Unione europea e democrazia
di Nadia Urbinati

Piero Meucci. Porgo adesso la parola alla professoressa Nadia Urbinati, titolare della cattedra di scienze politiche alla Columbia University di New York; insegna anche alla scuola superiore Sant’Anna di Pisa e all’Università Bocconi di Milano.
Avevo preparato per lei una domanda che poi ho visto essere stata proposta anche da un nostro  ascoltatore, Fernando Cancedda, amico di «Testimonianze» di lunga data: si tratta della questione della difficoltà di procedere nelle decisioni dell’Unione Europea, a causa del principio dell’unanimità, vigente nel processo decisionale del Consiglio europeo. Lo stiamo vedendo, ad esempio per quel che riguarda il nuovo Patto sulle Migrazioni, per il quale abbiamo già assistito all’opposizione del gruppo di Visegrád, o, per quel che riguarda le reticenze del gruppo dei paesi «frugali» rispetto al Recovery Fund. È ciò che l’analista Sergio Fabbrini, sul «Sole 24 Ore», ha recentemente definito come la possibilità di una tirannia della minoranza, che blocca i processi decisionali dell’Unione europea.

Nadia Urbinati. Grazie a «Testimonianze» e a Severino Saccardi per avermi coinvolto in questa interessantissima carrellata di spunti di discussione su cultura economia e politiche in relazione all’Europa. Veniamo quindi al problema che mi è stato proposto.
Il diritto di veto – ovvero la prerogativa concessa a ciascun Stato membro dell’Unione di bloccare una decisione del Consiglio dell’Unione, quando si rende necessaria una votazione all’unanimità – è un’eccezione rispetto alla regola di maggioranza, il cuore della democrazia. Il diritto di veto in questo caso specifico presumere l’unanimità – e l’unanimità non è certamente la procedura più vicina alla democrazia perché con il principio di unanimità anche un solo voto ha il potere di rovesciare la decisione, con un evidente sbilanciamento di potere a favore della minoranza. Perché questo diritto di veto? Nel caso dell’Unione europea, alla sua base sta una sostanziale diffidenza tra i partners non solo perché non fanno parte della stessa base sovrana ma anche perché sono tra loro ineguali. La costruzione dell’Unione è un processo graduale che cerca di sedimentare una comunità politica e una comune responsabilità, con obblighi e diritti condivisi. E lo fa assicurando gli stati piccoli e poco popolosi con meccanismi che non li penalizzino. Nella federazione degli Stati Uniti, un riflesso di questa precauzione nei confronti della regola di maggioranza tra soggetti non equipollenti è la distribuzione dei seggi del Senato, che sono stabiliti in numero di due per ogni stato, a prescindere dalla popolazione. Del resto, se in Europa ci fosse la regola di maggioranza, potrebbe succedere che gli stati piccoli cerchino di fare alleanze per sopperire alla loro debolezza, e questo non sarebbe desiderabile, perché porterebbe alla creazione di blocchi di stati, cosa che renderebbe l’Unione ancora più debole (lo abbiamo verificato in questi mesi con l’alleanza dei cosiddetti stati morigerati). Insomma, è ragionevole concludere che la fiducia e la comune responsabilità dovrebbero essere forti abbastanza perché l’Unione potesse adottare la regola di maggioranza nelle decisioni in materia di politica estera e di sicurezza comune. Il compromesso pragmatico che si è raggiunto per superare il continuo veto degli Stati membri consiste nell’uso del meccanismo di astensione costruttiva.
Quello in cui ci troviamo oggi è un importante momento: per necessità di rispondere alla pandemia l’Europa ha fatto dei passi da gigante verso l’integrazione solidaristica ma ne dovrà fare altri politici.
Dobbiamo ricordare che prima della pandemia, l’Europa si trovava in grande difficoltà, soprattutto a causa, ma non solo, della Brexit. L’Unione è diventata oggetto di diffuse critiche da parte sia di sovranisti democratici che di populisti di destra; non solo da parte dei classici euroscettici dei paesi del Nord del continente, ma anche da parte di quei paesi, come il nostro, che hanno tradizionalmente avuto un’anima europeista. Occorre fare questa ricognizione per comprendere la novità della situazione nella quale ci troviamo oggi.
Teniamo conto che l’idea di un’unione federativa europea si sviluppa, dagli anni Trenta e Quaranta, su tre assi portanti: quella della sussidiarietà, che è di origine cristiano-cattolica (pensiamo all’enciclica Quadragesimo anno del 1931), che ha aperto uno spazio ideologico e normativo per una cooperazione al di là dello Stato e, quindi, degli stati, di tipo federativo della società; quella dei diritti individuali di tradizione razionalista e illuminista; quella del mercato, secondo il mito settecentesco per cui il commercio induce alla collaborazione per ragioni di interesse e di profitto, per cui la divisione del lavoro allontanerebbe le ragioni di guerra. Ora, questi tre assi si alimentano e acquistano valore in quanto sono tutti e tre critici e diffidenti della centralità dello Stato sovrano, al quale nel Ventesimo secolo venne addossata, a ragione, la responsabilità del macello europeo delle due guerre mondiali, dei totalitarismi e dell’Olocausto.
Il nostro Altiero Spinelli (il prossimo anno si festeggiano gli 80 anni del Manifesto di Ventotene) era molto convinto, come altri in Europa, che occorresse trovare una soluzione che riducesse la funzione dello stato-nazione; e a questo miravano i tre assi portanti di cui ho parlato sopra: sussidiarietà, diritti, mercato. Di questi tre, dopo la ricostruzione post-bellica, a partire anche dalla svolta liberista degli anni 80, il mercato ha preso il sopravvento, e lo ha preso a tal punto che prima dell’esplosione della pandemia da Covid-19 noi ci trovavamo con un’Europa che era dai suoi critici associata a ragione all’ordoliberalismo (ricordiamo questa espressione: cioè la dottrina secondo la quale il ruolo principale dello Stato è quello di garantire le condizioni per una libera concorrenza, per una libertà non falsata degli interventi dello Stato) – ovvero un’Europa costruita sull’idea del libero mercato, come se questo, naturalmente, automaticamente, potesse stabilizzare la libertà e la pace, secondo il mito della mano invisibile di settecentesca memoria. 
Arriva la crisi, la centralità del mercato è, a tutti i livelli, il problema da risolvere.
Riflettendo sulla tragedia delle guerre mondiali, Karl Paul Polanyi sostenne che le società nazionali hanno tutto il diritto, e la forza anche, di auto-organizzarsi per proteggersi, reagire e resistere a quest’imperante dominio del mercato che globalizza gli scambi e le indebolisce (così si spiega la svolta protezionista e la guerra). Noi quindi abbiamo subìto, anche per questa ragione, la rinascita di forme radicali di nazionalismo, vere e proprie trappole social-nativiste, come le ha chiamate Thomas Piketty; trappole che vengono soprattutto dai quei paesi dell’Est Europa che hanno subìto per decenni imposizioni stataliste imperiali dall’Unione Sovietica e che, ora, credono o sentono di stare subendo una nuova imposizione statalista dall’Unione europea. Non a caso dall’Est ha acquistato nuovo vigore l’ideologia antieuropeista che fa perno sulla centralità della nazione e del nativismo dei cittadini nazionali contro gli immigrati, gli altri, con un problema serissimo di rispetto dei diritti e di tenuta degli altri due assi portanti, il mercato aperto e la sussidiarietà.
In anni precedenti, la risposta a questa trappola social-nativista è venuta dai partiti e movimenti socialdemocratici e federalisti. Oggi occorre rinverdire quella tradizione armando il tessuto sussidiario orizzontale e verticale di cui l’Europa si avvale con istituzioni comunitarie che godano di una già forte e diretta legittimità democratica, come il Parlamento, che potrebbe aprire il cantiere della riforma di procedure come il veto. Con la crisi nella quale ci ha catapultato il Covid dovremmo cogliere l’opportunità di risolvere questi problemi, con un’aggiunta importante: il Recovery Fund impone un’obbligazione a tutti i cittadini europei, la quale ci rammenta che c’è unità al di là della diffidenza degli Stati membri che ha giustificato il veto, un’unità di interessi e di intenti che però attende di essere completata con un ordine istituzionale coerente.  Sono convinta che la strada sia quella di una tassazione europea (non per aumentare le tasse, ma per calibrare quelle che nazionalmente già destiniamo all’Europa) sull’ambiente, sui grandi patrimoni, come diceva anche Landini parlando prima di me. Contribuire direttamente implica avere e rivendicate potere di rappresentanza e voce politica. Occorrerebbe arrivare a questo esito per completare il lavoro di fronte al quale, per necessità, ci troviamo ora, cioè per giungere ad una accelerazione nell’unificazione social-politica.
Io mi fermo qui e vi ringrazio molto.

