IL PROFILO DELLA «PERSONA BUONA» E UN PIANO TEORICO A TRE PUNTE
di Vittoria Franco

Ágnes Heller disegna un piano teorico a tre punte nel quale la scelta esistenziale di Kierkegaard ha la parte predominante e le altre due punte sono rappresentate dall’etica del dovere di Kant e dal «navigare in mare aperto» di Nietzsche. Una costruzione dalla quale emergono i tratti della persona buona, come risultato della trasfigurazione delle suggestioni che provengono dai tre autori: un soggetto etico nuovo, responsabile, autonomo, che si fa carico degli altri.

Tra Kant e Nietzsche spunta un tertium datur
Kant o Nietzsche? L’etica del dovere e dell’imperativo categorico o la trasvalutazione dei valori e il navigare in mare aperto, senza certezze, lasciandosi trasportare dal proprio fato e facendo affidamento soltanto sulla propria, individuale, sovranità? Ágnes Heller fa saltare questa dicotomia introducendo un tertium datur: la «scelta esistenziale» di Kierkegaard, però rivista e corretta e senza escludere del tutto le elaborazioni dei primi due. Possiamo dire che disegna un piano teorico a tre punte, con un vertice privilegiato che rappresenta l’autore di Aut-Aut, ma nel quale anche gli altri hanno un ruolo. Il soggetto etico che ne emerge non rappresenta completamente nessuna delle tre posizioni, ma è una trasfigurazione di suggestioni che dai tre provengono. È un soggetto del tutto nuovo quello di cui Heller traccia la fisionomia: è un individuo «responsabile», che esercita autonomia e risponde agli altri. Anzi: che si fa carico degli altri. È un individuo che vive in relazione, che non ha nulla dell’individuo sovrano o addirittura deificato di Nietzsche, né del dovere morale universalizzabile kantiano, ma non è neanche l’individuo «assoluto» di Kierkegaard. E così, nell’epoca della «morte di Dio» e della fine della metafisica, la sua «etica della personalità» si rivela alla fine un’etica della responsabilità. Heller ritiene, come Derrida e Levinas, che l’etica concerna una responsabilità personale assunta per l’altro e che questo tipo di responsabilità sia la categoria centrale dell’etica. E assumere una responsabilità per l’altro equivale ad assumere l’intersoggettività. Possiamo dire – per usare il suo linguaggio – che nella sua teoria della morale Kierkegaard è una delle stampelle teoriche privilegiate, ma certamente non l’unica.

La costruzione è complessa e ha richiesto un periodo lungo di elaborazione, circa un decennio fra gli anni 80 e 90, quando Ágnes Heller aveva abbandonato da tempo il marxismo – sia pure ribelle – dell’epoca ungherese e nell’emigrazione aveva imboccato altre strade lasciandosi alle spalle le grandi narrazioni che implicavano l’illusione di occupare un posto privilegiato nella storia, di conoscere la verità e il futuro.

È in questa nuova fase di esplorazione che concepisce e scrive la sua trilogia dell’etica[1], che comprende: Etica generale (1988), Filosofia morale (1990), Un’etica della personalità (1996)[2]. Il filo che tiene legati i tre volumi è la domanda di fondo: «Le persone buone esistono. Come sono possibili?». I primi due volumi preparano il terreno teorico, i presupposti di qualsiasi possibile etica della personalità; costruiscono il linguaggio, un nuovo lessico morale per un’etica postmetafisica. Approfondiscono concetti-pilastro come la responsabilità, delineano il nuovo soggetto della modernità, «casuale» e «contingente». Il terzo – che nel progetto compariva col titolo Una teoria della condotta – doveva affrontare il problema «(…) dal punto di vista della persona umana considerata nella sua interezza (quello dell’individuo che aspira alla vita buona)»[3]; nel prosieguo dell’elaborazione preciserà che intendeva arrivare a «una teoria della saggezza morale». La scelta finale del titolo Un’etica della personalità – esplicitamente ispirata a Lukács – parla del travaglio riguardo non tanto ai contenuti quanto alla scelta narrativa: come si può parlare della vita buona delle persone singole senza diventare pedante? Come si può parlare di un’etica che è «inimitabile»?

