Una domanda antica da declinare al futuro
di Sergio Givone a colloquio con Severino Saccardi

Un dialogo con una serie di domande e di riflessioni sulla verità (non solo e non tanto quella con la V maiuscola, ma la verità sostanziale da riaffermare rispetto a chi vorrebbe dare della realtà una rappresentazione separata dai fatti). Riflessioni che si articolano nel riferimento alle modalità disparate con cui è stato interpretato questo grande tema.

Quando erano i fatti a dover essere separati dalle opinioni
Saccardi. Io partirei da alcuni spunti occasionali, che rimandano ad un dibattito di forte attualità, come il libro dell’amica Giuliana Sgrena, Manifesto per la verità. Donne guerre migranti e altre notizie manipolate1. Certamente siamo in un tempo caratterizzato da un impressionante flusso comunicativo e da una vorticosa circolazione di notizie, e di immagini soggette talora non solo a manipolazione da parte dei principali attori politici nazionali e internazionali, e dei grandi soggetti economici, ma anche a un uso selvaggio dei social. L’impressione, e con questo vorrei avviare la nostra riflessione, è che la dimensione della complessità, da intendersi come cifra del nostro tempo, in certi ambiti si traduca in confusione e in frastornamento, in incertezza rispetto al rapporto con la verità, che naturalmente non solo non è la Verità con la V maiuscola, ma si configura come una paradossale verità separata dai fatti. Questa è un po’ l’impressione che certe volte si ha.

Givone. Eh sì, questa è la domanda che in realtà ci stiamo facendo da tanti anni, da prima che la comunicazione prendesse l’aspetto manipolatorio che sappiamo. La domanda che ci facciamo è: come separare la verità e i fatti? Che poi vuol dire questo: come riconoscere i fatti per quello che sono e non per quello che qualcuno vorrebbe che fossero, vorrebbe farci credere che siano. I fatti e la verità, i fatti e l’interpretazione della verità, i fatti e le opinioni…

Saccardi. I fatti separati dalle opinioni: la pubblicità mi pare fosse di «Panorama».

Givone. Sì certo, era «Panorama» di Lamberto Sechi, che conoscevo; allora scrivevo su «Panorama».

Saccardi. I fatti separati dalle opinioni. Proprio così!

Givone. E compariva addirittura nell’intestazione del giornale. Ma la domanda che io mi faccio è: possono i fatti essere separati dalle opinioni?

Saccardi. Ecco, questo è l’oggetto del nostro discorso, della nostra riflessione di oggi.

Givone. Allora, la risposta che do è: primo, devono: perché se io dico che i fatti, come pure è stato affermato da qualcuno, in realtà sono le opinioni che noi abbiamo sui fatti stessi, allora tutto si trasforma e bisognerebbe dire con Nietzsche «il mondo è diventato favola», tutto si trasforma in gioco affabulatorio, in gioco manipolatorio delle opinioni stesse e dei fatti stessi, che diventano opinioni nella misura in cui essi non sono più fatti, ma sono soltanto quello che io voglio credere che siano o quello che qualcuno mi vuol far credere che siano. Devo separare i fatti e le opinioni, devo tener fermi i primi e lasciare che le opinioni facciano il loro corso, e così via. Ma la domanda dentro la domanda è: posso tenere fermi i fatti e lasciare che le opinioni facciano il loro corso? E se posso, come faccio una cosa del genere? In realtà serve vedere un po’ più da vicino questo gioco dei fatti e delle opinioni; allora scopro che in realtà i fatti, se io li voglio stanare, cioè se voglio davvero sapere, come dovrebbe fare ogni buon giornalista, non soltanto il filosofo, ma chiunque, se voglio sapere davvero che cosa sono questi fatti non devo tenerli fermi, li devo scuotere. E come si fa questo? Dobbiamo confrontare le varie opinioni che noi abbiamo sui fatti stessi, perché i fatti, ci piaccia o non ci piaccia, certo che sono fatti e non sono opinioni, non posso ridurli a opinioni, ma solo attraverso il gioco delle opinioni, solo concertando le opinioni, mettendo le opinioni l’una di fronte all’altra io posso pretendere di raggiungere quella verità che, al di là dei diversi punti di vista e delle diverse ricostruzioni, è nei fatti, ma non può neanche essere identificata con i fatti puri e semplici.

Saccardi. Non è un lavoro semplice.

Givone. No, non è un lavoro semplice.

Se ne era già accorto Albert Camus
Saccardi. Per fare riferimento a un altro libro fra quelli che ora sono in circolazione su questo tema, Paolo Mieli ha scritto Le verità nascoste. Trenta casi di manipolazione della storia2. La rivisitazione della storia, questo il tema, può basarsi su ricostruzioni, rappresentazioni unilaterali e revisionistiche di ciò che è accaduto. Insomma, sembra che ci sia una sorta di «battaglia in corso» sulla ricostruzione anche di un solo fatto – di cosa è un fatto! – talvolta basata anche semplicemente su un’impressione. Facciamo un esempio banale riferibile anche alla normale quotidianità. Una testimonianza che dice: «È arrivata da me una certa persona, che era più accigliata del solito» indica che lì siamo già dentro un modo di raccontare che registra come elemento oggettivo un qualcosa di soggettivo, indirizzandoci quindi su una strada che non è detto sia quella giusta. Si potrebbero riportare naturalmente moltissimi esempi di questo genere, sui fatti di ogni giorno così come sulla grande storia, come sai.

