Quando siamo scesi dal mondo per un momento
di Fabio Dei 

Tra fine giugno e fine luglio 2020 la vita ha cominciato a scorrere quasi come prima, dopo la pausa del lockdown imposta dal coronavirus. Alla paura è subentrata la voglia di ripresa, legata anche ad impellenti esigenze di carattere economico, con modalità che fanno fortemente dubitare sul fatto che l’emergenza-pandemia abbia provocato seri ripensamenti sul nostro precedente stile di vita. Eppure, qualcosa andrebbe, forse, realmente cambiato nel nostro modello di vita e di sviluppo, e non sulla spinta dell’eccezionalità di una situazione, ma nell’ottica di un’impostazione che sia capace di tener conto della precarietà di una dimensione esistenziale, prima ancora che economico-sociale, con cui gli imprevedibili eventi di quest’anno particolare ci hanno messo a confronto.

La sorprendente Fase 3 
Fine giugno 2020. Fase 3 nelle strategie di contenimento del contagio da Covid-19. È arrivata l’estate e il lockdown sembra finito. Le macchine sono di nuovo in fila sulle autostrade, le spiagge sono affollate di gente senza mascherina. Hanno ripreso anche il campionato di calcio, i Gran Premi automobilistici e soprattutto la movida, trattenuta a stento durante i mesi più difficili. Anche le città d’arte sono di nuovo piene di turisti (va bene, mancano americani e giapponesi, ma solo per un po’). Si può finalmente riprendere a consumare, a far salire il PIL. Rilanciare il consumo è la parola d’ordine di industriali e commercianti, molti dei quali sono stati in effetti colpiti con maggior forza dal cosiddetto distanziamento sociale. E i bonus che il governo va distribuendo a molti ceti sociali, con criteri talvolta bizzarri, servono soprattutto a questo: sono contributi volti non alla sopravvivenza ma al sostegno di uno stile di consumo (le vacanze in primo luogo) senza il quale l’intero sistema economico potrebbe crollare. È vero che in altre parti del mondo la pandemia impazza; e che alcuni scienziati menagrami non la smettono di lanciare grida d’allarme e di sollevare lo spettro della «seconda ondata». Ma chi li ascolta più? Se due o tre mesi fa eravamo lì, davanti agli schermi o ai social, a suggere ogni parola degli esperti, oggi ci hanno decisamente annoiato. E il clima morale che avvolge il timore del contagio si è radicalmente rovesciato. Se a marzo e aprile gli ardimentosi runner solitari rischiavano il linciaggio o l’arresto (indimenticabili le immagini della polizia che batteva le spiagge in cerca di sconsiderati bagnanti da multare e additare al pubblico ludibrio, o della Messa interrotta dalle forze dell’ordine), oggi qualsiasi assembramento è tollerato e giustificato. Tutti contenti, allora. O no? Beh, non tanto. L’impressione è che la società italiana esca da questi mesi più divisa e litigiosa di prima. C’è chi ha pagato in modo più pesante le conseguenze della crisi. Le differenze di prospettiva tra lavoratori dipendenti e autonomi, pubblici e privati, a tempo indeterminato o precari, e persino tra giovani e anziani, si sono accentuate. Le frizioni e i potenziali conflitti fra queste categorie rischiano di esplodere, anche perché alcune forze politiche soffiano su questo pericolosissimo fuoco – per quanto a casaccio e in direzioni diverse e contraddittorie. Interi settori economici, che si erano negli anni attestati attorno a bolle di attività legate al tempo libero, al turismo globale, al consumo opulento sono stati colpiti con durezza. Ma tutto questo ci ha mostrato la fragilità di un sistema – economico e culturale al tempo stesso – basato su una frenetica corsa ai consumi, sullo spostamento di grandi masse da tutto il mondo e per tutto l’anno, sul costante incremento demografico e sul forsennato consumo delle risorse naturali. Aspetta, aspetta: devo mettere le mani avanti. Non sono un fanatico critico del consumismo, e (i lettori di «Testimonianze» dovrebbero saperlo) detesto le teorie apocalittiche sulla globalizzazione e sul «sistema neoliberista globale». Sono consapevole che anche Latouche ha detto che sarebbe una sciocchezza vedere nella pandemia la scintilla della decrescita; e che appellarsi alla crisi come incubazione del progresso rischia di riprodurre errori di valutazione drammatici troppo spesso ripetuti nel Novecento. E poi sì, lo so, è facile parlare per chi come me ha vissuto il lavoro nel distanziamento sociale da privilegiato, potendo continuare da casa a svolgere praticamente tutte le attività di didattica universitaria. Va bene, scontiamo tutto questo: ma è possibile non vedere in questi mesi del lockdown un segnale di crisi di un intero e insostenibile stile di vita?