Potenza etica e scelta estetica
È a questo punto che la sua potenza etica innovatrice si dispiega anche nella scelta estetica, con una originale e multiforme trattazione: delle lezioni su Nietzsche e Wagner nella prima parte; nella seconda un dialogo fra due giovani studenti di filosofia che hanno seguito le lezioni – Joachim e Lawrence -, ai quali si aggiungerà Vera, che dovrebbe rappresentare quel tertium datur etico-filosofico fra Kant e Nietzsche e che si basa sulla saggezza. I personaggi sono immaginati come una sorta di reincarnazione dei protagonisti del dialogo che il giovane Lukács nel 1909 aveva dedicato a Lawrence Sterne[4], nel quale a discutere animatamente sono due studiosi che difendono l’uno lo scrittore inglese e l’altro Goethe, di fronte a una giovane che li ospita e segue con interesse il loro diverso argomentare. Nella terza parte si svolge invece un carteggio fra una giovane Fifi, studiosa di Shakespeare e di letteratura inglese, e sua nonna – che incarna, anche lei, la saggezza – a partire da un manoscritto che il suo amico Lawrence le affida e che – veniamo a scoprire – costituisce il dialogo della seconda parte. È evidente il concatenamento fra le tre sezioni e la presentazione al lettore di una scena con tante voci e molteplici prospettive, unite da un obiettivo: la costruzione individuale di un’etica della personalità come etica della responsabilità che comprende l’altro[5]. Un’etica della personalità ci dice che siamo moralmente responsabili per noi e per le altre creature come noi, e che dobbiamo saltare, cioè compiere delle scelte senza avere guide certe, come si conviene a un individuo moderno, divenuto contingente.

Heller affida dapprima al dialogo fra i due studenti e Vera il complesso ragionare sulla possibilità di un’etica contemporanea, postmetafisica, non più – o almeno non solo – universalmente rappresentabile nell’imperativo categorico kantiano. Dei due è Joachim che difende gli assunti kantiani, non essendo affatto convinto dell’«etica della personalità» presentata nelle lezioni: l’etica non può scaturire dall’interno dell’anima di un singolo; «(…) l’essenza dell’etica consiste piuttosto nel fatto che impone i medesimi standard a tutti». Dunque, non può esistere un’etica senza universalizzazione, senza doveri condivisi in un ethos comune. Lawrence è invece più in sintonia con la presentazione di un’etica della personalità di ispirazione nietzschiana: è un’etica di rottura con la tradizione ebraico-cristiana, «un’etica che non obblighi», senza costrizioni. È la propria ragione a comandare e dunque si obbedisce soltanto a se stessi. E rimprovera a Kant di aver costruito una legge morale a forma di obbligo e di dovere che ne mantiene il corpo dentro la metafisica. Sul punto non è difficile la replica: la vera metafisica è quella creata da Platone con l’unione fra l’idea di Bene e la conoscenza: se conosci l’idea del Bene, sei anche buono: «L’idea diventa la sorgente della conoscenza e della bontà». L’innovazione di Kant consiste invece nell’aver tagliato il cordone ombelicale fra moralità e conoscenza dichiarando la non dimostrabilità della legge morale e privando la ragion pratica della capacità di fornire alcun tipo di conoscenza. Il suo razionalismo non ha pertanto più niente a che vedere con quello tradizionale – argomenta il kantiano – giacché la ragione a cui ci si appella nell’agire morale «non è volta alla conoscenza» – non è intelletto, avrebbe detto Hannah Arendt, richiamata esplicitamente più avanti nel dialogo -, bensì al «pensare». Sostenere che la legge morale dimora in tutti noi equivale ad affermare che siamo esseri liberi, vale a dire che «(…) possiamo dare inizio a qualcosa di assoluto nel mondo della natura».

