Metafisica della peste
di Sergio Givone a colloquio con Severino Saccardi 

Se le riflessioni suscitate dall’emergenza-pandemia inducono a prendere atto che il virus è «natura» e come tale può essere combattuto, in termini razionali, facendo appello alla scienza, è vero anche che situazioni estreme come quelle della pandemia evocano le antiche categorie «metafisiche» di «colpa» e «destino». È la Metafisica della peste, così come è stata descritta da Tucidide a Camus, da Boccaccio a McCarthy, che sembra dettare una sola parola d’ordine: «si salvi chi può». Proprio questi autori tuttavia, osservano come questa specie di destino, il ritorno allo stato di natura, faccia risorgere l’imperativo dell’umano «ama il prossimo tuo come te stesso». E anche la scienza, particolarmente importante in questo periodo di crisi da coronavirus, ci ammonisce sul fatto che la sola possibilità che abbiamo di non farci travolgere è agire responsabilmente, come individui e come popoli, comportandoci come se in ogni nostro gesto ne andasse della vita di tutti.

La «colpa» e il «destino» 
Saccardi. In un tuo interessante e suggestivo libro di alcuni anni fa (S. Givone, Metafisica della peste, Einaudi, Torino 2012) tu evocavi le dimensioni della «colpa» e del «destino» cui un fenomeno come quello della peste sembra rimandare. Sono termini e riferimenti che si possono richiamare e che hanno un senso anche per parlare, al di là dei resoconti della cronaca, di questa pandemia che ha colpito l’umanità del «mondo globale» in questi nostri anni Duemila? 
Per noi, che viviamo in era post-illuminista e post-positivista e che abbiamo il vantaggio di poterci avvalere dei progressi compiuti, nel frattempo, dalla scienza, un fenomeno (sia pure inquietante, pericoloso e devastante) come una pandemia è comunque inquadrabile, studiabile e affrontabile con gli strumenti moderni, e razionali, della medicina, dell’epidemiologia, della virologia, della farmacologia. In che modo, dunque, il tema della «peste» può evocare la dimensione «metafisica» (e i suoi termini di riferimento: l’essere, l’esistere, la libertà, la necessità)? 

Givone. È vero. siamo figli del razionalismo illuministico e di un’epoca che ci ha insegnato come il sonno della ragione produca mostri. Solo un pazzo, di fronte a un’emergenza come questa, potrebbe affrontala ignorando o rifiutando la scienza. Eppure è proprio la scienza a dirci che si tratta di un’epidemia che volge fatalmente in pandemia, e dunque si tratta di qualcosa che ci aggredisce e pesa su di noi senza che nessuno possa impedirne la diffusione planetaria, qualcosa che ha il carattere di un flagello, come si diceva una volta, qualcosa come un destino. Ed è la stessa scienza ad ammonirci sul fatto che la sola possibilità che abbiamo di tenere sotto controllo il fenomeno senza farci travolgere è agire responsabilmente, come individui e come popoli. Sì, dobbiamo farci carico degli altri e comportarci come se in ogni nostro gesto ne andasse della vita di tutti. Responsabilità per il nostro destino, ecco che cosa ci insegna la scienza! Ma responsabilità per il nostro destino altro non significa se non che dobbiamo rispondere, come se fossimo colpevoli, anche di ciò di cui non lo siamo affatto. In altre parole: a nessuno di noi può essere imputata la colpa della diffusione del morbo, ma ciascuno di noi deve sapere che proprio lui potrebbe essere stato il tramite del virus e dunque deve fare come se la colpa, benché non intenzionale, non fosse in qualche modo anche sua. Perciò il passaggio a una dimensione «altra» rispetto alla scienza, cioè in una dimensione non solo etica ma addirittura metafisica, è inevitabile. 
Del resto in un’epoca come la nostra, dove a dominare la scena non sono certo gli individui bensì i sistemi complessi, i grandi apparati anonimi, le forze più o meno oscure che incombono sul mondo come da una trascendenza senza Dio (il Covid, la pandemia, insomma la peste, altro non sono che esempi di queste realtà inafferrabili e sfuggenti), parlare di responsabilità e di solidarietà può apparire fuori luogo o fuori tempo. Tuttavia la pandemia ci costringe a ripensare concetti troppo affrettatamente accantonati. Non è l’imposizione dello stato di eccezione o la ricerca dell’immunizzazione a mettere fuori gioco idee come responsabilità, solidarietà, bene comune, ecc., perché sono proprio queste idee a ridare significato e valore a pratiche altrimenti obsolete per non dire controproducenti. 
Ma bisogna anche fare chiarezza su che cosa intendiamo per responsabilità e solidarietà. Cominciamo allora col ricordare che responsabilità e solidarietà stanno necessariamente in rapporto con qualcosa che potrebbe apparire, non meno di responsabilità e solidarietà, fuori corso, come per l’appunto «colpa». Indubbiamente non si è responsabili se non di qualcosa che ci può essere addebitato come colpa, come delitto, come crimine. Però c’è colpa e colpa. C’è la colpa che non è se non un debito da espiare, cioè una obbligazione contratta con la società a seguito di un delitto o crimine commesso contro la società stessa (o contro l’umanità, o contro Dio) e che solo la punizione prevista può estinguere. E c’è la colpa che invece è qualcosa come un orizzonte di colpevolezza, un orizzonte nel quale io mi riconosco e riconosco a tutti gli altri il diritto di chiedermi la ragione delle mie azioni. 
Proprio la peste ci porta a ripensare il concetto di colpa in rapporto a responsabilità e solidarietà. A nessuno la peste può essere imputata come se fosse una colpa. Però a chiunque può essere chiesto che cosa abbia o non abbia fatto per impedire che sia la peste a fare di lui un colpevole quanto meno per omissione. 

