di Stefano Carrai

Dante si fa collocare «sesto fra cotanto senno» dai poeti della classicità che egli considera suoi maestri: Omero, Virgilio, Ovidio, Orazio e Lucano. C’è chi ha visto nei richiami classici, espliciti e impliciti, della Commedia una prefigurazione della cultura umanistica, ma Dante attinge ai poemi latini da uomo del Medioevo, mirando a collocare l’eredità degli antichi nell’ambito del mondo cristiano. In tal senso va intesa anche la ripresa del mito di Orfeo ed Euridice al quale il poeta sembra richiamarsi nel suo viaggio ultraterreno, ma dal quale egli si discosta con la tacita riscrittura cristiana del mito stesso.

Echi e reminiscenze dai classici latini
Chi abbia una buona memoria scolastica ricorderà che critici e commentatori della Divina Commedia si sono adoperati per secoli a mettere insieme una messe enorme di echi e reminiscenze dai classici latini nei versi del poema. E forse si rammenterà anche di alcuni calchi scoperti, come quello del celebre esordio di Enea infandum regina iubes renovare dolorem (Aen. 2, 3) nella risposta del conte Ugolino a Dante personaggio «tu vuo’ ch’io rinnovelli / disperato dolor che il cuor mi preme» (Inf. XXXIII 4-5); oppure alla traduzione letterale del virgiliano agnosco veteris vestigia flammae (Aen. 4, 23) nelle parole di Dante al ritrovare Beatrice: «conosco i segni dell’antica fiamma» (Purg. XXX 48). Ogni commento, anche scolastico, non può fare a meno di documentare almeno nei casi più eclatanti come molti versi danteschi siano intrisi di minuti ricordi virgiliani, ovidiani, oraziani o da Lucano e da Stazio. Molto si potrebbe menzionare del resto anche sul piano della memoria di immagini o situazioni: il gesto di Virgilio che nel sesto canto dell’Inferno lancia pugni di terra nelle gole di Cerbero imitando quello di Enea nel sesto libro dell’Eneide; il vano triplice abbraccio all’anima di Casella così come era accaduto a Enea con il padre Anchise; l’incontro con l’avo Cacciaguida nel paradiso ispirato all’incontro di Enea con lo spirito del padre stesso; e così via. La creatività poetica si appoggiava nella fattispecie al ricordo di atmosfere soprattutto virgiliane: più fitte e intense nella prima cantica, in ragione dell’ispirazione diretta esercitata sull’Inferno dal sesto dell’Eneide, più rarefatte in seguito. Poco cambia che il parallelo sia quasi sempre sottaciuto e solo in rare occasioni esplicitato, come nel caso del movimento di Anteo che cinge l’ombra di Virgilio con quelle stesse braccia, dice Dante, che dettero la stretta terribile a Ercole (Inf. XXXI 130-32). Si pensi ancora alla figura di Catone nell’antipurgatorio o alla teoria di guardiani infernali – da Caronte a Cerbero a Flegias – prelevati direttamente dall’ade virgiliano, e ancora ad altre figure mitologiche come Minosse, i centauri, il Minotauro e la Gorgone.
Questo forte legame della poesia dantesca con la cultura degli antichi è reso evidente anzitutto dall’invenzione del personaggio di Virgilio quale guida del protagonista durante il viaggio attraverso l’inferno e il purgatorio. La scelta di Dante equivaleva ad una presa di distanza rispetto a precedenti più e meno immediati quali erano quello di Alano da Lilla nell’Anticlaudianus o quello del suo maestro Brunetto Latini nel Tesoretto, nei cui racconti di viaggio allegorico-didattici quel ruolo era rivestito da personificazioni della Natura e delle Virtù. Tale espediente ha peraltro un seguito non meno eloquente nel cammino che Dante compie durante l’ultimo tratto del purgatorio seguendo Virgilio e Stazio, proprio per rappresentare anche su un piano, diciamo, scenico la propria emulazione. Il legame era del resto esplicitamente dichiarato, nel quarto dell’Inferno, sia sul piano simbolico e narrativo che su quello letterale, dall’episodio dell’incontro con la «bella scola» dei poeti antichi, in cui Dante si fa proclamare da Omero, Virgilio, Ovidio, Orazio e Lucano «sesto fra cotanto senno», a significare che pur essendo un poeta moderno e che scrive nella lingua materna egli vuol essere l’erede di quella gloriosa linea classica.

