NUOTAVA ÁGNES COME SI DEVE, OSSIA DA SOLA
di Francesco Comina

Non si può capire il pensiero di Ágnes Heller, figura importante del panorama filosofico del Novecento, se non ripercorrendo la sua storia personale, che con le vicende di quel secolo è strettamente intrecciata. Importante è ricostruire, nel segno della gratitudine e nel ricordo di un’amicizia, il ritratto vivo di una donna che ha sempre affrontato con coraggio le difficili sfide che la vita le ha posto, con la capacità di ricavarne fondamentali riflessioni di carattere intellettuale e morale, e che, pur avendo affrontato grandi prove, ha voluto godere con pienezza, fino alla fine, delle piccole e grandi gioie che l’esistenza le ha offerto.

«È vero: ogni decisione, ogni azione è un salto»
Ágnes Heller[1]

Partire dalla vita
Non si può capire il pensiero di Ágnes Heller se non si parte dalla vita, dagli eventi che l’hanno segnata, l’hanno influenzata, l’hanno contaminata. Insomma, dalla biografia. In lei non c’è mai stata cesura fra vita e pensiero. In generale non è possibile estrapolare il pensiero di un uomo o di una donna dal suo essere nel tempo e nello spazio. Per Ágnes, in modo particolare, è impensabile inseguirla nel lungo processo di trasformazione delle idee che hanno formato e maturato una personalità in continua dialettica con se stessa, se non si torna nel turbine della storia del Novecento, in quelle crepe del suolo dove si sono contesi i due totalitarismi che hanno fatto ombra alla storia. Forse più che per tanti altri pensatori, valeva per lei la definizione di Hegel: «La filosofia altro non è che il nostro tempo pensato in concetti».

Vivere il tempo significa cogliere pure il «valore del caso», sia nelle sue forme diaboliche del male sia nelle forme divine di salvezza: «Il caso, che sia una benedizione o un inferno è sempre un valore, un’opportunità, la possibilità di conoscere meglio il nostro carattere e di cambiare le nostre vite»[2].

Una storia simile a quella di Anne Frank
Ágnes Heller ha conosciuto fin da subito il male radicale. E ci ha fatto i conti quand’era ancora piccina: «A quattro anni – mi raccontava – già sapevo tutto su Hitler. Era il 1933 ed ero consapevole, grazie ai racconti di mio padre, che il male si sarebbe impossessato dell’Europa e forse del mondo».

Il 12 giugno dello scorso anno, ossia un mese prima della morte improvvisa nel lago Balaton (il 19 luglio), la Heller tenne a Francoforte, nella Paulskirche, un ricordo commovente di Anne Frank, in occasione dei novant’anni dalla nascita della bambina che con il suo Diario ha fatto piangere il mondo.

Ágnes era nata esattamente un mese prima di Anne (il 12 maggio del 29).

A quindici anni ha vissuto una storia simile a quella della ragazzina nascosta nella mansarda di Amsterdam e poi morta nel campo di Bergen Belsen. Gli occhi di due quindicenni vedevano il mondo dai sotterranei della vita e della storia, dai gorghi terrificanti della persecuzione degli ebrei europei. Ágnes era confinata nel ghetto di Budapest insieme alla mamma. Gran parte dei famigliari o degli amici erano stati uccisi o deportati nei lager. Perfino il suo primo ragazzo Gyuri, con cui leggeva poesie d’amore nell’isola Margherita, venne freddato dalle croci frecciate naziste ungheresi. Ágnes era consapevole di morire. Per ben tre volte venne portata sul ponte di Budapest, insieme a centinaia di ebrei, per essere fucilata. Riuscì per caso a salvarsi senza capire perché altri morirono e lei no. Vedeva l’acqua sotto di sé come l’unica fonte di salvezza e pensava sempre: «Se mi fucileranno, mi getterò dal ponte direttamente nel fiume». Mi sono chiesto se il suo amore per l’acqua non abbia radici lontane, proprio di questo trauma infernale: «Noi – scrive nel ricordo di Anna Frank pubblicato nell’ultimo libro pubblicato, che ho avuto la gioia di scrivere insieme a lei e a Genny Losurdo Il demone dell’amore[3] – i sopravvissuti accidentali, non ci siamo più liberati dal senso della colpa. Siamo rimasti in vita al posto di tutti gli altri che sono morti».