«La peste è natura» 
Saccardi. Non ti sembra che, anche in relazione alle vicende che hanno così particolarmente e tristemente connotato questo anno, in alcuni ambienti (forse più nei circuiti intellettuali che non a livello popolare) abbia avuto corso lo schema secondo cui il virus, giunto da lontano, sarebbe il frutto maligno e la conseguenza di un sistema di vita inautentico ed ecologicamente non sostenibile, che esso sarebbe, in definitiva, venuto a castigare? E cosa pensi di un ragionamento che (al di là della pur giusta ripulsa del consumismo e di un modello fondato sullo scarso rispetto dell’ambiente naturale) sembra curiosamente (e, forse, non del tutto consapevolmente) richiamarsi, più o meno esplicitamente, ad un’idea di punizione e di espiazione («Ci siamo comportati male, ed ecco che dobbiamo pagare!»), anche se non di tipo tradizionale e religioso? 

Givone. Non sottovaluterei l’ipotesi per cui il virus avrebbe a che fare non tanto con la globalizzazione bensì con l’antropizzazione, e cioè con l’appropriazione violenta e violentemente distruttiva del pianeta da parte dell’uomo. So bene che visioni di quel tipo sono spesso connotate ideologicamente in senso regressivo, ed evocano un’immagine molto discutibile della condizione umana, insinuando surrettiziamente che la nostra fragilità sia dovuta a una trasgressione ancestrale e quindi debba essere considerata una specie di pagamento di un debito, ma io domando: siamo sicuri di aver fatto i conti fino in fondo con la nostra responsabilità nei confronti della natura e più in generale della realtà che ci circonda? Siamo certi che basti rispettare le buone regole di un ecologismo di maniera per riconciliarci con la nostra cattiva coscienza? Certo è che se il concetto stesso di colpevolezza viene neutralizzato e messo a tacere, la responsabilità diventa una parola vuota. Viceversa, con la responsabilità piena e totale di tutti nei confronti di tutto e di tutti, anche la colpa torna a essere una nozione di cui non si può fare a meno. E non solo la colpa per ciò che un tribunale potrebbe imputarmi in base a una legge scritta. Ma anche quella colpa che nessun tribunale mi imputerebbe, perché è relativa a una legge che appartiene non tanto a un codice ma a un sentimento universalmente umano di partecipazione a una storia, a una speranza, a un bisogno di senso che tutti condividono con tutti. 

Saccardi. Tu, nel tuo libro, sottolineavi giustamente che la «peste è natura». Al di là di quel che suggerisce una visione ingenua che oggi sembra riaffiorare, la natura (come d’altra parte ci era stato ricordato da voci autorevolissime nei secoli) non è solo una buona madre. C’è il dono della vita, ma c’è anche la prospettiva della morte. C’è il bello e c’è l’armonia, ma c’è anche l’irrompere di (naturalissime) forze cieche e violente che minacciano la sicurezza e l’esistenza stessa dei viventi. Quale effetto può produrre, o ha già prodotto, nella psicologia individuale e collettiva del nostro tempo, la brusca riscoperta di questa dura verità? 