L’amica di Sören
Nella querelle irrompe Vera – personaggio senza età, come una voce astratta, ma che sa come vivere nel mondo moderno -, che si presenta come «amica di Sören», il quale viene rappresentato come un filosofo che non espone una sua filosofia, un pensiero forte, potremmo dire, ma parla attraverso delle maschere, quali sono considerati i vari pseudonimi coi quali si firma. Il richiamo a lui può dunque essere solo un’ispirazione, l’interpretazione è libera e chi parla si assume la responsabilità di ciò che dice, senza nascondersi dietro le spalle del filosofo, lascia intendere Vera (che forse rappresenta in qualche modo l’autrice).

La donna – che assume un atteggiamento maieutico nella discussione per far emergere la «verità» – spiazza subito i due giovani filosofi mettendo al centro non «la fonte», o il fondamento, della morale, bensì la «persona buona». Una persona buona può trarre la forza della sua bontà da sorgenti diverse o forse da nessuna fonte. Non è così importante capire come le persone buone siano possibili. Semplicemente esistono: «Ci sono persone buone – punto». Sappiamo che esistono e che ciascuno è buono a modo suo, idiosincraticamente. Questa unicità non esclude tuttavia un aspetto fondamentale di universalità, una universalità che potremmo definire paradossalmente «circoscritta», vale a dire: la «scelta esistenziale» di se stessi come persone buone, oneste, perbene. Compiere la scelta esistenziale costituisce un elemento di universalità in quanto tutti possono compierla, ma essa riguarda una persona determinata, il soggetto che la compie, e in questo senso è idiosincratica. La scelta esistenziale consente di divenire ciò che già si è: persone perbene. È, caso mai, in questo «divenire» che si cercano stampelle su cui sostenersi. Ma queste possono essere diverse: dall’imperativo categorico kantiano a una religione o a un’altra filosofia morale. È nel corso del divenire buono/a (ciò che già sono) che sono chiamato/a a risolvere conflitti e problemi morali, a capire qual è la cosa giusta da fare ora, in una situazione determinata. E dunque, l’etica riguarda il fare, l’essere in relazione, l’agire, il comunicare, ma prima di tutto questa forma del «divenire».

Nella dimensione di universalità, tuttavia, si può – si deve? – anche inserire un elemento sostanziale assumendo come vera la famosa affermazione che Platone mette in bocca a Socrate nel Gorgia e nella Repubblica: «È meglio subire un’ingiustizia piuttosto che commetterla». La sua veridicità non è dimostrabile; si può soltanto dire che essa è vera per le persone buone. Una persona è buona se preferisce subire un torto piuttosto che commetterlo. Un passaggio che ricorda di nuovo Hannah Arendt che a Socrate si richiama quando cerca di capire il percorso mentale di coloro che durante il nazismo decisero di non collaborare. Nel momento in cui tutti i valori della tradizione occidentale erano stati dissolti e nessun comandamento era più considerato vincolante – nemmeno quello cristiano «non uccidere», visto che venivano uccise persone innocenti –, l’unico appiglio era quello socratico che suggerisce la superiorità morale del subire un torto piuttosto che commetterlo a danno di altri e di non voler convivere con un se stesso malfattore.

«L’autenticità è il fondamento»
Le persone buone si manifestano e questa è la prova che esse esistono e che hanno scelto se stesse esistenzialmente come persone buone. Non c’è bisogno di altre prove. In sostanza, non c’è bisogno di ammettere kantianamente che agiamo onestamente e moralmente perché ubbidiamo alla legge morale che è in noi. In un certo senso, anche la kierkegaardiana scelta esistenziale taglia dunque il cordone ombelicale tra la conoscenza e la bontà; introduce però un’altra specie di autonomia morale, che fa perno sulla capacità soggettiva di compiere il salto fondamentale, la scelta esistenziale di se stessi come persone buone e oneste. Il soggetto morale diventa così il suo stesso fondamento.