A quindici anni, dunque, Ágnes aveva introiettato la morte, l’aveva avuta come compagna di viaggio. Mi raccontava spesso un aneddoto legato ai primi giorni dell’occupazione tedesca dell’Ungheria del marzo 1944: «La mattina si seppe dell’occupazione, nel pomeriggio avevo prenotato un posto per un concerto di Stravinskij. Dissi ai miei genitori: “Vado al concerto”. Mia madre si infuriò tremendamente e mi disse che ero una pazza a voler andare a un concerto con i soldati tedeschi appena entrati in città. Mio padre replicò: “Vai pure”. Lui aveva capito, che fino a quando ero in vita, avrei dovuto sfruttare al massimo il tempo e le occasioni che mi capitavano».

Nel cuore di tenebra del nazismo, Ágnes inizia la sua riflessione sul male radicale, un tema che l’accompagnerà per tutta la vita e che la farà entrare in polemica con Hannah Arendt, proprio per via del libro più famoso, La banalità del male: «Esistono due tipi di responsabilità – mi spiegava la Heller –: una responsabilità è quella che mi porto addosso per qualcosa che avrei dovuto fare e che non ho fatto. Dovevo fare quell’atto ma per vigliaccheria o per paura non l’ho fatto. Altro invece è non avere una scelta, ma poter agire soltanto in un modo, laddove però il male commesso non è mai banale. Non possiamo mettere sullo stesso piano chi ha commesso un genocidio (malvagità) e chi non sapeva di questo genocidio (colpa). Amo molto la Arendt (la cattedra all’Università di New York dove ho insegnato per quasi trent’anni era intitolata proprio a questa grande pensatrice), eppure secondo me il concetto di “ banalità del male” non è corretto. Il male non è mai banale».

E nel suo ultimo ricordo di Anna Frank, torna sul tema: «Anna rifletteva sul male ma mentre scriveva il suo diario non aveva ancora fatto l’esperienza diretta del male radicale. Quando lo incontrò non poté più scrivere il suo diario. Il male ordinario e il male radicale sono distinti. Ciò che è male dipende sempre dalle culture di riferimento. In tutte le culture del mondo c’è un tabù, un limite che non può essere oltrepassato senza per questo violare i valori fondamentali delle culture stesse. In quella ebraico-cristiana uno dei tabù più importanti è il divieto dell’infanticidio. Solo il tiranno ricorre all’estremo per l’uccisione dei bambini. Così è accaduto col faraone nell’antico testamento o con Erode nel nuovo. Chi ordina l’uccisione dei bambini è un sorta di prototipo del male radicale e coloro che partecipano all’uccisione dei bambini sono essi stessi responsabili e parte di questo male»[4].