Givone. L’impotenza nei confronti di un fenomeno devastante che al momento non può essere combattuto e vinto, ma solo arginato, induce al fatalismo. E questo è comprensibile, però non giustificabile. Forme di contraccezione che siano davvero risolutive non si sono ancora trovate. Non disponiamo di vaccini specifici né in genere di medicinali in grado di guarire l’infezione, e neppure di strumenti che ne possano disinnescare la carica nella sua fase virulenta, ma solo di supporti al malato che lotta per sopravvivere (e anche questi in misura ridotta rispetto alle necessità, soprattutto nei paesi più poveri o a maggior sperequazione di ricchezza). Che cosa obiettare a chi trova nel fatalismo la sua ultima spiaggia? Intanto c’è modo e modo di intendere quello che viene comunemente detto il nostro destino. Che si tratti di un comune destino di morte, è un fatto. Tutti dobbiamo morire. Se c’è una cosa certa, una cosa vera, eccola la sola cosa vera, per dirla con Pavese. Ma anche la cosa più equivoca che ci sia. Quando prendo atto che tutti dobbiamo morire e ne traggo la conclusione che allora tanto vale disporsi a farlo e lasciare che accada quel che deve accadere e così sia, magari senza rendermene conto sto usando espressioni che dicono non già la mia passività e la mia abulia, ma proprio il contrario, perché dicono il mio tentativo di appropriami di ciò che mi minaccia e di protendermi verso qualcosa che non voglio subire ma sperimentare e fare mio. Come sempre il linguaggio è uno smascheratore formidabile dei significati più nascosti, una antenna sensibilissima nel captare le voci che vi risuonano. In questo caso ci fa capire che, se la peste è il nostro destino, un conto è lasciar cadere l’accento su «nostro», e trarne la conclusione che esso ci fa tutti responsabili gli uni degli altri, e un conto è lasciar cadere l’accento su «destino», che per il suo esser tale ci autorizza a lavarcene le mani abbandonandoci, e soprattutto abbandonando gli altri, ad esso. Una mera questione d’accento, si dirà. Sì, una mera questione d’accento. Che però spesso è la questione più importante. Non avevano già gli antichi stoici fatto notare che il destino può bensì essere vissuto come un peso gravoso che ci viene imposto in modo imperscrutabile, mentre sarebbe molto più saggio accoglierlo come una cosa che ci appartiene intimamente e che anzi è l’oggetto stesso della nostra volontà, dal momento che è proprio ciò che noi vogliamo o che faremmo bene a volere? Sarebbe più saggio non solo perché, se lo accettiamo e lo assumiamo spontaneamente, invece che patirlo, ci sembrerà più leggero da sopportare. Ma più saggio anche perché, in questo caso, cesserà di apparirci imperscrutabile se non addirittura beffardo, diventando per noi una inesauribile fonte di conoscenza. Conoscenza di noi stessi.

Pietà è morta?

Saccardi. Come sostiene il dottor Bernard Rieux, protagonista de La peste di Camus, «La salvezza dell’uomo è un’espressione troppo grande per me (…) La sua salute mi interessa, prima di tutto la sua salute»; ragion per cui è necessario «(…) cacciare le ombre inutili e prendere le misure necessarie». È da queste parole che tu prendevi spunto (v. pp. 20-21 del libro cit.) per rilevare che si tratta di «una professione di scetticismo a sfondo etico». Che però ha qualche relazione con il sentimento tragico della vita. Durante i giorni più drammatici della pandemia che ha colpito il nostro tempo e il nostro mondo, medici, sanitari, infermieri si sono trovati su una difficile frontiera. Fare il loro dovere, niente altro che il loro lavoro. Occuparsi prima di tutto della salute, cioè della preservazione della vita e, se possibile, del risanamento degli ammalati. Far riferimento agli strumenti razionali offerti dalla scienza medica. Eppure, sia pure senza alcun cedimento di carattere retorico, non è possibile dire che il loro impegno, «ordinario» e concreto, espletato, però, in situazioni così straordinarie ed eccezionali, sembra implicitamente andare oltre ed assumere un altro, e più alto, significato? 