Le capacità maieutiche di Vera hanno immediatamente effetto su Lawrence, il quale vede nel suo argomentare un’opportunità che rafforza la tesi da lui sostenuta della possibilità di un’etica della personalità che si sbarazzi completamente del kantiano «fantasma universale» della ragione e punti sull’autodeterminazione. E però, non è questa la categoria più propria a un’etica della personalità per l’amica di Sören. Autodeterminarsi vorrebbe dire conoscere tutto di noi, passato presente e futuro. E ciò sarebbe un’assurdità. Compiere la scelta esistenziale significa invece «destinare se stessi – e non determinarsi». Come sostiene Kierkegaard in Aut-Aut: «Solo me stesso posso scegliere in modo assoluto; e questa scelta assoluta di me stesso è la mia libertà». Scegliere se stessi significa scegliere il proprio telos, il proprio destino, arrivando così ad «esistere» (non soltanto «essere»). L’esistere fa di ciascuno un soggetto morale perché presuppone che sia stata già compiuta la scelta esistenziale del destinare se stessi. Questo è l’atto più proprio per un essere casuale e contingente, che vuole superare lo stato della sua contingenza, cioè del non essere più pre-destinato come nella condizione premoderna, quando si riceveva la propria destinazione, il proprio telos come regalo alla nascita. L’individuo moderno si caratterizza per essere un individuo contingente, che ha la facoltà di destinare se stesso e recuperare in questo modo autonomia e libertà, ma che nel contempo non gode più di binari predisposti. L’etica della personalità in quanto etica della responsabilità presuppone la coscienza della finitezza, della contingenza umana, dell’incertezza, del rischio. E pertanto, ogni decisione è un salto, un rischio che dobbiamo assumerci nell’incertezza, un prezzo da pagare alla conquista dell’autonomia.

Durante la discussione vengono individuate le principali virtù di chi si fa portatore di un’etica della personalità: l’autenticità, l’onestà, la nobiltà, la fierezza, la sincerità. L’autenticità non è però una virtù fra le altre e nemmeno quella principale: «l’autenticità è il fondamento». La precisazione che fa Vera è importante per capire meglio il concetto di autonomia e la ragione del deciso rifiuto della nozione di autodeterminazione, ma è anche un’altra maniera per dire che l’etica della personalità è un’etica senza altro fondamento che la stessa persona che compie la scelta esistenziale.

Il gesto della scelta esistenziale
Il gesto della scelta esistenziale mi dota di autenticità e trasforma le determinazioni in autonomia: scelgo me stessa come sono, con tutta la mia storia e le mie caratteristiche, virtù e vizi. In fondo, anche per lei è difficile rigettare del tutto l’immagine kantiana dell’uomo come un «legno storto». E però, sia pure nell’imperfezione insuperabile, io divento l’unica responsabile dei miei atti, giacché una volta acquisita l’autonomia, la propria anima non ha più una preistoria. Heller arriva così a far coincidere autenticità – che si esprime attraverso la scelta esistenziale – e autonomia, sottraendo a questa quel tratto di onnipotenza individuale che è presente in Nietzsche e che si rivela irrealistico. Essere autonomi non significa più, infatti, agire come superuomini irrelati, ma essere capaci di compiere il fondamentale gesto della scelta esistenziale. Se ne deduce che anche la libertà non può che essere relativa, non assoluta. Una convinzione questa che Ágnes Heller condivide – di nuovo – con Hannah Arendt. La sovranità assoluta dell’individuo non esiste, perché vorrebbe dire essere Dio. E noi non siamo dei. È il contrario di Nietzsche.