Se le persone esistono anche nelle situazioni estreme
Ma accanto a questa riflessione forte, ruvida, apocalittica del male, scaturiva anche l’altra riflessione, quella etica, che poi svilupperà nei libri sulla morale (Etica della personalità, Etica generale, Filosofia morale, La bellezza della persona buona). Riflessioni che partono da qui, da una messa a fuoco della bontà come promessa di umanità e come coefficiente estetico. Perché le persone buone esistono anche nelle situazioni più estreme, emergenziali, lì dove si apre la voragine del male radicale. Per Ágnes, suo padre, Pàl Heller, incarnava simbolicamente la figura dell’uomo morale, dell’uomo buono. Un uomo che amava la filosofia, un musicista (suonava bene il piano), un letterato, giurista, autore di uno dei primi libri sulla vicenda di Sacco e Vanzetti. Aveva insegnato alla figlia l’autonomia, la libertà e l’emancipazione. Ma soprattutto le aveva insegnato un principio che lei adotterà sempre, anche nei momenti più difficili: «Non si abbandona mai la nave che sta affondando». Per questo principio etico il padre della Heller morì nelle camere a gas ad Auschwitz nel gennaio del 45 dopo essere stato catturato mentre aiutava altri ebrei in fuga. Avrebbe potuto salvarsi la vita se avesse accettato l’invito a una conversione al cristianesimo. Ma rifiutò perché, appunto, «non si abbandona mai una nave che sta affondando». La Heller adottò questo principio in tante situazioni, soprattutto con la scuola di Budapest quando, sotto tiro del regime comunista, visse periodi di grandi sofferenze e privazioni di libertà. C’è una lettera commovente che il padre di Ágnes inviò alla figlia durante la deportazione lasciandolo cadere da una fessura del vagone per il bestiame e che un uomo o una donna buoni raccolse da terra, mise in una busta e inviò al destinatario: «Mia cara figliola Ági (diminutivo di Ágnes ndr), se pensi a me, devi ricordare che, se scegli la strada dell’amore, la tua vita sarà equilibrata ed armoniosa; hai solo bisogno di un po’ più di fortuna di quella toccata a tuo padre e tutto andrà bene […] Il male può vincere per il momento, ma sarà il bene, alla fine, a trionfare. Ogni persona buona porta il suo granello di sabbia per la vittoria finale».

Ci sono persone così e forse sono anche più numerose di quanto pensiamo. Non fanno rumore, non si conoscono spesso nemmeno i loro nomi, non hanno titoli di giornali e nemmeno riconoscimenti pubblici. Ma noi abbiamo il dovere di ricordarle. Negli ultimi anni la Heller aveva lanciato l’idea di istituire un monumento al buono ignoto: «Ci sono tanti monumenti ai militi ignoti – ripeteva spesso – perché allora non farne anche uno al buono ignoto? Un monumento che celebri tutte quelle persone che hanno salvato il prossimo senza lasciare traccia della loro azione. Uomini e donne che hanno steso la coperta del diritto sulle spalle del perseguitato, oppure che hanno dato da mangiare al miserabile che dorme nelle piazze della città o che hanno dato rifugio a un migrante salvandogli così la vita. Onoriamo e celebriamo gli atti di bontà e di amore per il prossimo che ogni giorno vengono fatti da persone di cui non sappiamo nulla. Hanno solo fatto quello che per loro era giusto fare, nel silenzio, nell’anonimato. Ricordiamoli».

Filosofa per caso
Anche l’approdo alla filosofia è arrivato per caso. Ágnes voleva diventare una scienziata, si era scritta alla Facoltà di Fisica. Ma il suo primo marito, Hermann Pista, la convinse ad assistere ad una lezione di Lukács su La storia della filosofia da Kant a Hegel. Ci andò controvoglia e non capì nemmeno un concetto di quella lezione, però ebbe una radicale illuminazione. Ne uscì sconvolta ma una sola cosa capì perfettamente: «Sarei diventata filosofa». In quattro anni fece una immersione totale nella storia della filosofia, studiando i classici del pensiero e abbeverandosi alla saggezza di Lukács, un grande maestro in quegli anni di apprendimento. Ma anche staccandosene subito dopo per recuperare lo spirito di autonomia e di autodeterminazione che l’ha sempre contraddistinta. E iniziò un suo percorso particolare. Lukács passò dall’essere maestro all’essere amico. E con l’amico ti confronti alla pari dando e ricevendo. Fu sua assistente dal 1953 al 1956 e restò fedele a Lukács fino alla fine, anche nei momenti più duri, quando fu messo sotto accusa e perfino deportato in Romania dopo essere stato ministro nel governo di Imre Nagy (1956). Per la sua fedeltà al principio etico per cui non bisogna mai abbandonare la nave mentre va a fondo, la Heller perse il lavoro in facoltà e fu accusata di far parte del movimento rivoluzionario del 56. Venne cacciata dal partito, apostrofata pubblicamente come traditrice e nemica del popolo, pedinata e controllata e seguita in ogni suo spostamento: «Non mi hanno arrestata – ricorda – ma io e mio marito vivevamo reclusi in casa, come fossimo agli arresti domiciliari. La vita era ridotta all’osso e anche le provviste alimentari arrivavano col contagocce. Se non ci fosse stata una solidarietà di amici e colleghi forse saremmo morti di fame».