Givone. Io ti chiedo, mi chiedo, ci chiedo: com’è che riconosciamo questo carattere manipolatorio delle opinioni? Uno potrebbe dire: andiamo a vedere come stanno le cose, andiamo a portare alla luce quella che è la verità oggettiva. La verità oggettiva delle cose non esiste se la verità noi la possiamo stanare, come dicevo

prima, solo attraverso il confronto delle opinioni. La verità non è qualche cosa che è lì nei fatti e che io scopro come lo scienziato scopre portando alla luce la forma, la struttura della cosa su cui lavora. Allora, il presupposto qual è? Che la verità esista, cioè che tra noi che parliamo, che mettiamo a confronto le nostre opinioni, fra noi che riteniamo di poter riconoscere la falsificazione di una ricostruzione, la manipolazione di una ricostruzione, ci sia o ci possa essere un accordo. E questo accordo, su che cosa è basato? Sulla convinzione, cui tutti facciamo riferimento che la verità sia riconoscibile. Ma riconoscibile come? Attraverso quali strumenti? Ne abbiamo uno solo di modi, c’è una sola via: il dialogo, il confronto delle opinioni. Non abbiamo assolutamente la possibilità di arrivare alla cosa stessa, perché la cosa stessa non esiste.

Saccardi. A proposito, leggevo, anche qui per fare un riferimento preciso, su «Robinson», l’ultimo supplemento de «la Repubblica» del 28 dicembre 2019, il ricordo di Catherine Camus, intitolato «Papà che ride insieme a me», in cui la figlia di Camus ricorda una frase del padre, che non avevo mai sentito, che diceva «Siamo in un tempo in cui “l’uso dello slogan ha sostituito il dialogo”». Albert Camus è morto nel 1960, ma sono parole, mi pare, di singolare attualità.

Givone. Che cos’è lo slogan e in che senso esso può sostituire il dialogo? Lo slogan è la presunta «verità oggettiva», è la forma, è l’espressione verbale attraverso la quale io penso di affermare perentoriamente la verità dei fatti e farla mia. Eccola qui, la verità dei fatti: come lo scienziato prende l’elemento che è in questo bicchiere e dice «H2O», una formula che dice oggettivamente che cos’è la cosa. Lo slogan è l’H2O applicato a un fatto. Un fatto che invece ha una sua complessità, essendo un fatto umano, essendo un qualcosa che riguarda gli uomini, la loro storia, le loro emozioni, la loro fantasia…

Saccardi. Le loro relazioni…

Givone. …Le loro relazioni, anche la realtà non può essere ridotta a questa formula, a questo slogan. Se io lo riduco a questo slogan, presuppongo che il fatto sia un qualcosa di oggettivamente riconoscibile afferrabile e traducibile in una formula. Questo è lo slogan. Lo slogan è una falsificazione. Proprio perché lo slogan è una

formula, lo slogan non ammette il dialogo. Come posso io dialogare, cioè ricercare insieme con gli altri, confrontando la mia verità con la verità di un altro, se non vedo che gli slogan? Gli slogan danno luogo soltanto a un vocio, dove gli uni si parlano sugli altri, cercano, gli uni, di imporre il proprio slogan agli altri, gli uni la propria «verità oggettiva» alla «verità oggettiva» degli altri e alla fine che cosa resta? Il nulla. L’alternativa a questo stato di cose è il dialogo, è il confronto delle opinioni, è – noi abbiamo una parola per definirlo – l’interpretazione, cioè è l’idea che la verità può soltanto…

Saccardi. Qui, scusami se ti interrompo, può essere però richiamato ancora Nietzsche, in un punto e per un aspetto toccato anche nel libro di Giuliana Sgrena: Nietzsche, per il quale alla fine quel che conta è solo l’interpretazione.

Se esiste soltanto l’interpretazione
Givone. Esiste soltanto l’interpretazione.

Saccardi. È un’impostazione in sé coerente in cui peraltro in un percorso quello che conta non è più la direzione o la finalità, perché quello che è fondamentale è il cammino in sé. Vale, per quel che riguarda il «nostro» tema, dunque, solo l’interpretazione. Ma l’interpretazione, verrebbe immediatamente da obiettare, è un elemento soggettivo. Eppure, queste posizioni, filosoficamente, hanno avuto un rilievo enorme.

