
Ricordo riunioni accesissime, sempre condotte con equilibrio dall’ottimo direttore Luciano Martini: dopo i vari tentativi di rifondazione della DC e il ridimensionamento della linea ecclesiale di mons. Enrico Bartoletti, la rivista decise di appoggiare, nelle elezioni del 1976, la candidatura di alcuni cattolici come indipendenti nelle liste del PCI, tra i quali Mario Gozzini e Raniero La Valle, in testa.

Questioni sul tappeto: laicità dello Stato e soggettività femminile
La scelta per «i cattolici del no» al Referendum del divorzio, del resto, era stata convinta e unanime, frutto di convinzioni profonde che venivano da lontano, in ragione della laicità, e, insieme, della superiore autenticità spirituale che avrebbe avuto la scelta del matrimonio sacramentale. Il risultato del referendum sul divorzio fu una deflagrazione. Improvvisa e inaspettata per laici, cattolici e comunisti. Nessuno aveva previsto che la società fosse così laica e soprattutto così più laica delle sue culture politiche.
Disastrosa fu la previsione di Amintore Fanfani ma non meno fu il disorientamento dei comunisti, anche se lì per lì beneficiarono del risultato. Le divisioni che si affacciarono allora furono infatti l’anticipazione delle future, delle irreversibili crisi. La crisi della centralità della Dc, come ebbe a scrivere Pietro Scoppola, ebbe il suo momento più significativo e quasi simbolico nel referendum del 1974. Per il suo doppio significato: rivelatore dei mutamenti avvenuti nel Paese per effetto dei processi di secolarizzazione e per altro verso rivelatore della crisi del sistema politico nel suo insieme. Nessuno, neppure le forze di sinistra, capirono quanto quel cambiamento sociale rappresentato dal divorzio fosse conseguenza del mutato ruolo della donna e ancora più del modificarsi antropologico della identità femminile destinata a diventare inarrestabile fino ai nostri giorni.
Erano passati anni dal referendum del divorzio, e tanto era cambiato anche sullo scenario politico ma sulla questione specifica se era stato relativamente pacifico fare prevalere il principio di laicità dello Stato, e la scelta dei cattolici per il NO, ora, invece, per quanto riguardava l’aborto si trattava di affrontare temi morali e psicologici assai più controversi, quelli che di lì a poco sarebbero diventati il cuore della bioetica. In questa confusione di piani, gli schieramenti si irrigidirono.
Ciò che prevalse fu lo scontro frontale, la contrapposizione di due integralismi: quello radicale laicista e quello cattolico che proiettava i filmini nelle parrocchie sui feti straziati. Ricordo la solitudine coraggiosa di tanti viaggi in treno, insieme a Piero Pratesi verso il Nord-Est del Paese, dove di parrocchia in parrocchia io e lui, incontravamo sacerdoti e donne che volevano capire.
L’aborto aveva diviso anche la redazione di «Testimonianze», e la questione fu accantonata molto presto, ben prima che si aprissero gli scontri referendari. Io intervenni nel silenzio gelido della redazione: l’aborto non si poteva rimuovere, avrebbe aperto la strada alle questioni di una nuova soggettività femminile. E, per questo, proposi un convegno sulle donne cattoliche e l’aborto. Convinta che la mia proposta non sarebbe stata accolta. E infatti fu lasciata cadere.
Qualche girono dopo, però, Balducci mi convocò per dirmi che condivideva la mia idea e che potevo procedere nell’organizzazione del convegno a nome di «Testimonianze». Rimasi stupefatta. L’incontro ebbe una enorme risonanza non solo a Firenze. Ricordo che «il manifesto» inviò un’agguerrita leader femminista, Mariella Gramaglia, incuriosita e sorpresa. Diventammo amiche inseparabili.

Con viva gratitudine
Ciò che maggiormente interpellava la redazione, in senso anche letterale era come interagire con le varie anime del dissenso cattolico; si avvertivano sfumature diverse che però convergevano unanimemente sul fatto che la solidarietà dovesse essere totale ma mai fino a spingersi alla rottura o all’uscita dalla Chiesa istituzionale.
Il caso dell’Isolotto fu, fin da subito, metonimico di quel clima. E anche metafora delle ambivalenze e delle oscillazioni dello stesso padre Balducci, che si dimostrava visibilmente sempre inquieto. Preoccupato di fare troppo o troppo poco. Come un padre con un figlio adolescente e ribelle. E l’8 dicembre del 1968 scriveva nel suo diario: «La vicenda dell’Isolotto occupa gran parte dei miei pensieri e del mio tempo. Essa si è ingrandita fino a diventare un avvenimento tipico sul piano internazionale»3. Il 4 dicembre il cardinal Florit aveva rimosso don Mazzi.
Molto tempo dopo, nel momento topico, quando don Mazzi, disubbidendo e trasgredendo al divieto di celebrare i sacramenti, battezzò pubblicamente in piazza, la tensione salì alle stelle. Luigi Pintor mi chiese di scrivere un commento per «il manifesto»: il mio primo articolo. Tutti i vaticanisti italiani e internazionali erano schierati ai bordi della piazza.
Giancarlo Zizola che vide una giovincella alle prime armi, solidale, mi diede alcuni consigli giornalistici – «Togliere ogni enfasi, stare ai fatti» –, che Pintor apprezzò molto. Dopo ci recammo insieme nella sede di «Testimonianze». Anche quella diventò un’amicizia della vita.
Dei tanti ricordi, frutto di una memoria selettiva, alcuni sono forse confusi e indistinti, intensi e vividi, legati a piccolissimi episodi o a serissime discussioni teologiche, è certo però che si affacciano alla mia memoria come un universo ricchissimo, cui ripensare con vera gratitudine.

1 E. Balducci, Apertura, in «Testimonianze», n.1, 1958, pp.4-5.
2 L. Martini, Chiesa e cultura cattolica a Firenze nel Novecento, Ed. Storia e Letteratura, Roma 2009, pp. 356-366.
3 E. Balducci, Diari ( 1945-1978), a cura di M. Paiano, Morcelliana, Brescia 2009, p. 802. Ibidem, p. 809.