«AMA IL TUO VICINO… GIORNALISTA»
di Piero Meucci

Cosa è diventato il lavoro del giornalista se in uno striscione, davanti a una chiesa luterana di Washington, si invitavano i fedeli a mostrare solidarietà verso i giornalisti, la cui categoria è inserita fra quelle discriminate e a rischio? La situazione di grave difficoltà in cui si trova il giornalismo, dovuta al tracollo dell’informazione tradizionale a causa del proliferare di quella sul Web e per molte altre ragioni, porta con sé la crisi della stessa informazione, ormai maltrattata dalla politica e dall’opinione pubblica, sempre più avvezze a seguire il flusso della comunicazione spesso fallace che circola rapidamente sulla Rete e della quale è difficile verificare le fonti.

«Aiutare le persone a comprendere il mondo»
Nell’estate del 2019 sulle inferriate della chiesa luterana di St. John nel quartiere di Georgetown a Washington era appeso un grande striscione con il quale si invitavano i fedeli a mostrare solidarietà e amicizia per le minoranze. «”Ama il tuo vicino”, c’era iscritto: il tuo vicino nero, il tuo vicino donna, il tuo vicino bianco, il tuo vicino LGBTQ, il tuo vicino musulmano, il tuo vicino disabile, il tuo vicino ebreo, il tuo vicino giornalista…». Sì proprio così, una categoria professionale entra ufficialmente nella lista dei gruppi che hanno bisogno di attenzione perché in qualche modo potrebbero essere a rischio di odio e pregiudizio. Non c’è migliore esempio possibile del clima di diffidenza che in tutto il mondo oggi circonda l’attività del giornalista, che fino a pochi anni fa rappresentava, come si dice, l’interesse del pubblico, della gente comune, dei cittadini. Il cane da guardia della democrazia. Eppure, se è comprensibile che i giornalisti si facciano molti nemici perché hanno il compito di portare alla luce ciò che altri cercano di tenere nascosto, teoricamente dovrebbero essere degni di un’alta considerazione e di fiducia per un lavoro che è nell’interesse dei più contro l’interesse, spesso contrario alle leggi e ai principi di onestà, di pochi. La loro missione, come ribadisce l’editore del «New York Times» Arthur Greg Sulzberger, «(…) è cercare la verità e aiutare le persone a comprendere il mondo». E la verità si raggiunge attraverso l’esposizione dei fatti seguita dalla loro interpretazione attraverso l’analisi del contesto e degli eventi precedenti che hanno contribuito a crearlo. La stessa cosa richiede l’art. 2 della Legge n. 69/1963 sull’Ordinamento della professione di giornalista in Italia: «È diritto insopprimibile dei giornalisti la libertà d’informazione e di critica, limitata dall’osservanza delle norme di legge dettate a tutela della personalità altrui ed è loro obbligo inderogabile il rispetto della verità sostanziale dei fatti, osservati sempre i doveri imposti dalla lealtà e dalla buona fede. Devono essere rettificate le notizie che risultino inesatte e riparati gli eventuali errori».

Imparzialità, accuratezza, indipendenza
Verità dei fatti e verità attraverso i fatti. La distinzione non è di poco conto, perché è su quella preposizione che ormai da 15 anni si discute. La categoria dei giornalisti è divisa in due schieramenti che, proprio a causa di questa distinzione, finiscono per diventare ciascuno il cavallo di battaglia di quelli politici: della destra e della sinistra. Gli stessi concetti di verità e di fatto sono stati oggetto di una certa delicata revisione nel corso degli ultimi venti anni. Decenni fa, nelle scuole di giornalismo si indicava come principio fondamentale del lavoro del cronista l’oggettività, mentre la sua virtù principale doveva essere il distacco di fronte a quanto osserva e racconta: la sua storia personale, le sue idee, le sue idiosincrasie, i sentimenti e le emozioni devono restare fuori dalla tastiera. Nel corso degli anni, con il diventare la società sempre più complessa viluppando, con il pluralismo e la multiculturalità, un progressivo relativismo che nega verità assolute (per fortuna), il concetto chiave dell’oggettività è stato sempre più declinato nelle sue componenti che sono poi indicate dalla legge 69/1963: l’operatore dell’informazione deve esercitare lealtà, onestà, precisione. In altre parole: imparzialità, accuratezza, indipendenza. Dunque per avvicinarsi il più possibile a una verità che non è mai pienamente raggiungibile (un po’ come la verità processuale), l’unico modo per non tradire la realtà dei fatti è quello di esercitare le tre virtù. Ciò che proporrà al cittadino lettore sarà quanto di più vero può essere di un evento raccontato con gli strumenti professionali della verifica continua dei fatti, senza pregiudizi e mantenendo l’obbligo deontologico di eliminare qualunque interferenza soggettiva. Proprio su come intendere questo concetto si inserisce un dibattito, che in America tuttora divide il mondo del reporting, condizionato dalla sempre più accesa contrapposizione fra Repubblicani e Democratici. Si parla soprattutto degli Stati Uniti perché lì il giornalismo moderno è stato inventato, e quanto lì si elabora e si sviluppa condiziona anche il nostro giornalismo, che risente della melmosa e precaria situazione politica e del forte abbassamento della qualità della produzione e della fruizione. Raccontare i fatti così come vengono osservati e ricostruiti con fonti oggettive e autorevoli o approfondire il contesto, elaborare comparazioni con avvenimenti precedenti, ricostruire l’ambiente sociale, individuare eventuali punti di debolezza nelle testimonianze e nelle ricostruzioni ufficiali. «Stenografia contro giornalismo critico», come riassume icasticamente Alan Rusbridger, il direttore che ha rilanciato il «Guardian» e che ha pubblicato le rivelazioni di Edward Snowden il tecnico che ha portato alla luce programmi top secret di sorveglianza di massa degli Stati Uniti e del Regno Unito (Breaking news. The remaking of journalism and why it matters now, Canongate 2018).