Ma Dante era davvero un umanista ante litteram?
Si è discusso sull’opportunità di vedere in questo atteggiamento il vero inizio di una rinascita della sapienza antica e certa critica dantesca ha letto Dante quale umanista ante litteram. Ma della mentalità propriamente umanistica, che sarà inaugurata da Petrarca, Dante non ebbe l’ansia del controllo delle fonti e dell’allargamento del repertorio delle fonti stesse. Di tale scarsa propensione ad un rapporto filologico con la tradizione è un clamoroso esempio il celebre fraintendimento di Purg. XXXIII 49-50, dove il poeta chiama in causa le «Naiade / che solveranno questo enigma forte», con riferimento al misterioso personaggio adombrato dalle cifre «cinquecento diece e cinque». Nel codice delle Metamorfosi che ebbe tra le mani Dante aveva trovato evidentemente la diffusa lezione erronea che assegnava alle «Naiades», invece che al «Laiades» (Met. 7, 759) il merito di aver risolto l’indovinello proposto a Edipo dalla Sfinge: e tale passo corrotto dai copisti lo fece proprio acriticamente, come un qualsiasi altro lettore dell’epoca, senza chiedersi cosa potessero entrarci le ninfe fluviali con la soluzione di un enigma, che difatti nell’originale ovidiano era sciolto correttamente dal Laiade, cioè da Edipo figlio di Laio. La stessa rappresentazione dantesca del dialogo con Virgilio o con Stazio sulla scena del poema, pur vivace e feconda, è altra cosa rispetto al colloquio che con gli antichi intratterranno Petrarca e gli umanisti, che sarà colloquio anzitutto con la concreta realtà dei loro libri, sui quali le riflessioni dei moderni si depositeranno in forma di postille a margine.
All’occhio fine di uno dei maggiori critici novecenteschi, cioè Gianfranco Contini, la Commedia dantesca risultava tuttavia, e giustamente, «competitiva con l’Eneide (o la Tebaide o la Farsalia), competitiva con le Metamorfosi». Questa è la linea sulla quale Dante mirava a collocare il proprio poema, questa l’eredità degli antichi che egli voleva raccogliere nel mondo cristiano e nella lingua materna. Piuttosto che forzare la mano e inquadrare la sua opera letteraria in un precoce umanesimo volgare, converrà fare ricorso ad una differente caratterizzazione del rapporto con la classicità, che s’incrocia e si sovrappone tanto con la poesia medievale quanto col pensiero della Scolastica. Si potrebbe parlare semmai di un classicismo gotico, con un ossimoro che rappresenta bene, mi pare, questo speciale ibridismo culturale e può avvicinare l’ispirazione di Dante alla maniera di artisti coevi come Nicola Pisano e Duccio di Boninsegna, Arnolfo di Cambio e Giotto.
Il massiccio ricorso all’immaginario dei classici si calava pur sempre, infatti, entro una mentalità medievale. Si ripensi, ad esempio, al calco dell’episodio virgiliano di Polidoro dal terzo dell’Eneide (vv. 37-46) in quello di Pier della Vigna, nel tredicesimo dell’Inferno, in cui è compresente la memoria dell’episodio delle Eliadi trasformate in olmi nel secondo delle Metamorfosi ovidiane, perché Polidoro non aveva subito una vera e propria trasformazione, e poi era isolato, non parte di un gruppo di piante, come è invece il caso di Pier della Vigna e di ciascuna delle Eliadi. Ma l’idea di una metamorfosi che muove da un comportamento eversivo delle leggi divine, che accomunano il destino del cancelliere di Federico II con quello delle Eliadi, sarà da riportare nell’ambito della cultura cristiana e della moralizzazione cui erano andate incontro le storie narrate da Ovidio, i cui commentatori stabilivano una correlazione strettissima fra le nuove forme cui soggiacevano i vari protagonisti delle singole metamorfosi e il peccato che esse venivano rispecchiando. Per fare un altro esempio di questo connubio di sapere classico e di forma mentis medievale, si ricordi l’apparire delle tre Furie – che Dante chiama anche col loro nome greco di Erinni – sulla torre della porta di Dite. Le implicazioni allegoriche sono evidenti e basta a chiarirle il valore assegnato loro nelle Etymologiae di Isidoro di Siviglia (8, 11, 95): libido, ira, cupiditas, cioè gli stessi tre peccati capitali che dobbiamo riconoscere nelle tre fiere – lonza, leone, lupa – le quali sbarrano la strada al pellegrino nel primo canto dell’Inferno (a preferenza di «superbia, invidia e avarizia» rimproverate specificamente ai fiorentini da Ciacco in Inf. VI 74, delle quali solo l’ultima coincide). Qui immagine di ascendenza classica e simbologia da bestiario medievale evidentemente si davano la mano, forse sulla spinta della tradizione agiografica.