Givone. L’epidemia, evolvendosi secondo quella che del resto è la sua natura, diventa pandemia, ed ecco, non c’è più legge, perché la sola legge è la sopravvivenza. Come si dice: pietà è morta. Sola parola d’ordine: si salvi chi può. Sempre la peste è stata descritta così: da Tucidide a Camus, da Boccaccio a McCarthy. Proprio questi autori tuttavia, in contesti diversissimi e da punti di vista difficilmente confrontabili ma convergenti, osservano come questa specie di destino che è il ritorno allo stato di natura faccia risorgere quell’imperativo dell’umano che recita: ama il prossimo tuo come te stesso, e può tranquillamente essere tradotto nel detto: non fare agli altri quel che non vorresti fosse fatto a te. Qui il principio-responsabilità e il principio-solidarietà si legano indissolubilmente al principio-reciprocità. Ce lo dice in tutti i modi quella che potremmo definire la logica della peste. 
Parola-chiave di questa logica è: contagio. Sappiamo che la peste si trasmette per contagio da individuo a individuo. Ma ciò su cui merita fare attenzione è che il contagiato è al tempo stesso il contagiante, e il contagiante lo è in quanto a sua volta contagiato. Paziente e agente coincidono nella stessa persona. Colui che è esposto al male e ne soffre, inerme, l’azione potenzialmente mortifera, è portatore del male, è parte attiva nella sua propagazione. Questo ci permette di scoprire nella peste una specie di codice, una cifra morale. In quanto fatto di natura, la peste nulla ha a che fare con l’etica e tanto meno con la metafisica. Ma in quanto violenza esercitata sull’uomo (e dall’uomo, anche se l’uomo non è consapevole di essere un «untore» e comunque non lo è intenzionalmente!), la peste è capace di richiamare l’uomo alla sua responsabilità con un appello tanto perentorio quanto inaggirabile. Qui per responsabilità si deve intendere non già l’obbligo a pagare il fio di una colpa, bensì l’impegno a rispondere a tutti di tutto. Anche di ciò che non era nostra intenzione compiere o che abbiamo compiuto inconsapevolmente, come direbbe il padre Paneloux in risposta al dottor Rieux. Prendendo lo spunto dall’esperienza che la peste ci obbliga a fare, c’è stato chi, come Vattimo e Zizek, ha suggerito di tornare a riflettere sull’idea di comunismo come prospettiva tutt’altro che superata.

Il miglior antidoto: la solidarietà 
Saccardi. Anche su un tema come quello che qui stiamo affrontando, fondamentale è il tema del linguaggio e del rapporto con la «verità» (v. «Testimonianze» nn. 528-529, con la sez. monotematica su La «verità» separata dai fatti). Nella vicenda, non ancora risolta, che ci stiamo trovando a vivere, è sembrato, per un po’, che di fronte all’emergenza assumessero un nuovo rilievo e una nuova centralità il ruolo della scienza e della competenza. Ma sembra un momento che già ci è alle spalle. Sempre più forti si fanno le voci che dicono che il Covid non è mai esistito, che le cifre relative ai malati e ai decessi sono state esagerate, che tutto ciò è manipolato per oscuri e inconfessabili interessi e fini di potere. Ora, in democrazia tutto è lecito. Ma più di un interrogativo si pone in merito ad una simile tendenza (che può essere preoccupante se va a sommarsi al disagio sociale di un periodo difficile). Quale ne è, secondo te, l’origine profonda? Da quali istanze nasce? E come la si può credibilmente fronteggiare? 