Givone. Nietzsche che cosa dice? Una frase che è stata ripresa da tanti e che va nel segno contrario rispetto alla parola d’ordine de «i fatti separati dalle opinioni». Dice: «Non ci sono più fatti separati dalle opinioni, ci sono solo opinioni, non ci sono più fatti separati dalle interpretazioni, ci sono solo interpretazioni – e continua – e anche questa è un’interpretazione». Che cosa è venuto meno in Nietzsche? L’idea della verità, la verità non c’è più perché ci sono soltanto opinioni, interpretazioni senza verità. Ma ecco il punto: l’interpretazione che deve essere lievito dei nostri confronti, dei nostri dialoghi, della nostra ricerca della verità, l’interpretazione è o non è fondata sulla verità? A che cosa si appella questa interpretazione? Quando mi chiedo «che cosa sto interpretando?», non interpreto un fatto, perché i fatti mi si danno soltanto nella loro nudità, che cosa interpreto? Interpreto me stesso, quello che io vorrei che fosse il fatto o interpreto qualche cosa che c’è, che è la verità del fatto?

Saccardi. Fonti, documenti, testimonianze: bisogna sempre farvi riferimento. Ma pensiamo anche solo alla difficoltà nel ricostruire un fatto comune, prendendo l’esempio classico dell’incidente stradale. Hai immediatamente, spesso, punti di vista diversi, anche se si cerca di acquisire delle prove il più precise possibile di carattere «oggettivo» (misurazione di spazi, posizioni dei veicoli coinvolti, esistenza o meno di tracce di frenate, ecc.). Eppure, quando vai alla ricostruzione operata dai testimoni, ti trovi in una dimensione molto complicata in cui entrano in campo la soggettività, le impressioni del momento, la psicologia individuale. Ora ti propongo però, come abbiamo fatto altre volte nei nostri dialoghi, di andare un po’ fuori tema, allargando l’orizzonte del discorso, rispetto a questo confronto sulla comunicazione e sulla «verità» separata dai fatti. I Greci avevano come sai benissimo, anzi, come insegni, un’idea molto precisa della complessità di questa dimensione. Così è per Socrate con il suo «Conosci te stesso» come premessa per capire eventualmente qualcosa degli altri e del mondo. E poi ci sono i grandi, come Platone e Aristotele. In loro, pur nella diversità delle posizioni filosofiche elaborate e sostenute, c’era, mi pare, un’idea di fondo, che, in realtà, con i temi di questo nostro dibattito, c’entra eccome: c’è la relatività delle opinioni, è vero. Ma chiara era l’idea di fondo che ci fosse, però, la verità, da un lato, e da un altro la doxa, la pura opinione. Questo è un riferimento antico, arcaico apparentemente per noi, che però può dare anche oggi un qualche spunto importante per trovare il bandolo della matassa.

Givone. Vedi, noi tendiamo a contrapporre la verità e l’opinione, ma davvero è giusto farlo? Se noi escludiamo questo termine che abbiamo usato, il termine «interpretazione» come chiave per comprendere ciò di cui stiamo parlando e ciò che stiamo dicendo, non è forse vero che la doxa, cioè l’opinione, altro non è propriamente che il mio modo di vedere la verità, che il tuo modo di vedere la verità? Quindi, non è che la doxa in quanto opinione sia una mia fantasia, non abbia a che fare con la verità. C’è chi l’ha intesa così, gli scettici, per esempio, lo scetticismo radicale, coloro che hanno parlato della doxa come di una opinione svuotata di qualsiasi riferimento alla verità. Ma c’è anche chi nella doxa, Socrate per esempio, ha visto un rapporto con la verità, perché se io la verità non posso conoscerla se non interpretandola, la mia interpretazione può bensì essere un’opinione, ma un’opinione che si riferisce a un qualche cosa che va al di là di me, che va al fatto stesso. Allora, tu dicevi prima, accertare: testi, testimonianze, documenti… sì, certamente, è essenziale questo lavoro. Occorre sempre ricordare che i fatti non sono solo ricostruzioni cervellotiche e fantasiose e soprattutto manipolate da me, dobbiamo sempre ricordare che i fatti sono fatti, ma questi fatti, per essere accertati, per essere fissati alla loro verità, per capire che cosa hanno da dirci, noi dobbiamo interpretarli, non abbiamo altro modo. Quindi tutto quel lavoro da inquisitori (verrebbe da dire, da GIP!), questo lavoro deve sapere che i dati oggettivi sono utilissimi, ma non sono mai dirimenti. Non è che riferendomi ai dati oggettivi io ho finito il mio lavoro. Inoltre, una volta che ho raccolto i dati oggettivi il lavoro incomincia, non è finito, perché la ricostruzione del fatto, che pur deve tener conto dei dati oggettivi, incomincia lì, incomincia nel momento in cui io il fatto, nella sua complessità lo devo restituire a un giudizio comune, in cui troviamo ciascuno la propria condivisione del giudizio, ma restando ciascuno vincolato alla propria prospettiva. Ecco la differenza, io credo fondamentale, fra relativismo e prospettivismo. Il coraggio di pensare la verità al plurale

Saccardi. Paradossalmente, anche se sembra una contraddizione in termini o una sorta di ossimoro, c’è la tendenza, che poi era quella con cui si confrontavano anche i Greci, a una sorta di relativismo totale, di relativismo assoluto, che mette in discussione la possibilità stessa di arrivare alla verità.