Ricorda ancora la Heller: «Lukács mi ha influenzata profondamente, soprattutto all’inizio, e nonostante tutto mi sono voluta proteggere dall’eventualità di diventare la sua ombra o anche solo una semplice seguace. Ho sempre voluto percorrere la mia strada».

E a proposito della strada mi raccontava spesso questo aneddoto simpatico delle camminate che ogni tanto faceva con Lukács sulle montagne ungheresi insieme al marito Ferenc Fehér durante le vacanze estive. Un episodio che ho raccolto nel libro, I miei occhi hanno visto, un intenso dialogo con la Heller scritto insieme a Luca Bizzarri: «Feri e Lukács – racconta la Heller – vivevano la vacanza per discutere di filosofia. Io invece volevo godermi i panorami, fare lunghe camminate lungo i sentieri, arrivare alla cima della montagna e poi discendere attraverso le strade sterrate. E così Feri e Lukács si erano coalizzati contro di me. Volevano fare sempre lo stesso percorso. Io impazzivo. Volevo scoprire posti nuovi, vedere altri paesaggi. Un giorno allora avanzai un compromesso. Dissi a Lukács: “Facciamo così. Ogni tanto durante la giornata cerchiamo di spingerci in un nuovo ambiente”. Lukács mi rispose: “Ági, ma gli alberi non sono sempre uguali. A seconda della luce del giorno e durante i vari passaggi delle ore gli alberi appaiono diversi. Questo succede anche quando faccio due volte la stessa strada. Non è sempre uguale l’ambiente intorno”. Capivo il senso della sua frase, ciononostante avevo voglia di vedere posti nuovi. A un certo punto Lukács cominciò a parlare di ontologia e disse: “Le mucche divorano categorie”. Non ci ho più visto. Mi sono rivolta a lui con tono deciso e ho affermato: “Caro György le mucche non divorano alcuna categoria, mangiano l’erba quando hanno fame. Qui non c’è nessuna categoria. Guarda bene, quella è erba verde allo stato puro. Lì non c’è una ontologia ma una montagna, lì sotto c’è una valle, e questa che abbiamo qui a fianco è una casa e dietro la casa c’è un asino”. Lukács continuò parlandomi della coscienza come di un epifenomeno. Ma alla fine riuscii a fargli capire che ogni tanto la filosofia va messa da parte e che è bene gustare la bellezza della vita, i paesaggi, respirare l’aria fresca. E così, nei giorni successivi, quando si andava a passeggiare stavo molto attenta a non imbarcarmi in discorsi filosofici perché sarebbe stata la fine»[5].

Gli anni arcadici della Scuola di Budapest
Sono questi gli anni arcadici della filosofia ungherese, gli anni della Scuola di Budapest, dei convegni nell’isola di Korzula in Croazia, dove venivano i grandi pensatori di quel tempo a dare manforte ad una riforma del marxismo a partire dai bisogni radicali dell’uomo nella società insoddisfatta. La Heller scrive in quel periodo il suo libro più famoso, La teoria dei bisogni in Marx, da cui si distaccherà poco dopo: «È stato un libro che ha colto un segno del tempo, ossia interpretò i sogni di rinnovamento del marxismo dei movimenti del Sessantotto e del periodo seguente, ma posso dire che non lo considero il mio libro migliore, anzi mi sono distaccata da alcune idee di fondo di quel volume».

