di Sergio Givone a colloquio con Severino Saccardi
Quella di Dante potrebbe quasi definirsi come una «inattualità» ancora attuale. Egli è evidentemente uomo del suo tempo, ma la permanenza e la diffusione internazionale della fruizione della sua poesia sono lì a ricordarci la forza di un messaggio e di una voce, come quella del grande poeta fiorentino, che sono autenticamente umani; e la dimensione che egli fa rivivere (anzi, fa vivere eternamente) nella Commedia, è tanto più umana quanto più autenticamente divina.
Un mondo «altro»
Saccardi. Dante è, per molti aspetti (per il suo modo di pensare, le sue posizioni teologiche, la sua visione cosmologica), interamente uomo del suo tempo. Eppure il suo messaggio, la sua poesia, le sue parole (e le immagini o i sentimenti che essi evocano) hanno una risonanza profonda anche per gli uomini, le donne, la sensibilità del nostro tempo. Qual è, secondo te, il motivo e quale il segreto per cui la sua voce riesce, con evidente efficacia, ad arrivare fino a noi?
Givone. In Dante non solo la teologia e la cosmologia, tomistica l’una e tolemaica l’altra, ma anche l’estetica, in particolare la concezione dell’amor cortese e della donna come angelo che conduce a Dio, sono profondamente radicate in un contesto e in un’epoca storica che non sono più i nostri. Consideriamo l’estetica dell’amore: che cos’ha a che fare l’idea dell’amore come «eros divino» (la definizione è di Platone, ma Dante la fa sua) o quella dell’«Amor che move il cielo e l’altre stelle» (come recita il verso che conclude la Commedia) con l’idea che noi abbiamo dell’amore? Noi oggi abbiamo abolito perfino l’espressione «far l’amore», forse perché troppo impegnativa, e preferiamo dire, come si dice al cinema, «fare sesso». Quanto poi all’amore come fondamento e sostanza di tutte le cose, e quindi come principio e fine della creazione, che deriverebbe tutta da quel principio e a quel fine tenderebbe, apriti cielo! Di fronte a ipotesi del genere noi non sappiamo vedere altro che prospettive oscurantiste o, come si dice oggi in modo sprezzante, «creazioniste», accettabili nel migliore dei casi solo sul piano fantastico o poetico. Invece il mondo che la poesia (ma anche la filosofia) di Dante ci fa intravedere, è bensì un altro mondo, ma proprio perciò un mondo altro rispetto al nostro, così come altra è la verità che vi balena, una verità – passami l’espressione – infinitamente più profonda e più vera di quella cui siamo abituati, una verità che parla di noi, del nostro destino, e dice cose che avevamo dimenticato, ma di cui non possiamo fare a meno. Che quella di Dante sia una inattualità ancora attuale? O una attualità inattuale? Come si preferisce, ma il senso è quello.
Se la vicenda dell’uomo sulla terra può essere definita divina
Saccardi. Non ti sembra che, anche se la sua Commedia è stata definita Divina, di Dante colpisca soprattutto la profonda attenzione all’umano e la sua intima partecipazione alle passioni, ai sentimenti, ai conflitti di questa «aiuola che ci fa tanto feroci»? Passioni, sentimenti e conflitti che, infatti, vengono continuamente evocati e richiamati proprio durante quel viaggio ultramondano che guida ad intravedere una superiore luce. La profonda umanità di Dante non è forse una delle componenti fondamentali della sua complessa personalità, della sua poesia e della sua stessa visione della fede?