Secondo la destra e secondo la sinistra
Secondo la destra, se il giornalista vuole mantenere fede alla deontologia professionale e alla missione di informare i cittadini in modo che non vi siano asimmetrie di conoscenza che possano avvantaggiare gli uni o gli altri, il suo compito è quello di rendere pubblici i fatti «nudi e crudi», così come si presentano. Sarà il lettore, lo spettatore o l’utente, che utilizzerà la sua capacità critica per comprenderne significato e portata. Il che è una riedizione apparentemente più «purista» del glorioso motto del giornalismo «i fatti separati dalle opinioni». Diversa la posizione della sinistra. I fatti nudi e crudi non bastano per una corretta informazione, perché spesso essi sono fenomeni di realtà sottostanti molto più complesse, di un gioco di interessi che condiziona non solo la loro natura, ma soprattutto il modo nel quale vengono filtrati dalla capillare rete della comunicazione, cioè dell’informazione data dal soggetto: economico, politico o sociale che sia. Un solo dato esprime il grande cambiamento nei rapporti di forza fra fonti e giornalisti: vent’anni fa la proporzione fra operatori della comunicazione e quelli dell’informazione, cioè quelli delle testate giornalistiche, era di meno di due a uno, oggi è di sei a uno. Ciò farebbe parte della corretta dialettica fra interesse della fonte e interesse pubblico dell’informazione, se l’esplosione dei social e il conseguente degradarsi del dibattito pubblico, con la settarizzazione e la partigianeria senza regole né lealtà (nessuno richiede la correttezza e la precisione delle notizie), non avesse completamente stravolto il concetto di verità. E se le aziende giornalistiche, a causa di quelle stesse tecnologie multimediali che hanno trasformato la notizia in materia prima quasi senza valore apprezzabile dalla gente, non fossero state investite dalla più grave crisi del settore mai manifestatasi prima. La conseguenza è stata che le aziende giornalistiche, soprattutto quelle locali, non hanno più avuto i mezzi per finanziare le «investigative report unit» in grado di disporre di tempo e denaro per approfondire i fatti, collegarli insieme, interpretare e spiegare. Come fecero Carl Bernstein e Bob Woodward del «Washington Post» che svelarono il verminaio che si nascondeva dietro il fatto banale di cronaca nera di ladri arrestati. «La buona informazione è costosa – ripete Rusbridger – richiede tempo e il paziente lavoro dei giornalisti per scoprire ciò che accade veramente, anche perché è sepolto sotto una valanga di rumour, di parole in libertà».

Perdita di status e di credibilità
C’è un terzo fattore che condiziona tutti gli altri e che contiene una parte di responsabilità anche da parte dei giornalisti che sono stati molto influenzati e condizionati in vario modo dalle varie parti politiche, assumendo più o meno apertamente le ragioni di quello o di questo schieramento. Negli Stati Uniti lo ha sentenziato nel 2010 la Corte Suprema: «Con l’avvento di Internet e il declino dei media tradizionali è diventata di gran lunga più indistinta la linea di confine fra i media e tutti gli altri che desiderano fare commenti su temi politici e sociali» (Citizens United v. Federal Election Commission). Assommata a comportamenti scorretti, a fenomeni di approssimazione deontologica e al proliferare di strumenti che rincorrono la notizia clamorosa e lo scandalo per lo scandalo, questa tendenza è alla base della lenta ma inesorabile perdita di fiducia da parte del pubblico nei confronti dei giornalisti. Del resto è facile per i nemici della stampa indipendente mostrare come una notizia può essere data in modo differente, a seconda delle tendenze politiche dei giornali. Uno dei tanti sondaggi condotti per misurare il grado di fiducia degli italiani nei confronti delle categorie professionali, quello dell’Università dell’Insubria (2018), fa emergere che i giornalisti raccolgono un grado bassissimo di approvazione (8,2%) e solo gli idraulici e pochi altri sono meno popolari. I giornalisti hanno perso status e credibilità e la crisi delle aziende peggiora ancora la situazione perché esse non sono in grado di garantire ai professionisti il necessario sostegno per realizzare le loro inchieste senza dover cedere a minacce di querele, più o meno temerarie, e senza rimanere soli ad affrontare gli alti rischi professionali. In una parola il mondo della comunicazione digitale ha privato i giornalisti del potere che veniva loro dal fatto di essere «gate-keeper», i guardiani che aprono le porte alle notizie nel sistema dei media. Così si sono esposti agli attacchi del potere in qualunque forma si presenti: «I giornalisti – disse Spiro Agnew, che fu vice del presidente Richard Nixon, e che aprì la “stagione di caccia” contro i cronisti della Casa Bianca – sono una minuscola blindata confraternita di persone privilegiate che non sono state elette da nessuno». In Italia si ricorre alle stesse argomentazioni nel mentre molti partiti trasversalmente si danno da fare per mettere a punto strumenti normativi per limitarne l’attività.