«La scuola di Budapest – ricordava – era un gruppo di amici, che si era unito per il perseguimento di uno scopo, ossia salvare Marx dal marxismo-leninismo, che dalla Seconda Internazionale si era ridotto a scolastica. Lavoravamo a una “rinascita del marxismo” cercando di tornare alle fonti. Márkus era intento a ricostruire l’antropologia del giovane Marx, concentrandosi sull’essenza umana. Vajda si era interessato, fin dagli anni Sessanta, a Husserl e a Merleau-Ponty, cercando i nessi e i collegamenti con Marx. Ferenc Fehér scandagliava i temi poetici di Dostoewskij e io puntavo l’attenzione ai bisogni radicali dell’uomo e non ai modi e ai metodi di produzione. Insomma, volevamo riconsegnare alle persone comuni una visione “umanista” di Marx, che fosse svincolata dall’ideologia e vicina ai problemi della vita e del quotidiano».

Sono anni intensi di riflessioni, dibattiti, scontri con il potere. La Heller è costretta a pubblicare i libri clandestinamente fuori del Paese. Si aprono grandi aspettative sul lavoro di questa compagine di filosofi intenti a slegare Marx dai legacci ideologici del comunismo: «I marxisti – affermava la Heller – interpretano l’eredità di Marx secondo la loro concezione, ad esempio c’è chi parla di capitalismo quando, al contrario, Marx non ha mai usato tale espressione. Addirittura oggi sento parole come «dittatura del capitale» attribuite a un certo marxismo ortodosso. Marx non usò mai simili espressioni. Gli “ismi”, secondo il mio punto di vista, hanno fatto più male che bene alla storia e dunque io rivendico il diritto di rifarmi a Marx senza essere marxista. Mi viene sempre in mente un aneddoto legato a Michel Foucault, che considero uno dei maggiori filosofi del Novecento. Un giorno gli chiesero: “Ma signor Foucault, lei è strutturalista o post-strutturalista?”. E Foucault rispose: “Io sono Michel Foucault!”. Ecco, io non sono nessun “ismo”, sono semplicemente Ágnes Heller»[6].

Nel 1976 l’«ismo» del regime però ebbe la meglio e la Scuola di Budapest decretò, senza mezzi termini, il proprio fallimento. Fu il più giovane del gruppo, Mihàly Vajda, a dare il colpo di grazia a quell’esperienza arcadica. La sua sentenza fu categorica: «Non si può superare il capitalismo, il comunismo è spazzatura e così è pure il marxismo». La Heller ha reinterpretato così quella sentenza: «Direi che Vajda ha avuto il merito di infrangere dichiaratamente la logica scientifico-filosofica delle “grandi narrative”, le quali sono basate sul concetto che ogni periodo può essere superato da un altro, e se dici che questo periodo non può essere superato allora ne decreti la fine. Io non condivisi quella posizione, e non la condivido tuttora perché “formalmente” la trovo un’affermazione metafisica, in quanto era pur sempre un’affermazione sul futuro e non si può essere così certi che il capitalismo non sarà superato. Tuttavia ci trovammo sostanzialmente d’accordo sul fatto di essere arrivati a un punto, in cui non soltanto non credevamo più nel socialismo o nella terza via, ma in questa ricerca avevamo operato una sistematica decostruzione del marxismo. Nel tentativo di rinnovarlo lo avevamo smontato pezzo per pezzo e oramai non ci serviva più»[7].

I floridi anni australiani
La fine della Scuola di Budapest e il crollo delle grandi narrative ebbe come primo effetto la fuga. I filosofi decisero tutti di uscire dal Paese e grazie agli accordi di Helsinki del 1973 ciò fu finalmente possibile. Agli inizi del 1978 la Heller partì per l’Australia insieme al marito Ferenc Fehér e al figlio Gyuri. Riuscì a trovare un posto come insegnante di filosofia all’università di Melbourne: «Ero finalmente libera – ricordava – e potevo esprimere la mia libertà attraverso il libero pensiero, la pubblicazione dei libri, l’autonomia nelle decisioni da prendere, la possibilità di scegliere da che parte stare, di scrivere e dire ciò che avevo in mente senza pensare a censure, a rischi, a paure, ad attacchi politici…».