Autonomia morale assoluta dell’individuo significherebbe che gli atti sono totalmente determinati dalla sua libertà. «Lo stato di autonomia assoluta e quello di totale mancanza di autonomia sono nella stessa misura utopie negative», aveva precisato in Oltre la giustizia[6]. Si capisce meglio perché l’autrice rifiuti l’etica della personalità proposta da Nietzsche e modellata sull’individuo sovrano: perché vi manca quel contenuto minimo che caratterizza e definisce la persona buona – e che asserisce che «è meglio subire un torto piuttosto che commetterlo contro gli altri» – e perché non si realizza quella combinazione fra autonomia e responsabilità come relazione con l’altro.

Sono belle e importanti le lezioni dedicate alla critica di Nietzsche al Parsifal wagneriano che rappresenta il capolavoro dell’empatia, del perdono, della compassione, tutti sentimenti che comprendono l’altro. Le sue figure, soprattutto Gurnemanz, dimostrano che la bontà non presuppone eroi, un’eccezionalità morale, ma è alla portata di tutti. E questo era per Nietzsche imperdonabile: «l’“uomo buono” è lo scandalo dell’etica»[7]. La scelta di se stessi come persone buone e perbene, il rispondere agli altri della Heller implica invece legami di reciprocità, condivisione di relazioni e promesse. È un’etica che richiama la finitezza, il limite, ma anche lo scambio e la trascendenza reciproca. Del resto, la bontà è tale in relazione all’altro[8].

Si viene così a creare un intreccio fra amore, bellezza e bontà ed emerge una dimensione estetica dell’etica: «L’uomo e la donna buoni sono tali non solo interiormente, ma anche esteriormente. Io vedo una combinazione di bontà e bellezza. Le persone buone, oneste, coerenti, ossia virtuose, agiscono pensando al miglior mondo morale possibile e scegliendo le norme sociali e politiche che hanno nella giustizia, nel rispetto dei diritti, nella pace, nella solidarietà il loro senso e il loro significato»[9].

Questa affermazione, molto più recente rispetto alla trilogia, rivela bene il piano scelto da Ágnes Heller: quello classico, aristotelico, dell’etica delle virtù, della vita buona, costruito però con le categorie della filosofia morale moderna e contemporanea, a partire dall’individuo contingente che vive in una «eticità» non più chiusa. La sfida teorica di Ágnes Heller consiste nel tenere insieme scelta esistenziale e relazionalità dell’individuo per avvicinarsi alla vita buona. La responsabilità che viene declinata insieme con l’individualità della scelta implica una risposta a chi chiama e ci interpella, a coloro coi quali si possono stabilire rapporti di reciprocità. E qui si entra in un territorio diverso da quello kierkegaardiano, del cui armamentario concettuale l’autrice si è tuttavia servita.


[1] L’aveva intitolata Teoria della morale.
[2] Á. Heller, Etica generale,il Mulino, Bologna 1994; id. Filosofia morale, il Mulino, Bologna 1997; id. Un’etica della personalità, a cura di L. Boella, A. Vestrucci, C. Zancan, Mimesis, Milano 2018. Heller considererà parte integrante di questo progetto anche Oltre la giustizia (1987), trad. it. di S. Zani, il Mulino, Bologna 1990.
[3] Á. Heller, Un’etica della personalità cit., p. 51.
[4] G. Lukács, Ricchezza, caos e forme, in L’anima e le forme, Sugar, Milano 1972.
[5] Mi occupo più diffusamente di questo aspetto nel capitolo su Ágnes Heller del mio Responsabilità. Figure e metamorfosi di un concetto, Donzelli, Roma 2015.
[6] Á. Heller, Oltre la giustizia, cit., p. 372.
[7] Á. Heller, Un’etica della personalità, cit., p. 100.
[8] Riprendo questo tema nel mio Bontà, in V. Franco (a cura di), Parole della convivenza, Castelvecchi, Roma 2020.
[9] F. Comina, J. Losurdo con Á. Heller, Il demone dell’amore, La grande filosofa al cospetto di un sentimento che infiamma, Gabrielli editori, Verona 2019, p. 121.