Givone. Il relativismo totale, quello di Nietzsche, Nietzsche lo sviluppa da qui: se non c’è più nessuna verità, se c’è soltanto interpretazione, se l’interpretazione è opinione, se l’opinione non è personale, allora ciascuno di noi è condannato ad essere solo nel mondo, a non poter condividere un bel niente con gli altri, ciascuno di noi è un microcosmo, una monade chiusa in se stessa che non comunica, che non dialoga. Altra cosa è invece pensare che, nonostante questo, che è un fatto (la nostra solitudine, la nostra condizione che ci fa individui), che non dobbiamo ignorare, tuttavia c’è come uno gnomone regolativo che ci guida, cioè l’idea che offre la fede che la verità esista. Una verità inoggettivabile, che nessuno strumento oggettivo ci può dare, ma esiste e esistendo è questo parametro, è questo riferimento a una X.

Saccardi. Sì, perché altrimenti è possibile affermare di tutto. Basti pensare che oggi c’è ancora chi sostiene (è la posizione ufficiale del Governo turco) che lo sterminio degli armeni non sia esistito, o se è esistito non era comunque assimilabile a un genocidio o a uno sterminio di massa programmato. Certo, anche il puro e semplice riferimento ai dati di fatto apre a contraddizioni impreviste. C’è la questione sottolineata ad esempio acutamente da uno dei nostri autori, Fabio Dei, che ricorda, nel contributo pubblicato sul nostro volume, le posizioni del negazionismo, le quali spesso si basano su una specie di idolatria della verosimiglianza, per cui si sostiene, ad esempio, che «lì, in quel luogo, tanti cadaveri non ci potevano stare», «era impossibile smaltire così tanti corpi», che in apparenza sembrano tutte osservazioni fondate su riferimenti concreti, ma che negano una tragedia realmente avvenuta. Da questo punto di vista, è importante proprio l’idea, come dicevi, che ci sia alla fine una verità, il nocciolo di una verità che si possa ricostruire…

Givone. La verità declinata al plurale. Bisogna avere il coraggio di pensare la verità al plurale. Cosa vuol dire pensare la ve rità al plurale? Vuol dire pensare la verità, non l’opinione, la verità può essere la mia, può essere la tua, la mia verità può essere diversa dalla tua e tuttavia entrambe si riferiscono a questo nocciolo di base…

Saccardi. Nelle vicende umane, a volte si pone la questione della ricomposizione di punti di vista diversi che nascono dal confronto fra «opposti torti» o «opposte ragioni» dei soggetti coinvolti in una storia o in una vicenda.

Givone. La ricostruzione deve tener conto di una complessità di fattori e non c’è mai un elemento che possa valere come l’ultima parola su quel fatto. Verità al plurale vuol dire verità che sfida la contraddizione, la sopporta. Pensa, per esempio, due assunti così diversi come potrebbero essere – tralasciamo il piano della storia e portiamoci al piano teoretico, metafisico – …

Saccardi. Sì, anch’io pensavo di andare in quella direzione.

Givone. Due tesi, due visioni del mondo così profondamente diverse come quella di chi dice che il mondo è assurdo, il mondo è un’assurdità, un non senso (il nichilismo), oppure la visione di chi dice proprio il contrario, il mondo è pieno di significati misteriosi, profondi, di valori che non appaiono immediatamente ma ci sono… Bene, in entrambe queste posizioni c’è verità. Sono due verità opposte, ma appaiono opposte queste due verità solo se io la verità la concepisco in senso dogmatico: la verità è quella, quella cosa lì. Ma se la verità io la concepisco come quella che è sempre e soltanto frutto di interpretazioni, io posso riconoscere un accento di verità in quello che nella sua disperazione dice, per cose personali, «il mondo non ha senso» e c’è verità in Camus che propone una filosofia dell’assurdo, in Schopenhauer, così come c’è verità in quello che dice il contrario. Verità «inoggettivabile», verità che trascende il dogma, che trascende il «è così e non diversamente». Portiamoci sul piano storico: non basta il dogma, «è così e non diversamente», perché se tu questo dogma lo applichi allo sterminio o al genocidio degli armeni, potresti scontrarti col dogma di chi, in base a dei fatti, che sembrano inverosimili, arriva a dimostrarti che non poteva quella cosa lì essere successa; e invece poteva.

Saccardi. Ad esempio, nelle terre della ex Jugoslavia, storicamente è giusto sottolineare la violenza dell’italianizzazione forzata imposta dal fascismo, ma anche l’orrore delle Foibe. La ricostruzione della storia non può essere fatta ideologicamente o unilateralmente.

Givone. Ma queste ricostruzioni non devono mai essere dogmatiche, cioè a senso unico.