Sono anni floridi quelli australiani. Ágnes scrive tantissimo. Escono alcuni libri fondamentali, Una teoria della storia, Etica generale, Oltre la giustizia, Il potere della vergogna, un libro su Lukács, un altro sulla rivoluzione ungherese del 56, sulla Scuola di Budapest: «Ho avuto modo di approfondire i filosofi tedeschi e francesi. Naturalmente conoscevo bene Kant e Adorno, ma anche Max Weber in quel periodo ebbe una forte influenza sul mio pensiero. Ovviamente Habermas e tutti i filosofi che gravitavano intorno al pensiero critico. E poi Foucault, Nietzsche e Heidegger. Vagavo in questo cielo del pensiero che si arricchiva di giorno in giorno di nuove proposte e nuove suggestioni».

La Heller si è sempre portata nel cuore l’Australia. Fino alla fine. Aveva in programma un viaggio nell’autunno dello scorso anno perché i vecchi studenti avevano preparato una sua festa per i suoi novant’anni: «Non vedo l’ora di andarci – mi diceva – anche perché ho vissuto anni stupendi quando insegnavo a Melbourne. Avevo ottime relazioni con molti intellettuali e con amici con cui condividevo gite, camminate, incontri in un paesaggio naturale che è di una bellezza inaudita».

Ma nel 1986 la strada per la libertà si dilata ancor più e la Heller accetta l’invito di assumere l’incarico per la prestigiosa cattedra di filosofia politica alla New School di New York, dove insegnò Hannah Arendt. Fu un’immersione totale in uno dei centri di gravitazione culturale fra i più importanti al mondo. Anche il marito Feri la seguì. In breve tempo la casa della coppia Heller-Fehér divenne il crocevia di alcuni grandi protagonisti del pensiero del Novecento: «Non transitavano solo americani, ma si incontravano nel nostro salotto intellettuali provenienti da tutto il mondo. Veniva spesso lo storico inglese Eric Hobsbawm, invitavamo di tanto in tanto quello che poi sarà il presidente dell’Ungheria László Sólyom, veniva a trovarci il collega Richard Bernstein, che conobbi già molto prima a Dubrovnik. Alcuni purtroppo non ci sono più, come Reiner Schürmann, che ha scritto la prima grande opera su Heidegger. Fui anche amica di Jacques Derrida, che tenne insieme a me, come visiting professor alla New School, un corso sul tema dell’amicizia. Passò dal nostro appartamento anche Cornelius Castoriadis con il quale ho tenuto un lungo rapporto di amicizia. Insomma, a New York io e mio marito abbiamo vissuto una vita intellettuale molto intensa. C’era anche l’Hannah Arendt Symposium, che non si occupava solo di filosofia ma anche di politica e di sociologia. C’era un ottimo dipartimento di psicologia»[8].

Sono anni magici in cui Ágnes assapora davvero il gusto di una libertà totale. Non solo per i circoli intellettuali che frequenta (viene spesso invitata a casa di Hans Jonas, incontra Noam Chomsky), ma anche per l’offerta ininterrotta di possibilità culturali che la Grande Mela offre, dal Metropolitan Museum, ai jazzclubs o agli eventi della grande musica classica. Le capita anche di conoscere cantanti famosi nel panorama pop, come Blondie, che per un periodo vive al piano di sotto dell’appartamento della Heller a Manhattan: «In realtà si trattava di una giovane ragazza di campagna con i capelli biondi, molto simpatica e allegra. Io all’inizio non sapevo nemmeno chi fosse. Poi gli amici australiani mi dissero: “Ma come non lo sai? È una delle cantanti più famose al mondo!» ricordava sorridendo.

«In questi fantastici anni newyorchesi – ricordava – ho avuto rapporti con la ricca rete di movimenti che si battono per i diritti civili. Mi sono lasciata coinvolgere nel movimento femminista radicale. Mi sono sempre schierata dalla parte dell’emancipazione della donna anche se non sopporto il razionalismo ideologico del movimentismo. Credo che la più grande rivoluzione del Novecento sia stata la parità uomo-donna. In questo periodo americano io e Férénc abbiamo scritto parecchio. Abbiamo dato alle stampe il nostro saggio sulla biopolitica, che ebbe un discreto successo e venne tradotto in inglese, spagnolo, italiano e tedesco. Scrissi molto per alcuni quotidiani europei, come la “Süddeutsche Zeitung”, “Die Zeit” e altri giornali spagnoli e italiani».