Givone. A definire Divina la Commedia è stato Boccaccio nel suo Trattatello in laude di Dante, dove Dante appare in veste fin troppo umana, e cioè «di mediocre statura e alquanto curvetto». Con ciò Boccaccio sembra voler ribadire che nella Commedia si ha a che fare non tanto con una vicenda di dei e di eroi come avveniva nel mondo pre-cristiano, ma semmai con Dio che si abbassa fino a farsi uomo, e dunque con la sua incarnazione, con la sua kenosis (concetto introdotto da San Paolo e del tutto ignoto ai Greci e ai Romani). Come finisce il viaggio di Dante? Con la visione de «l’imago al cerchio» e cioè dell’immagine della Trinità compresa entro tre cerchi concentrici. E qual è il tratto peculiare di quest’immagine divina? È il volto dell’uomo. «O luce etterna che sola in te sidi / … / Quella circulazion che sì concetta / … / dentro da sé, del suo colore stesso / mi parve pinta de la nostra effigie: / per che ‘l mio viso in lei tutto era messa» (Par. XXXIII 125-132). Dante contemplando Dio rispecchia se stesso! È a partire da questo tipo di teologia che la vicenda dell’uomo sulla terra può essere definita divina. Tale cioè da coinvolgere Dio in modo essenziale, totale. Infatti, se si togliesse Dio, l’orizzonte umano si oscurerebbe tanto da rendere l’uomo un essere incomprensibile. Così come, senza l’uomo, Dio non sarebbe che vuota astrazione. Tutto ciò che costituisce il contenuto essenziale della vita umana – passioni, sentimenti, conflitti, come tu dici – appartiene all’uomo esattamente come appartiene a Dio, perché Dio se n’è fatto carico fino a morire come l’ultimo degli uomini. Tanto più autenticamente umana, l’umanità che Dante fa rivivere (anzi, fa vivere eternamente) nella Commedia, quanto più autenticamente divina. Non dimentichiamolo mai: nella verità di Dio, Dante vede anzitutto la verità dell’uomo, e nella verità dell’uomo vede la verità di Dio.
Borges e il giorno del giudizio
Saccardi. Dante viene guidato da Virgilio (e qui ci sarebbe tutto un discorso, che forse non è il caso di affrontare, relativo al suo legame con temi, modelli e autori della classicità) nel suo viaggio nell’aldilà. Un percorso ricco di significati allegorici, simbologie, metafore, rimandi filosofici e teologici. Che però è anche, e soprattutto, un viaggio che va (oltre che in una dimensione superiore e altrimenti inattingibile) a scavare nelle profondità insondate dell’animo umano. Che cosa ti colpisce e quali elementi metteresti in risalto di questo viaggio nell’anima (e dell’anima)?
Givone. Dante compie il suo viaggio nell’aldilà attraversando i tre regni che compongono il mondo ultraterreno: inferno, purgatorio e paradiso. E mentre ci dice che la sua è soltanto una finzione, una fantasia, una commedia, ci dice anche che è proprio questa «commedia» a farci incontrare con noi stessi e a chiarire chi siamo veramente. È l’aldilà a far luce sull’aldiqua. Solo se osiamo penetrare e percorrere l’inesplorato in cui non siamo mai stati, capiremo chi siamo destinati a diventare. Insomma, è l’eterno, è la trascendenza a far luce sull’immanenza. Naturalmente inferno, purgatorio e paradiso sono dimensioni dell’anima piuttosto che luoghi nel tempo e nello spazio. È nelle «profondità insondate dell’animo umano», per usar le tue parole, che ciascuno incontra il suo inferno, il suo purgatorio, il suo paradiso.
Ma per l’appunto incontra qualcosa che è veramente, o può essere veramente, l’inferno o il purgatorio o il paradiso. In una sua lirica, Il giorno del giudizio, Borges ha dato voce in modo mirabile a un’esperienza che tutti una volta o l’altra nella vita facciamo e che è al tempo stesso eccezionale e quotidiana. Qualsiasi momento della vita, dice Borges, può essere – puede ser – quello che ti spalanca il paradiso o ti precipita nell’inferno, e infatti in qualsiasi momento la persona amata ti può dire di sì e in qualsiasi momento ti può tradire, in qualsiasi momento puoi essere toccato dalla grazia o puoi precipitare nella disgrazia.
Forse che non è l’inferno, questo? E quello non è il paradiso? Ecco, io trovo inquietante, nel senso più alto del termine, che per Dante a costituire la realtà stessa della nostra vita sia un’idea quanto mai irrealistica e frutto d’immaginazione. Come nessun altro Dante ha saputo tenere insieme i due aspetti: finzione e realtà, poesia e fede, immaginazione e visione. Noi tendiamo a separarli. O peggio a ridurre l’uno all’altro. Ma così ci perdiamo il meglio. Io dico che da Dante bisogna lasciarci colpire e sconvolgere. Oggi non meno di ieri.