Quella stretta correlazione fra Vita nova e Commedia
Del resto l’assimilazione della letteratura classica nella cultura cristiana maturava fin dai tempi di Gerolamo e di Agostino, e il testo della Commedia implicava quella lettura concretamente figurale – per cui fatti e persone del mondo terreno si adempiono nella realtà della visione profetica ultramondana – che dopo gli studi di Erich Auerbach è divenuta imprescindibile. È questa poetica ibrida che induce Dante ad escogitare la conversione di Stazio al cristianesimo sulla base della corrente lettura medievale della quarta bucolica di Virgilio come annuncio della nascita di Gesù, oppure ad esplicitare nel secondo canto dell’Inferno i nomi dei predecessori del suo viaggio ultramondano, Enea da un lato, San Paolo dall’altro: nomi che equivalgono alla citazione precisa di due testi – il sesto libro dell’Eneide e la seconda epistola di Paolo ai Corinzi – quali fonti d’ispirazione diretta dell’Inferno e del Paradiso, nell’impossibilità di allegare un precedente di analogo prestigio per il Purgatorio.
La Vita nova e la Commedia, strettamente correlate l’un l’altra, ricompongono del resto un grande affresco narrativo che racconta la storia di un amore terreno sublimato in chiave spirituale e divenuto strumento di ricongiungimento con Dio. Chiaro difatti che l’itinerario della Commedia ha un valore prima di tutto catartico e di testimonianza di fede, ma esiste anche un movente personale: quello di rivedere la donna amata. Se teniamo insieme il racconto dell’amore terreno nel prosimetro giovanile con quello del viaggio ultramondano, la storia che Dante ci racconta lascia emergere in falsariga il modello del mito di Orfeo che, affranto per la morte della moglie Euridice, va nell’ade e ottiene dagli dei inferi di riaverla viva con sé a patto che la conduca fuori dal mondo ctonio senza voltarsi a guardarla; sennonché poi egli non sa trattenersi e la perde per sempre. In entrambi i casi il protagonista è un poeta, e per giunta un poeta teologo. Lo stesso Orfeo infatti era considerato un poeta che parlava delle cose soprannaturali, secondo una lunga tradizione che rimontava ad Aristotele (Metaph. I lect. IV, 83) ed era stata rilanciata da autori come Lattanzio, Sant’Agostino e San Tommaso. Entrambi i protagonisti inoltre perdevano la donna amata e andavano nell’aldilà pur essendo ancora vivi per ritrovarla, intraprendendo dunque, sia pure con esiti opposti, un cammino che aveva una finalità di salvezza propria o altrui.
Tale mito del resto all’epoca di Dante era stato già cristianizzato da tempo, nel quadro di quella tendenziosa rilettura della mitologia classica che era l’unica possibilità per la cultura cristiana di non disperdere tale patrimonio di storie, ma anzi assimilarle e rifunzionalizzarle come prefigurazioni ancora confuse delle verità rivelate dalla dottrina di Cristo. A questa riconnotazione della catabasi di Orfeo aveva dato un contributo fondamentale uno dei testi prediletti di Dante, leggendo il quale, nel secondo del Convivio, egli diceva di essersi consolato dopo la morte di Beatrice: cioè Il De consolatione Philosophiae di Boezio. Il carme finale del terzo libro tornava a raccontare la storia di Orfeo ed Euridice sulla base dei precedenti del quarto delle Georgiche virgiliane e del decimo delle Metamorfosi ovidiane, aggiungendo però un corollario in cui la disobbedienza di Orfeo al patto impostogli di non voltarsi a guardare la moglie veniva stigmatizzata quale allegoria dell’errore del cristiano che non sa mantenere fede al comandamento divino e perciò ricade nel peccato. Tra il IX secolo e il XIII i commentatori di Boezio approfondirono questa caratterizzazione del mito. Sia Remigio d’Auxerre che Guglielmo di Conches svilupparono un’esegesi allegorica in cui Orfeo rappresentava l’uomo saggio che scende nel profondo per salvare la propria anima rappresentata a sua volta da Euridice, ma non riesce a sottrarsi del tutto alla tentazione e disobbedendo al monito divino pecca in maniera irreparabile, secondo una moralizzazione del mito orfico passata anche nei commentatori ovidiani.