Un grande luna park di scala globale? 
Ecco, è di questo che vorrei parlare, una sensazione più che un ragionamento, qualcosa con cui – per parafrasare Marx, quello americano – forse neppure io stesso sono d’accordo. E siccome quasi mi vergogno a dirlo, lo dirò con le parole del medico e antropologo francese Didier Fassin, in un’intervista del giugno 2020: «Siamo in un momento di altissime aspettative. In tutto il mondo, la gente non vorrebbe solo tornare alla vita normale, ma andar oltre il momento del post-confinamento, per vivere una vita migliore, in un di-verso modello di società, non più basato sull’individualismo, sulla ricerca del profitto, sullo sfruttamento del pianeta, ma sulla solidarietà, la giustizia sociale, la protezione dell’ambiente»[1]. Ecco, in un altro momento avrei forse commentato questo passo dicendo che è il classico distillato ideologico da intellettuale progressista, ossessionato da profitto e disuguaglianze, che di fronte all’impraticabilità dei suoi grandi principi vede nella pandemia una sorta di scorciatoia. (E per inciso, sulla cattiva prova degli intellettuali progressisti e radicali negli scorsi mesi ci sarebbe molto da discutere – a partire da quel Giorgio Agamben che già a febbraio ha lanciato il leitmotiv del contagio inventato dal potere per imporre uno stato di eccezione permanente e ridurci tutti a nuda vita, continuando imperterrito a sostenerlo anche nei momenti più drammatici; con un atteggiamento di avversione alle misure di contenimento che si salda significativamente con quello dei «negazionisti» di estrema destra, come i Bolsonaro e i Trump). 
Ideologia, dunque? Avrei pensato così, ma adesso non so: di fronte allo spettacolo di un ritorno sbracato alla normalità non riesco a non condividere almeno in parte quelle parole di Fassin. Questi mesi sono stati strani, abbiamo visto le cose fermarsi, siamo scesi dal mondo per un momento, e questo ha aperto un’altra prospettiva. È stata anche prospettiva di terrore, per un po’: abbiamo immaginato (e qualche volta visto) i supermercati presi d’assalto, abbiamo paventato la corsa all’ammasso. E certamente, lo ripeto, per una parte consistente (ma minoritaria) degli italiani lo stop delle attività è stato davvero un incubo: perdere il lavoro o perdere i clienti per chi vive su un precario equilibrio economico mensile si è rivelato drammatico. La ricchezza ha smesso di circolare a pieno flusso: di conseguenza molti hanno aumentato i risparmi, mentre qualcuno è sceso sotto i livelli di sussistenza. Ma proprio questo ha suscitato una sorta di riorientamento gestaltico. Ci siamo fermati un attimo, il tempo di vedere con più lucidità, senza la distorsione della solita nostra corsa affannata. E abbiamo cominciato a interrogarci sul senso di un sistema economico e di vita che si fonda sull’afflusso continuativo di masse turistiche da ogni parte del mondo; sul costante andirivieni di voli lowcost e di grandi navi da crociera; sulla delocalizzazione sistematica delle imprese in altre parti del mondo, non importa quanto lontane, dove il costo del lavoro è minore; e ancora, sulla deregolamentazione radicale del commercio (per non parlare dell’e-commerce che ci porta a cercare beni in un unico magazzino di estensione planetaria, con flussi di merci che sembrano non tener conto della distanza, e strategie di prezzo che accettano la rimessa pur di stritolare le reti locali e territoriali). Abbiamo potuto per un attimo considerare l’assurdità di un mondo trasformato in un grande luna park di scala globale, con milioni o forse miliardi di persone che aspirano a quell’opulenza e a quel «divertimento» che fino a qualche decennio fa solo in pochissimi potevano permettersi.