Le cosiddette «opere minori» fanno un tutt’uno con la Commedia
Saccardi. Dante non è solo la Commedia e la Commedia stessa non si spiegherebbe senza il rimando a parti significative di altre sue opere. Quale aspetto di questo legame fra il Dante, a torto e impropriamente, a volte definito come «minore» e il Dante più conosciuto e studiato ti sembrerebbe opportuno sottolineare?
Givone. In alcune «operette» che precedono l’opera maggiore, come la Vita nova, Dante ha anticipato più d’uno dei grandi temi della Commedia, ma soprattutto ci ha dato la chiave per penetrare e per orientarci in un labirinto dove altrimenti rischieremmo di perderci. Faccio un solo esempio: il passo della Vita nova in cui a Dante viene preannunciata in sogno la morte di Beatrice, dove si ode una voce che viene de profundis, ma che è la stessa voce del poeta: «Di necessitade convene che la gentilissima Beatrice alcuna volta si muoia». Che è come dire: Beatrice deve morire, affinché il piano di salvezza si compia. Di fronte a una frase del genere un grande dantista come Edoardo Sanguineti dichiarava tutto il suo sconcerto e insinuava il sospetto che al fondo di quella strada ci fosse l’assurdo o qualcosa che molto gli somiglia. E se la frase invece non alludesse al fatto che la Commedia in realtà ha un’essenza tragica, nel senso di quella «tragedia cosmoteandrica» (come la definiva von Balthasar) che coinvolge tanto l’uomo quanto Dio? Sia come sia, l’idea che le opere minori siano necessarie alla comprensione della Commedia trova qui conferma. E tanto basta per affermare che esse formano un tutt’uno con la Commedia e comunque ne rappresentano il contorno imprescindibile.
Esule, ramingo, fuggiasco per antonomasia
Saccardi. Dante sa bene «come sa di sale lo pane altrui» per le dure vicende esistenziali che lo porteranno lontano dalla sua terra. Quale e quanta incidenza ha avuto la dimensione dell’esilio nel modo di sentire, di pensare e nell’espressione poetico-artistica di quest’uomo impossibilitato a rimettere piede nella sua città?
Givone. Sono almeno tre le modalità dell’esilio: politica, metafisica ed esistenziale. La prima, politica, è quella della perdita della cittadinanza, per cui si è privati di ogni diritto e costretti a lasciare la patria, come accadeva nel mondo greco con la pratica dell’ostracismo. La seconda, metafisica, è quella che ci vede gettati su questa terra in base a un decreto imperscrutabile ex alto, secondo quanto raccontano le mitologie gnostiche. La terza, esistenziale, è quella tipicamente moderna che descrive la vita in termini di sradicamento e di erranza. Nessuna di queste tre figure si attaglia pienamente all’esperienza dantesca dell’esilio; eppure tutt’e tre, compresa anche quest’ultima (sia pure nella forma di un precorrimento di qualcosa che solo molto più tardi si sarebbe manifestato compiutamente) sono in qualche modo presenti in lui, esule, ramingo, fuggiasco per antonomasia.
Una lingua nella quale riconoscersi e ritrovarsi
Saccardi. La poesia di Dante, per quel che riguarda soprattutto la Divina Commedia, e in special modo l’Inferno, è stata proposta anche in letture, interpretazioni e rappresentazioni fruite da un largo pubblico e da un gran numero di persone. Il che naturalmente è un contributo importante, e a volte brillante ed originale, alla conoscenza della grande poesia e delle radici stesse della nostra cultura e della nostra lingua. C’è, però, chi ha criticato tali manifestazioni, sostenendo che, in molti casi, il rischio è quello di andare incontro alla banalizzazione di un importante e complesso messaggio come quello di Dante. Qual è la tua posizione in merito?