Come un Orfeo cristiano
Proprio questo monito rivolto a Orfeo sembra essere stato sottilmente mimetizzato da Dante nel tessuto narrativo del poema quando i due pellegrini giungono sulla soglia del purgatorio, dove trovano l’angelo portinaio che li avvisa minacciosamente di non voltarsi a guardare dietro di loro, in direzione dell’inferno, perché verrebbero automaticamente risucchiati verso il male eterno (Purg. IX 131-32 «Intrate, ma facciovi accorti / che di fuor torna chi ’n dietro si guata»). Il gesto del girarsi indietro era antropologicamente considerato di segno negativo. E Dante aveva qui in mente anche l’episodio della famiglia di Lot che nel Genesi, mentre si sta allontanando da Sodoma, viene avvisata proprio da un angelo di non voltarsi verso la città del peccato. Come Orfeo era castigato con la perdita definitiva di Euridice, anche la moglie di Lot, che contravveniva all’ingiunzione, era punita col trasformarsi in una statua di sale. Ma anche se Dante teneva presenti entrambi i precedenti, è chiaro che come poeta non poteva che rapportarsi in primo luogo alla figura del poeta mitico e archetipico. Egli mirava dunque a configurare il proprio personaggio come un Orfeo cristiano, ovvero un Orfeo corretto alla luce della morale cristiana, che riesce a resistere alla tentazione e, laddove l’Orfeo pagano era caduto, procede deciso in avanti fino a raggiungere il proprio fine ultimo: la contemplazione del Sommo Bene e la redenzione. In effetti i percorsi di Orfeo e di Dante personaggio erano paralleli fino a un certo momento: ma divergono dal punto in cui il poeta antico si volta indietro, mentre Dante, non cedendo mai alla tentazione, procede imperterrito nel suo cammino di salvezza. In questo quadro, ovviamente, la correzione più vistosa era costituita dalla salita dell’Orfeo cristiano lungo le pendici del purgatorio e dall’ulteriore prosecuzione del suo cammino di timorato di Dio fino a raggiungere e attraversare il paradiso. E allora Beatrice diviene una Euridice cristianizzata: anima razionale la quale anziché creare impedimento e ostacolo alla salvezza la favorisce con la propria guida sicura, tant’è che la scena del loro incontro e del cammino catartico si svolge non nell’ade, bensì nel paradiso terrestre, poi celeste. Se nella favola antica guardare Euridice equivaleva per Orfeo a perderla per sempre e con lei perdere se stesso, ormai solo nel mondo e assoggettato al suo destino di morte, nel racconto dantesco vedere Beatrice significa invece seguirla di cielo in cielo fino alla contemplazione di Dio e alla salvezza della propria anima.
E il paragone con Orfeo, beninteso, nella prospettiva dantesca non intendeva restringersi solo al campo dell’etica. Esso implicava evidentemente anche una diversa concezione della poesia. Dante si misurava con la figura simbolo del canto per antonomasia proprio perché il suo era un canto nuovo, che intendeva superare la concezione pagana della poesia, tanto che la Commedia si presentava come «poema sacro al quale ha posto mano e cielo e terra», secondo che si legge all’inizio del venticinquesimo del Paradiso. Con la sua tacita riscrittura cristiana del mito di Orfeo ed Euridice il poeta voleva anche rimarcare insomma che la sua poesia era ben altrimenti sorretta dalla grazia divina e perciò destinata alla gloria.