Saccardi. Non devono essere a senso unico le ricostruzioni dei fatti storici, sono d’accordo con te.

Givone. Perché se sono a senso unico tu ricadi nell’idea della verità oggettiva e la verità oggettiva è quella che ti frega, quella che fa lo sgambetto.

Dal punto di vista dei «senza voce» e dei «senza storia»
Saccardi. Forse, nelle vicende storiche, c’è l’imperativo che don Milani indicava ai suoi allievi e bisognerebbe ricordare anche per potersi orientare: indipendentemente dall’ideologia essere dalla parte delle vittime sempre.

Givone. Per esempio, essere dalla parte di quelli che non hanno più voce per difendersi…

Saccardi. I «senza voce». Quelli di tutti i tipi. Anche quelli che magari avranno commesso errori, non corrispondono ai nostri standard ideali, vengono da un percorso tortuoso…

Givone. Tutto quello che vuoi. Però in loro, in coloro che non hanno più voce per difendersi, per giustificarsi, per ricostruire, c’è verità, proprio perché la verità che è sempre trascendente, non è mai un dogma che io posso sbatterti in faccia, ma è il frutto di una ricerca infinita. Gli ultimi, i massacrati.

Saccardi. I senza voce, i senza storia.

Givone. I senza voce, i senza storia, lo diceva anche Primo Levi: la verità è dalla parte dei sommersi.

Saccardi. Senza dubbio, i sommersi che non si sono salvati.

Givone. Noi la verità la concepiamo così, come la possibilità di appellarsi a un giudice che è sempre oltre, pensa alla famosa lettera del deportato, che è stato dimostrato poi essere un falso storico, ma non ha nessuna importanza, quel deportato che era stato arrestato in nome di una legge dello Stato, che quindi non aveva più nessun giudice pronto ad ascoltarlo.

Saccardi. C’è come un vuoto. Non c’è più nessuno che può ascoltarci? Quid est veritas?

Givone. Non ha più nessun giudice terreno cui rivolgersi…in quanto i giudici terreni hanno detto «è così, tu sei ebreo, sei un essere inferiore e devi essere deportato». Qual è il succo di questa storia, l’insegnamento che viene da lì, sia o non sia un falso quella famosa lettera che si presume essere stata trovata in un campo di concentramento. L’insegnamento è che la verità presuppone sempre un riferimento ulteriore, la possibilità di appellarsi a un giudice che sta al di là di qualsiasi giudizio proferito una volta per tutte.

Saccardi. Sì, c’è la verità delle cose e poi c’è la verità sul significato delle cose e della realtà medesima. Riecheggia l’antica domanda di Pilato: «Che cos’è la verità?», che è poi la domanda, di fondo, in sospeso.

Givone. Sicuramente, Pilato era uno scettico, ognuno ha la sua verità, i Romani hanno la verità dei Romani…

Saccardi. Uno scettico che pone una domanda di fondo…

Givone. Quid est veritas, anche se interpretato, nel senso letterale, Quid est veritas? Risposta: la verità è un qualche cosa, è un quid che non si sa che cosa sia, che non può essere racchiusa in una formula che ce la riveli una volta per tutte. È una domanda aperta. Questa è la verità. È la possibilità, è un orizzonte talmente comprensivo che ci abbraccia tutti e tutti siamo tenuti ad appellarci, a far riferimento a questa verità, che in quanto ci abbraccia tutti ci trascende tutti.

La verità della scienza
Saccardi. Naturalmente, questo è un discorso che si muove su più piani, su più livelli, perché parlando della verità rischiamo naturalmente di entrare in un ambito molto ampio rispetto all’oggetto originario delle nostre riflessioni. Ci sono più dimensioni, evidentemente: la verità logica, la verità ontologica, la verità morale, la verità giudiziaria. Una grande complessità. E, anzi, quello della complessità e della cultura della complessità è forse il tema di fondo cui le questioni evocate, alla fine, rimandano. Quello che colpisce nel contesto attuale è che proprio tutta questa ricchezza di riferimenti può essere travolta da una grande semplificazione, che va dalla contestazione delle competenze, alla contestazione dell’autorità della scienza e del metodo scientifico. Questa credo sia oggi la situazione che inquina un po’ tutto. Anche se dal punto di vista della storia delle idee, va comunque constatato che la risposta alle grandi domande sulla questione della verità davvero non è facile. Il positivismo semplifica va parecchio, come è noto: basta lasciarsi alle spalle il dogmatismo e seguire il metodo scientifico, si diceva. Dopodiché abbiamo scoperto che anche la scienza con le sue cadute, le sue contraddizioni e le sue controversie interne, procede nella ricerca. Una ricerca che è fatta di tentativi e che non esclude gli errori. Naturalmente la scienza va difesa a spada tratta, ma lavora anche essa su ipotesi, sulla verificabilità o falsificabilità delle ipotesi. Insomma, entriamo in un orizzonte al cui interno, caso mai, vanno tenuti fermi il rigore della procedura, del metodo, la serietà e la buona coscienza. Questa, direi, è la frontiera su cui attestarsi.