Givone. Immagino che tu ti riferisca in particolare, almeno per quel che riguarda Firenze, alle letture dantesche di Vittorio Sermonti nel Cenacolo di Santa Croce e di Roberto Benigni in piazza Santa Croce. Ma io farei anche il nome di Franco Ricordi, bravissimo attore, scrittore e studioso di Dante, che sarebbe bello invitare a Firenze nel quadro delle celebrazioni dantesche 2021. A fronte del successo che tali eventi hanno avuto e sicuramente avranno, si è registrata anche una reazione negativa di rifiuto che io giudico snobistica e sciocca. E questo per la semplice ragione che la lingua di Dante e la poesia di Dante vengono offerte a un pubblico che non è certo ignaro di Dante, al contrario porta Dante nella mente e nel cuore, anche quando ne ha soltanto un pallido ricordo scolastico: infatti la lingua di Dante e la poesia di Dante sono un’eredità comune, un patrimonio condiviso, un retaggio spirituale che è vivo e agisce in noi anche quando non ce ne rendiamo conto. Perché mai la divulgazione dovrebbe comportare la banalizzazione o peggio il tradimento del messaggio autentico? Quella a cui io ho spesso assistito era una magia per cui accadeva che alla lettura di un canto o anche solo di pochi versi venissero ridestate chissà da dove e chissà come memorie e conoscenze che uno neanche sapeva di avere. Del resto basterebbe leggere il De vulgari eloquentia per capire che cosa abbia spinto Dante a scrivere il suo poema in volgare: la scelta di una lingua poetica che fosse «illustre», nella quale cioè un popolo storico potesse riconoscersi e ritrovarsi.
I Fedeli d’Amore
Saccardi. Dante si distingue non solo per la sua capacità di parlare a uomini, lettori, di diverse epoche, ma anche per essere stato inteso, amato e ripreso all’interno di culture diverse. Si pensi agli echi che la poesia dantesca e la figura di Dante hanno avuto nella letteratura e nella poesia inglese, in quella latino-americana, in grandi autori come Borges, in Brodskij, Mandel’štam. Non sta qui, secondo te, uno degli elementi di fondo dell’universalità della poesia del grande Fiorentino?
Givone. È vero, l’opera di Dante è stata fonte di ispirazione, oltre che oggetto di ammirazione, in varie epoche storiche e nelle più diverse culture. C’è stato addirittura chi ha ritenuto di scoprire, in questa stupefacente universalità dantesca, un annuncio di ordine spirituale, quasi Dante fosse un profeta o un riformatore religioso. Mi limito qui a ricordare un episodio della storia della ricezione di Dante che è in parte ancora avvolto da una certa oscurità e che probabilmente è soltanto una leggenda, ma che nondimeno merita la nostra attenzione. Secondo questa leggenda, cui hanno dato credito personalità del calibro di René Guénon e Giovanni Pascoli, poco dopo la morte di Dante si sarebbero riuniti in Santa Croce a Firenze nel nome del Poeta e chiamandosi Fedeli d’Amore (l’espressione è di Dante, e si trova nel primo sonetto della Vita nova) alcuni suoi appassionati lettori: fra loro, Francesco da Barberino, uomo coltissimo, giurista, poeta, e Cecco d’Ascoli, medico e astrologo (quest’ultimo però abbondonò presto il gruppo, rompendo su alcuni capisaldi del pensiero dantesco, per finire i suoi giorni sul rogo, accusato di stregoneria proprio da Francesco). Caratteristica e forse anche scopo di questa confraternita – dove però la fraternità era praticata solo fino a un certo punto, evidentemente – era di interpretare Dante e in particolare la sua concezione dell’amore in chiave neoplatonica. Ma che cosa sapeva Dante di Platone e del neoplatonismo coevo? Ben poco, probabilmente. Quel poco tuttavia gli fu sufficiente per cogliere in Platone e nel neoplatonismo un aspetto – il ruolo e la funzione di Amore – che successivamente sarebbe stato posto al centro del discorso filosofico, come per esempio fece Marsilio Ficino. Difficile a questo punto non prendere sul serio, almeno un po’, i nostri Fedeli d’Amore…