Severino Saccardi. Emerge, mi pare, un problema cruciale: quello legato all’alternativa fra la permanenza di una confederazione tenuta insieme da una logica intergovernativa e la prospettiva di una vera unione dotata di più spiccate prerogative politiche. Alla fine, forse, il vero nodo da sciogliere è proprio questo, non trovi?

Nadia Urbinati. Il problema è l’interpretazione della federazione. Se diamo alla federazione un’interpretazione di unione o invece di contratto tra attori statali. In questo secondo caso si tratta di una confederazione più che di una federazione perché mette insieme gli interessi a scopo di difesa degli alleanti. Oggi, con i fenomeni che ho chiamato di social-nativismo (ma possiamo aggiungere anche fenomeni di disgregazione delle unità nazional-statali, pensiamo al caso della Catalogna o anche al nostro regionalismo differenziato) c’è bisogno di una rinascita di interesse e attenzione per la dimensione locale. Insieme a quel federalismo verticale, ce n’è un altro che si sta sviluppando, e che va più d’accordo con la sussidiarietà ad esempio e che è quello del ritorno al social-localismo. Cioè una federazione che coinvolga i luoghi di vita locale: i territori, di cui parlavate prima, i piccoli centri che possono trovare una loro riattivazione dentro un quadro federativo.
Occorrerebbe tenere insieme i due livelli della sussidiarietà: quello orizzontale e quello verticale. Questo è il problema di fronte al quale, secondo me, ci stiamo imbattendo in questo tempo.
Vorrei concludere con un riferimento a Hannah Arendt, che nel 1951, nelle Origini del totalitarismo, si mostrava preoccupata perché l’osservanza delle regole imposte dalle forze incontrollate del mercato globale possono mettere in serissima discussione il potere politico che sorge nella dimensione pubblica delle relazioni umane, e quindi la nostra libertà di cittadini. Ecco, l’Europa si trova in questo momento al centro di questo conflitto; e la difesa della politica è oggi difesa del progetto europeo, capace (e forse non abbiamo molte alternative) di darci un salvagente importante rispetto a questa condizione di globalizzazione mercatistica che rifugge al controllo politico.