Givone. Esaminiamo questo punto: la verità della scienza. Tu hai parlato di verità scientifica, verità ontologica, le tante forme della verità. La verità scientifica è la verità ontologica. In che senso? Nel senso che la scienza è quella che ci dice come stanno le cose.

Saccardi. Secondo un certo paradigma, e in un certo momento storico, perché anche la verità scientifica ha una sua storicità.

Givone. Certamente, anche questo è vero, ma di fatto se qualcosa ci dice come stanno effettivamente le cose, in prospettiva, grazie alle formule che usiamo, quindi anche la scienza deve essere relativizzata.

Saccardi. Anche difesa, naturalmente.

Givone. Certamente difesa, perché il relativismo ci dice spesso il contrario di quel che dimostra la scienza stessa.

Saccardi. Che i vaccini non valgono più niente, ad esempio, per fare un riferimento alla nostra, a volte sconcertante, attualità.

Givone. Un momento, andiamo piano. Perché dobbiamo essere molto cauti? Perché se qualche cosa ci dice come stanno le cose, è la scienza. E per questo la scienza è l’impresa più preziosa, perché senza di essa precipiteremmo in un caos inimmaginabile. Non si può tornare semplicemente al passato, al mito, quello non è più per noi, perché una volta che hai fatto l’esperienza della scienza non puoi più tornare indietro. Allora, se mettiamo in discussione la scienza e cominciamo a dire che è un mito come tutti gli altri, precipitiamo in un caos. Quindi, non solo rispettiamo la scienza, ma teniamocela ben cara, perché è la cosa più preziosa che c’è, perché la verità della scienza è, definiamola filosoficamente, ontologica: ci dice come stanno realmente le cose. Ha uno sguardo sulla realtà che nessun altro sapere ci dà. E tuttavia, non è la sola verità possibile, non è il solo sguardo possibile sul mondo.

Saccardi. Cioè, la difesa della scienza non coincide con lo scientismo come ideologia.

Givone. Quello che io volevo dire è che l’ontologia non coincide con la escatologia, nel senso che dire «le cose stanno così» non è la stessa cosa che dire «le cose potrebbero stare così». Se io dico – era un discorso che faceva Paolo Rossi, importante filosofo della scienza –, se io rispondo alle grandi domande metafisiche vuol dire che la risposta è la scienza a fornirla: da dove veniamo, dove andiamo, chi siamo. Veniamo dal nulla, dal caos, siamo figli del caso, siamo il frutto della selezione naturale. Dove andiamo? Andiamo verso l’estinzione. Questi sono dati di fatto, sono verità ontologiche. Ma, sono le sole possibili? Se io dico «sono figlio del caos» non posso dire al tempo stesso che sono figlio di Dio? Perché non potrebbe essere che in prospettiva futura, ecco l’éskhatos, il tempo che si fa prospettiva finalistica, non potrebbe essere che alla fine di questo processo che la scienza descrive così bene, la mia esistenza, il mio essere qui nel mondo non può essere che abbia un senso profondo nonostante tutto, nonostante i fallimenti, le assurdità, le contraddizioni? Non può essere che alla fine del tempo io, noi, gli uomini, riconosciamo l’essere umano?

Dando voce a Pascal. E a Leopardi
Saccardi. Siamo avvolti nel mistero.

Givone. Eppure non è impensabile che, alla fine, scaturisca nonostante tutto che ha avuto senso quello che è accaduto. Nessuno lo può negare questo. Allora, questo che nessuno può negare è una verità certamente diversa da quella della scienza, ma non per questo non è una verità, una verità possibile, una verità futura. Dicevo prima, la verità va declinata al plurale, ora dico qualcosa di più, la verità va declinata al futuro, non solo al presente, ma anche al futuro. E se noi davvero facessimo questo passo…

Saccardi. Una verità che va unita al senso di responsabilità verso le prossime generazioni.

Givone. Per esempio.

Saccardi. A proposito di quello che dici, mi viene in mente un punto su cui abbiamo già avuto occasione di riflettere insieme parlando di un altro dei «nostri» temi, quello della poesia, in relazione a opposte visioni della vita, che però in qualche modo trovano degli insospettati punti di contatto. Mi viene in mente, anche se sembra apparentemente bizzarro, come ci sia una singolare vicinanza fra un mistico come Pascal e un materialista come Leopardi, anche se Leopardi sembra che facesse finta di non conoscere il pensiero di Pascal: ci sono visioni della vita totalmente diverse, posizioni filosofiche agli antipodi, ma una analoga sensibilità esistenziale. Io ho sempre avuto questa idea. Fra L’infinito leopardiano e gli spazi infiniti di Pascal può sembrare ardito cercare un accostamento, ma qualcosa in comune credo che ci sia.

Givone. Pascal dice «Le silence éternel de ces espaces infinis m’effraie» («Il silenzio eterno di questi spazi infiniti mi sgomenta»).