Givone. Fra il senso della nostra vulnerabilità e il cinismo che spesso lo accompagna e con cui si reagisce ad esso c’è una specie di oscillazione, un movimento pendolare che rimbalza dall’uno all’altro. Consideriamo i due modelli sociali di tutela dal virus che sono stati evocati non appena il virus si è manifestato, ma che appartengono alla storia millenaria della peste. Da una parte la dittatura dello stato di eccezione, con la soppressione della libertà di movimento, la reclusione in casa propria, l’obbligo tassativo del distanziamento sociale, e così via. Dall’altro l’anarchia dell’immunità di gregge, nella convinzione che lasciar sfogare il virus senza opporvi barriere induca reazioni immunitarie nella popolazione e porti alla estinzione del virus stesso. Quale preferire? In realtà entrambi questi modelli a loro modo funzionano, ma solo fino a un certo punto e a un prezzo molto alto. Fino a un certo punto: infatti il contenimento della diffusione del virus attraverso l’imposizione di norme coercitive da parte del potere centrale ha successo solo se gli individui adottano consapevolmente i nuovi comportamenti dettati dalla situazione e rispettano quelle norme non per il timore di sanzioni ma per la fiducia nel patto sociale che fa ciascuno responsabile di tutti gli altri. Altrimenti il potere centrale, avocando a sé i diritti in nome della salute pubblica, svela il suo volto di Leviatano e suscita nei cittadini, privati di tutto salvo che della vita, una inevitabile reazione trasgressiva. Donde il fallimento dello stato di eccezione. 
Ma funzionano come si diceva non solo fino a un certo punto, bensì anche a un prezzo molto alto: infatti l’abbandono alla furia del virus comporta un aumento del tasso di mortalità a carico specialmente delle fasce più deboli, fino a livelli insostenibili. Né vale obiettare che un conto è considerare questa insostenibilità sul piano etico (dove gli scrupoli morali, come sempre accade in caso di disastri e sconvolgimenti inauditi, lasciano il tempo che trovano) e un conto è considerarla sul piano politico e sociale (dove trionfa quella che Sloterdjik ha chiamato la ragion cinica). In realtà nessuno può dire quali sconquassi politici possa suscitare una sensibilità morale profondamente ferita, com’è quella di chi è costretto ad abbandonare al proprio destino le persone care). Mentre è certo che la sola immunità nella quale si possa sperare è quella indotta da un vaccino, e quindi a sua volta figlia del patto sciale, non certo del caso o della indifferenza. 
Quale lezione trarne? Una sola, sempre la stessa: non ci si salva a scapito degli altri, perché al contrario ci si salva prendendosi cura degli altri. Magari sacrificando la propria vita, come c’è chi ha fatto. Non possiamo parlare della peste del XXI secolo senza ricordarlo. 

Saccardi. In mezzo alla crisi non sono mancate le voci che non solo auspicavano, ma quasi pronosticavano con sicurezza, che il mondo del «dopo» sarebbe stato «migliore». Personalmente, ho sempre avuto molti dubbi in proposito, ma, naturalmente, posso sbagliare (e, anzi, sarei felice di essere in errore). È una questione molto rilevante all’interno di una riflessione, come quella che il nostro volume intende proporre, sull’Antropologia di un mondo in cambiamento. Siamo pur sempre all’interno di un «mondo globale», che è tuttavia profondamente segnato dalle ferite della grave crisi (di carattere sanitario, ma anche sociale e umanitario) che va attraversando. Che prospettiva è ragionevole e realistico pensare per questo nostro pianeta? Si andrà verso un periodo di nuove chiusure, di particolarismi e di accentuate contraddizioni fra i suoi diversi comparti? O saranno possibili, o prevedibili, il recupero e la crescita di una nuova consapevolezza del destino comune e dell’interdipendenza (che anche la pandemia ha in qualche modo evidenziato, pur producendo frontiere nuovamente e provvisoriamente sigillate) degli esseri umani, ad ogni latitudine, in questo terzo millennio? 

Givone. «Nulla sarà come prima!» Quante volte, a seguito di eventi catastrofici abbiamo sentito ripetere quella frase? Voleva essere una certezza e un augurio, ma non era che un esorcismo. Sempre, superata la crisi più acuta, le cose hanno ripreso il loro cammino. Come prima, peggio di prima. E come se nulla fosse stato. Eppure… Eppure l’attuale pandemia ha introdotto elementi di novità che sembrano giustificare qualche speranza, sia pure una speranza indotta dalla disperazione. Nel giro di pochi mesi abbiamo assistito a un vero e proprio cambiamento di paradigma. Prima della diffusione globale del virus era dominante una concezione dei rapporti con l’altro basata sul conflitto e sul respingimento. 
In Italia, per esempio, più di un partito politico aveva fatto la sua fortuna impugnando la bandiera dell’italianità e del «noi contro loro». Cosa che del resto aveva già trovato negli Stati Uniti tra i suoi sostenitori addirittura il presidente. Poi il virus, e con il virus l’idea che ci si salva o si affonda tutti insieme. 
Insomma, come si usa dire: siamo tutti sulla stessa barca. Così il paradigma solidaristico, irriso come forma di buonismo per anime belle, è subentrato al paradigma sovranista e populista, e ne rappresenta il miglior antidoto.