Eppure, la globalizzazione è stata una buona cosa 
La globalizzazione è stata una buona cosa, per carità. Contrariamente a un certo senso comune, non ha accentuato le differenze fra ricchi e poveri, fra Nord e Sud del mondo, ma le ha attenuate. L’ho ricordato proprio su «Testimonianze» pochi mesi fa: negli ultimi decenni miliardi di persone sono passate da una condizione di povertà assoluta a una di medio reddito, con la garanzia della sicurezza alimentare e dell’accesso a servizi fondamentali di tipo educativo e sanitario. Un risultato mai prima raggiunto nella storia umana – anche se ciò che più tocca oggi i nostri sentimenti è quel miliardo, più o meno, che è rimasto in condizioni di povertà assoluta, precarietà esistenziale e assenza di diritti. E però… In quelle notti di fine marzo dal silenzio innaturale, in quelle immagini di città deserte che sembravano uscite da film di fantascienza, terrorizzati dai numeri della Protezione Civile sui nuovi contagi e dalle notizie da Bergamo e Brescia, davvero – lo chiedo – davvero non ci è passato per la testa anche qualcosa di diverso? Ad esempio, che cosa abbiamo pensato della drastica riduzione del traffico, quello automobilistico come quello aereo? Impedimento alla libertà di spostamento, certo, contro quelli che ci possono apparire diritti fondamentali: ma anche diminuzione dei livelli di inquinamento, e soprattutto di quelli di rumore. Una pausa lunga quanto basta per defamiliarizzarci con la presenza invadente, acustica, visiva e materiale dei motori a scoppio nella nostra vita; per realizzare che l’auto non è appendice irrinunciabile del nostro corpo. Il Novecento lo si potrebbe chiamare l’età o la civiltà dei motori a scoppio, certo: e la loro epopea è stata anche quella della individualizzazione, della libertà da certi vincoli legati allo spazio e alle angustie locali, forse della stessa democrazia. Potrà anche continuare ad esserlo, ma per quanto? Sì, ok, non possiamo fare a meno delle auto, e abbiamo incorporato il senso di opportunità e di apertura che esse rendono possibile. Ne abbiamo disperato bisogno, anche perché tutto è organizzato in funzione della loro pervasiva presenza, dall’approvvigionamento alimentare alla struttura del lavoro, dal turismo alla cultura o ai servizi sanitari. Ma vederle ferme, come finora era successo solo nelle mitiche domeniche dell’austerità (che i meno giovani ricorderanno) o in occasione delle grandi nevicate, aiuta a pensare una riorganizzazione profonda dei modi di esistere, di lavorare, di vendere e acquistare, di andare in vacanza e così via. E a un recupero della dimensione territoriale, che diversamente dal passato non è più sinonimo di chiusura e angustia comunicativa – grazie ovviamente alla vera grande rivoluzione dei nostri tempi, quella informatica. E poi vedi che i Gran Premi di F1 (eventi che, mi butto a dire anche questo, hanno la stessa natura morale della pubblicità delle sigarette o dei superalcolici) ripartono con grandi sbandieramenti e inni alla normalizzazione (mancano solo le vittorie delle Ferrari: vincono i tedeschi anche qui, maledetti che non si sa perché ma non si sono neppure ammalati di coronavirus). Ripartono i Gran Premi, per inciso, ben prima delle biblioteche, delle aule universitarie e di quelle scolastiche (so che il paragone non regge ma è ugualmente irresistibile e simbolico).