Saccardi. E Leopardi ha scritto L’infinito.

Givone. L’infinito di Leopardi e l’infinito di Pascal che cos’è?

Saccardi. Anche se sembra un’eresia dirlo, si avvicinano molto.

Givone. È quello che io chiamerei la verità escatologica.

Saccardi. Sì, certo, è vero. Anche se Leopardi naturalmente non sarebbe d’accordo.

Givone. Non sarebbe d’accordo. Proviamo a prendere quello che Leopardi dice nel Cantico del gallo silvestre: «Tempo verrà in cui questo universo sarà silenzio infinito» e tutta la vicenda storica sarà implosa. «Tempo verrà» e se noi guardiamo la vicenda storica da quella prospettiva, da quell’infinito di là da venire, ma che c’è, questa realtà come ci apparirà? Probabilmente come insignificante – è finito tutto nel nulla… – o non ci apparirà piuttosto – Leopardi usa queste parole – «Un enigma mirabile e spaventoso». Quindi non un nulla imploso, anzi, meglio un «arcano», «Un arcano mirabile e spaventoso»: una cosa che allo stesso tempo ci spaventa e ci entusiasma, ci dà meraviglia. È esattamente come la sua prospettiva, è che ogni evento è carico di senso, è carico di un suo senso misterioso, ma senso. Oserei quasi dire che è carico di una sua verità. Quindi Leopardi, certo il Leopardi ateo, nichilista, fa pensare a una prospettiva opposta rispetto a quella di Pascal, ma non lo è affatto, perché in entrambi c’è questa idea di una verità di là da venire, che non è solo la verità fattuale.

Saccardi. Certo, ci sono le ragioni della ragione, che vanno tenute salde e questo è il centro del nostro discorso di stamani e poi c’è, come qualcuno ha autorevolmente e suggestivamente ricordato, un’altra dimensione che reclama le sue ragioni.

Givone. Però c’è un’altra dimensione che sarà il sentimento, sarà la profezia, sarà la visione.

Il suicidio e l’anima
Saccardi. Tenendo fermi i riferimenti al valore della scienza e tornando al tema più generale della verità (in questo caso la verità relativa ad un singolo soggetto) mi piacerebbe toccare solo con un accenno un altro elemento: mi è capitato sotto mano, preparandomi a questa nostra conversazione, il libro molto noto di James Hillman, dei lontani anni 60, Il suicidio e l’anima3, in cui egli, parlando della problematica estrema del suicidio, a partire da una prospettiva junghiana, sviluppa il discorso sugli archetipi e rimanda a una suggestiva evocazione dell’anima come simbolo, pur affermando l’importanza della storia clinica del paziente. Peraltro, per quanto riguarda un tema così particolare, ha rilievo non solo l’ottica con cui può inquadrarlo la medicina: c’è il punto di vista del medico, certo, ma c’è il punto di vista dello scienziato, c’è il punto di vista del diritto e della legge, e c’è quello della teologia. Ora, la psicologia clinica anzi lavora riferendosi ad una casistica: il tale è un depresso, l’altro è uno che soffre di allucinazioni, questo è un esaltato. Ma al di là dell’approccio clinico e delle classificazioni mediche, afferma perentoriamente Hillman, c’è poi la storia di ogni singola anima. Ed è del travaglio di questa singola anima (più e prima ancora di doversi preoccupare di salvarla fisicamente dalle pulsioni suicide) che il terapeuta deve farsi carico. Mi pare un interessante, e dirompente approccio al discorso sulla ricerca della verità, che certamente deve mantenere un saldo ancoraggio alla verità scientifica, senza però che essa venga, di per sé, considerata esaustiva. L’analista deve entrare in sintonia, al di là della casistica in cui sembra rientrare il soggetto preso in cura, con lo specifico modo di sentire di una singola individualità, di questa singola anima. È un’impostazione dalle forti implicazioni per chi si occupa della verità nel trattamento del disagio umano. Detto in termini semplici: non c’è mai un soggetto schizoide uguale a un altro, un depresso uguale a un altro, un paranoico identico ad un altro. C’è una storia, che ha una sua soggettività, una particolarità, legata a specifiche vicende che chiede di essere accolta. C’è un elemento si verità che va al di là di quello che è catalogato nei manuali. Mi ha molto colpito la radicalità di questa affermazione.

Givone. Hillman si riferisce, non solo in quel libro, all’idea di Eraclito che l’anima è così vasta che non ha confini, è qualcosa che ti obbliga ad andare sempre al di là. La schizofrenia è questa apertura di una voragine.

Saccardi. Che può perfino indurre al suicidio.

Givone. Ma qui davvero si aprirebbe un nuovo capitolo. Abbiamo detto che la verità deve essere declinata al plurale per uscire dal dogmatismo e «la verità è quello che è e basta». Quindi, la verità va declinata al plurale, va declinata al futuro e questo che tu mi stai dicendo citando Hillman, mi porta a dire: la verità va declinata in chiave simbolica, non in chiave di identità.