Ma la patria, la vecchia Heimat che ha proiettato nel profondo l’ombra scura della persecuzione e della stretta culturale, non ha mai sopito quel sentimento interiore della nostalgia, del pianto amaro per un tessuto sociale e familiare frantumato e frammentato, che si è sempre portata dentro come un pungiglione doloroso e sofferente. Finalmente il 1989 agita, nella sua anima, la possibilità del ritorno. Il muro di Berlino crolla, facendo a pezzi le grandi narrative che la Scuola di Budapest aveva demolito dieci anni prima con il famoso verdetto di Mihaly Vajda. La vita non si misura più sulle coordinate messianiche della storia, ma attimo per attimo, momento dopo momento, per cui è l’etica concreta che rimane, la coesistenza di volti, la giustizia, la solidarietà, l’amicizia, l’onestà, la bontà, il senso civico, la bellezza di un tramonto o l’estetica di un paesaggio collinare osservando il panorama dal basso, mentre si sorseggia un buon vino o si mangia del buon pesce.

La Heller decide di tornare in Ungheria per chiudere il cerchio e iniziare l’ultima fase della vita, quella delle peregrinazioni, soprattutto dopo la morte del marito Ferenc Fehér avvenuta nel 1994: «I viaggi sono diventati la mia vita. Ho dovuto aspettare la vecchiaia perché il mio sogno di bambina si realizzasse. Quando avevo nove o dieci anni, meravigliata dalla lettura di alcuni libri di viaggi, decisi che avrei fatto il “giramondo” quando sarei cresciuta. Mio padre mi chiese chi avrebbe pagato. Ora ho avuto la risposta. Mi piaceva e mi piace ancora. Dato che mi viene chiesto spesso se viaggiare non mi stanca risponderò qui una volta per tutte: no per niente!»[9].

Storia di un’amicizia
Ed è stato in questo giro «ultimo» di peregrinazioni che iniziò, tredici anni fa, il mio rapporto di amicizia con Ágnes Heller. Una amicizia che si è sviluppata continuamente fino a diventare profondissima, un’amicizia vera, proprio nel senso con cui la Heller intendeva l’esser amici: «Per amico – diceva – io intendo un amico stretto, vicino. Ci dev’essere fiducia, reciprocità, onestà, intimità, possibilità di rimanere in silenzio, un po’ di trasparenza, un po’ di attrazione erotica, rispetto reciproco, sincerità e capacità di risolvere i conflitti e i fraintendimenti».