La «società signorile» non si è fatta intimidire dal Covid 
Fine luglio 2020. Al di fuori dell’Europa il contagio attraversa la sua fase più critica – nelle Americhe, in India, forse in Africa (dove semplicemente non abbiamo dati sanitari affidabili). In Italia il lockdown è ormai finito, anche se riprendono focolai di infezione legati a spostamenti migratori, lavorativi o turistici. Il virus è meno aggressivo d’estate? La scienza appare incerta rispetto a simili domande. Non lo sappiamo. Andando in giro per il Paese si vedono alternarsi situazioni di controllo protocollare a contesti in cui sembra non sia mai successo nulla. Mezzi pubblici strapieni (sui bus urbani c’è scritto che non si dovrebbe salire e aspettare il prossimo se non c’è modo di rispettare la distanza di un metro: ma è ovvio che non c’è modo, e nessuno ti impedisce di entrare). Alberghi e ristoranti quasi al gran completo, specialmente quelli di lusso. La strategia di rilancio del turismo sta funzionando. Come ha sostenuto Luca Ricolfi, la «società signorile di massa» italiana, basata su consumi opulenti e sull’industria del divertimento, non si è lasciata intimidire dal Covid e ha riconquistato coraggiosamente lo spazio dei suoi diritti fondamentali: vacanze al mare e in montagna, apericena e ristoranti di pesce e così via. Si è persa l’occasione per qualche settimana bianca e qualche week-end primaverile, ma pazienza. D’altra parte, questa sembra l’estate più fresca da decenni. È un caso? O una diminuzione dell’effetto serra dovuto al lockdown? Che ne dice la scienza? Non lo sa. Certo, non potremmo comunque consolarci con la narrazione religioso-ecologista del virus come una specie di Ultimatum alla Terra, che ci costringe a rispettare di più l’ambiente eccetera eccetera. Ma neppure possiamo far finta di nulla ed aspirare semplicemente a tornare «come prima», niente di più e niente di meno. Come riequilibrare i rapporti fra globalizzazione comunicativa e dimensioni territoriali degli stili di vita? Come riorganizzare domanda e offerta di beni e servizi in modo da non dover dipendere da flussi globali di persone e merci che, virus o non virus, alla lunga non appaiono sostenibili? Sono problemi che vanno oltre l’orizzonte di immediata risposta alla crisi, certo, ma che non possiamo neppure mettere da parte come se fossero troppo astrusi e sofisticati rispetto alla urgente necessità di far cassa. La viceministra dell’economia Castelli è stata massacrata qualche giorno fa per aver detto che, se la gente non va più al ristorante, bisogna aiutare i ristoratori a cambiare attività. È un’affermazione in sé cruda e magari irrispettosa di tanti lavoratori seri e impegnati. Le è stato risposto che bisogna invece creare le condizioni perché la gente torni a sedersi ai ristoranti (e torni ad affollare le spiagge, a comprare più automobili e mettersi in fila sulle autostrade, a riprendere le crociere e così via). Controargomentazione bizzarra, visto che viene da ambienti neoliberisti che sostengono il disimpegno dello Stato rispetto al libero fluire della domanda e dell’offerta. Compito dello Stato non è quello di farsi imprenditore, ma neppure quello di assorbire il rischio di impresa, spingendo perché i consumatori si adeguino a un sistema già esistente di offerta – tanto più un sistema nato su basi contingenti ed estremamente fluttuante come quello della ristorazione. Al contrario, se lo Stato ha un compito è quello di guidare i cittadini verso culture del consumo e stili di vita più responsabili e sostenibili, secondo una razionalità del bene comune; razionalità che naturalmente non può essere calata dall’alto ed è soggetta a dibattito e a negoziazione, ma che non è neppure riducibile al gioco degli interessi immediati di singole categorie economiche. Per cui il problema è proprio quello accennato (pur ambiguamente) dalla viceministra: ristrutturare progressivamente il mondo della produzione e del lavoro rispetto ai mutamenti esistenziali profondi che ci sono stati traumaticamente posti di fronte dal lockdown. Non solo i mutamenti più contingenti (basti pensare al modo in cui, nelle città universitarie, la sospensione della didattica in presenza abbia fatto saltare un intero universo di bar, locali per la pausa pranzo, servizi per studenti fuori sede ecc.); ma anche quelli che si prospettano o che si possono persino auspicare come più duraturi, al di là dell’emergenza contagio (ammesso che potremo mai considerarci veramente al di là dell’emergenza, vista la sistematicità con cui negli ultimi anni il fenomeno della mutazione e dello spillover verso l’uomo di nuovi virus si è presentato). Magari – e speriamo – fra qualche mese sarà tutto dimenticato. Non ci sono lezioni morali o teleologie da trarre dall’esperienza del Covid-19. 
Sono un momento di pausa, come un tempo in una partita di pallavolo, chiamato dal nostro allenatore per darci una calmata e riorganizzare le nostre strategie di gioco. Solo che non abbiamo un allenatore. E non è un gioco.


[1] An Unprecedented Health Crisis: Didier Fassin on the GlobalResponse to the Global Pandemic, IASI (Institute for Advanced Studies), June 3, 2020 (https://www.ias.edu/ideas/fassin-covid-global-response).