Saccardi. Non di identità chiusa, certamente.

Givone. Non nel senso dell’H2O. Certo, la clinica deve anche accertare, capire.

Saccardi. Anche se la clinica è fondamentale, intendiamoci.

Givone. La clinica deve capire la persona che ha davanti, la logica identitaria la deve fare sua, ma non basta, perché la verità non può essere racchiusa, non può essere oggettivata in una formula, non può essere identificata. Che la verità non possa essere identificata vuol dire semplicemente che la verità chiede di essere capita simbolicamente, per allusioni, per metafore, rinviando ad altro, come in un gioco di scatole cinesi. I fatti contengono altri fatti e questi a loro volta ne contengono altri, all’infinito. Questo è il lavoro simbolico. L’anima non ha confini proprio perché è questo gioco di scatole cinesi dove i fatti richiamano altri fatti e altri fatti ne richiamano altri ancora, e sempre di nuovi. Questa idea, che l’anima sia abitata da simboli, da metafore, da allegorie, da sogni (che non sono altro che simboli non di chi siamo, ma di chi non siamo ma potremmo essere). Ecco, questo valore simbolico della verità. Vale a dire, la verità è un qualcosa che si presta a una interpretazione infinita, sempre di nuovo scavare, lavorare. E non fa questo il buon analista, lo scrutatore di anime, il conoscitore di anime? Capire che ogni fatto che è accaduto a quell’anima, attraverso cui quell’anima è passata, ogni fatto significa quello che significa, ma anche qualche cos’altro. Ecco, se noi riuscissimo davvero, in questa chiacchierata, a rivalutare il valore non solo plurale della verità, il valore futuro della verità, ma anche il ruolo simbolico della verità, avremmo fatto, credo, un bel passo avanti.

Una luce nell’oscurità
Saccardi. Due ultimissime battute veloci. La verità poi deve essere nutrita dall’amore per la verità medesima, che prima di tutto è l’amore per la conoscenza. E qui l’insegnamento di don Milani torna a riproporsi. Se non hai il linguaggio, se non hai gli elementi per comprendere la strada che puoi fare per arrivare alla verità, la verità ti è preclusa. Quando Milani dice: «Come fanno questi ragazzi a capire il Vangelo se non capiscono il libro sul quale leggono?» Perché gli occhi si possano aprire devi avere gli strumenti per capire ciò che vedi.

Givone. Diceva Sant’Agostino: «Come posso conoscerti se non ti amo e come posso amarti se non ti conosco?». Ciò che importa in questo discorso è l’amore. Solo se io amo qualcuno, qualche cosa, lo incontro e posso far venir fuori ciò che in lui è nascosto e che magari lui stesso neppure conosce. Amare. Solo se io amo il lavoro che faccio quel lavoro funziona. Lo scienziato, solo se ama, ad esempio la sua ricerca sui vermi che sta studiando, solo se ama i vermi, perché tutto è degno di amore agli occhi di uno che lo fa con rigore, con passione. Solo se tu ami quei vermi potrai fare delle scoperte meravigliose, che riguardano non soltanto quei vermi, ma che riguardano tutti.

Saccardi. Mi verrebbe da chiudere con una suggestione che vorrei condividere con te, sulla verità, un valore che talora è una luce che si accende nel buio. Il paradosso tragico è che a volte ci sono barlumi di luce che splendono nell’oscurità più profonda. Mi viene da pensare a figure simbolo come Pavel Florenskij, Etty Hillesum o Massimiliano Kolbe, che nel gulag, nei campi di concentramento o di sterminio, danno testimonianza con il loro sacrificio e con questi atti di umanità profonda, questo dono di sé che dà testimonianza concreta ed estrema del valore della verità come essenza profonda dell’umanità.

Givone. Conoscere quello che hanno conosciuto la Hillesum o padre Kolbe, riconoscere la verità nell’abisso di mistificazione e di falsificazione più totale, in un campo di concentramento, riconoscere la luce della verità…

Saccardi. Florenskij.

Givone. Florenskij, certo: la luce del bene, del vero, riconoscere che la verità è davvero il fondamento di tutte le cose, non la puoi manipolare, non la puoi afferrare, far tua, appropriartene. Puoi sempre e soltanto riferirti alla verità come a un orizzonte più ampio. Ecco, questa è la testimonianza più autentica che sia mai stata data di quello che noi chiamiamo verità.

Saccardi. Sono riferimenti che è bene ricordare in questo mondo così complicato, anche se non così drammatico come nel passato appena evocato, ma certo non privo di momenti di oscurità, di ottundimento e di buio.

Givone. Certo, mi sembra giusto.

1 G. Sgrena, Manifesto per la verità. Donne guerre migranti e altre notizie manipolate, Il Saggiatore, Milano 2019.
2 P. Mieli, Le verità nascoste. Trenta casi di manipolazione della storia, Rizzoli, Milano 2019.
3 J. Hillman, Il suicidio e l’anima, Adelphi, Milano 2010.