Abbiamo macinato chilometri e chilometri in macchina, da un capo all’altro dell’Italia. Ci teneva che io l’accompagnassi perché sapeva che ero solito deviare dai percorsi diretti per trovare luoghi dove ci si poteva fermare a contemplare i paesaggi, bere un aperitivo su qualche spiaggia, mangiare del buon pesce fritto, fare magari una nuotata. A Berlino abbiamo girato musei e mostre d’arte nell’anno in cui mi trovai a vivere nella capitale tedesca. Veniva spesso per tenere conferenze all’Università e mi chiamava subito implorandomi di andare a prenderla per portarla a visitare qualche mostra o qualche museo, «altrimenti mi annoio». A Budapest chiacchieravamo nei luoghi dove si incontrava la Scuola di Budapest e l’Italia era per lei un polmone dove respirare la bellezza. Si camminava per i sentieri della Val di Rabbi in Trentino in cerca dell’acqua ferruginosa, al Renon in Alto Adige si faceva regolarmente la Freudpromenade (la camminata dedicata a Sigmund Freud che qui ci venne nell’estate del 1911 con la moglie e rimase stregato dalla bellezza del panorama) e si camminava anche per due ore, fino alle piramidi di terra facendo una sosta a mangiare una ottima Wienerschnitzel e bere del vino bianco secco. Le Dolomiti le mettevano energia e forza. A Bolzano venne molte volte e fece anche degli incontri «storici», come quello con il suo vecchio amico Zygmunt Bauman sulla bellezza come promessa di salvezza, con duemila persone venute da ogni dove per assistere al dialogo fra due straordinari pensatori. A Rovereto ci si fermava sempre al Mart passando per Castel Beseno. E poi il Sud Italia di cui fremeva ogni volta per lo spettacolo del mare. In Puglia abbiamo girato, in pochi giorni, fra Martina Franca e Lecce dove nel 2018 è stata premiata dall’Università anche se la cosa più bella per lei è stata la visita della città insieme all’amico regista Edoardo Winspeare. Non vedeva l’ora di partire nuovamente a settembre dello scorso anno, dopo la pausa estiva per presentare il nostro libro, Il demone dell’amore, di cui era entusiasta perché per la prima volta si era misurata integralmente con il sentimento che infiamma gli animi delle persone uscendo da ogni filtro logico. Avevamo fissato dieci date di un tour fra Merano e Fano. Il suo desiderio era quello di ricondurre l’amore nella dinamica di una relazione concreta fra un io e un tu. Con i versi del suo poeta preferito, l’ungherese Attila Jószef, volle chiudere così quel lungo dialogo: «Metti la mano / sulla mia fronte / come se fosse / mia la tua mano. // Fammi la guardia / come chi uccide / come se fosse tua la mia vita. // Amami, come se / fosse bene / come il mio cuore / fosse il tuo cuore».

Il 19 luglio arrivò la notizia della sua morte mentre faceva una delle sue famose nuotate nel lago Balaton. Se avesse potuto Ágnes avrebbe vissuto nell’acqua. Non so cosa la spingesse così istintivamente verso i laghi, il mare e perfino i fiumi. Forse vi trovava il senso delle cose, il fondale marino della vita: la pace interiore. Pochi anni fa le venne la bella idea di tuffarsi in uno dei grandi fiumi dell’Amazzonia dove non è difficile imbattersi in temibili coccodrilli. Le ordinarono di uscire al più presto. Scherzando commentava: «Ma cosa avrei dovuto temere? Con tutto il ben di Dio che c’è in quel fiume i coccodrilli si scomodano per me?». Amava il lago di Caldaro al punto che sei anni fa lo fece a nuoto quasi fino all’altra riva. Il lago di Garda lo ha sperimentato da ogni punto. Ricordo le sue nuotate a Riva del Garda, a Malcesine, a Lazise e Desenzano. Alle terme di Merano fece solo la piscina olimpionica esterna: «Per me nuotare significa nuotare e non galleggiare al caldo» mi disse. Ma la nuotata più bella l’ha fatta al mare quando andammo a Fano per tenere una conferenza. Sparì oltre gli scogli per almeno due ore. Tornò felicissima. Si sedette sul lettino e tirò fuori un voluminoso thriller. Era una giornata stupenda di metà settembre, il mese più bello per nuotare. E nuotava Ágnes, come si deve, ossia da sola.


[1] Á. Heller, Un’etica della personalità (a cura di Laura Boella, Andrea Vestrucci, Chiara Zancan), Mimesis edizioni, Milano 2018, p. 55.
[2] À. Heller, Il valore del caso. La mia vita (a cura di Georg Hauptfedl), Castelvecchi, Roma 2019, p. 147.
[3] À. Heller, F. Comina, G. Losurdo, Il demone dell’amore. La grande filosofa al cospetto di un sentimento che infiamma, Gabrielli editori, S. Pietro in Cariano (Vr) 2019.
[4] Ibidem, p. 130
[5] F. Comina, L. Bizzarri, Ágnes Heller, I miei occhi hanno visto, Il Margine, Trento 2018 (II edizione), pp. 68-69.
[6] Ibidem, p. 79.
[7] Ibidem, p. 14.
[8] Ibidem, p. 96.
[9] Á. Heller, Breve storia della mia filosofia, Castelvecchi, Roma 2016, p. 148.