Un tempo si chiamavano «bufale»
Dai tempi di Agnew la situazione è ancora peggiorata, perché la stampa indipendente è diventata la prima vittima di quel fenomeno che si è manifestato negli ultimi anni per l’esplosione dei social media. Twitter, Facebook, WhatsApp & Company hanno la proprietà di moltiplicare in modo esponenziale e inarrestabile quelle che un tempo si chiamavano le «bufale». Ma allora le falsità venivano abbastanza rapidamente svelate: infinitamente più facile individuarne la fonte, infinitamente più contenuta la loro velocità di diffusione. Oggi si chiamano fake-news, notizie false o costruite in modo da nascondere la verità, che hanno spesso la splendida virtù di essere diffuse da quegli stessi che poi usano questo termine per attaccare i giornalisti. Il potere accusa la stampa indipendente di raccontare fake-news quando si tratta di notizie sgradite (Orban, Erdogan…) con lo scopo di gettare ulteriore discredito su coloro che considera nemici politici da ridurre al silenzio. La stampa indipendente americana parla del presidente Donald Trump come del massimo propagatore di fake-news e contemporaneamente il più severo censore dei giornalisti sgraditi. Secondo dati riportati dall’«Economist» del 2 novembre 2019, nel periodo di mandato fino al 9 ottobre 2019, Trump ha diffuso 13.435 dichiarazioni false o fuorvianti. Mentre costanti sono le sue accuse ai giornalisti (quelli del «New York Times» soprattutto) che hanno assunto un atteggiamento critico nei confronti della presidenza. Secondo Trump, fake news sono per esempio quelle che raccontano che ha fatto pagare una pornostar perché mantenesse il silenzio o hanno fatto venire alla luce pratiche fraudolente della sua famiglia: «Quando il presidente punta il dito contro le fake news, non sono gli errori effettivi ciò che gli interessa: quello che cerca di fare è delegittimare le notizie reali», ancora Rusbridger. Truth was fake, fake was true: la verità era posticcia, il posticcio era la verità. È un’arma che viene brandita anche dal suo amico-nemico Vladimir Putin, grande esperto di disinformatia ai tempi del Kgb, che pare piuttosto interessato a usare le fake news come strumenti per indebolire le democrazie occidentali.

Quando la verità si mette le scarpe, la falsità ha già cominciato a correre
Come e perché siamo arrivati a questo punto? Che ne è della verità in questo rumore di fondo interminabile dove il vero si mescola al falso e riesce difficilmente a sconfiggerlo? C’è una osservazione sperimentale secondo la quale le notizie false si diffondono molto più rapidamente di quelle vere, ribadita recentemente dalla rivista «Science»: quando la verità si mette le scarpe, la falsità ha già cominciato a correre. Come facciamo a sapere che qualcosa è vero o no? È destino che la buona informazione sia destinata solo a una piccola élite, come si chiede Rusbridger, che aggiunge: «I rischi per la verità non sono mai stati così elevati». Ripartiamo dall’inizio. I fatti sono essenziali perché il dibattito pubblico possa contare su informazioni coerenti, accertate e accettate da tutti gli interlocutori. Ma i giornalisti che hanno la professionalità e gli strumenti per garantirne a loro genuinità si trovano di fronte nemici potentissimi, fra i quali vanno annoverati anche i giganti del Web ai quali nulla interessa distinguere fra notizie vere e notizie false: tutto finisce nella loro pancia e nessuno sa come i dati vengono elaborati o utilizzati. La disinformazione virale raggiunge cittadini ed elettori che non hanno le capacità cognitive per capire i problemi e le soluzioni proposte dai partiti. Gli gnomi della verità si difendono soprattutto con quella funzione sempre più strategica che è il fact-checking: la verifica costante e in tempo reale di quanto viene detto o fatto e il suo inserimento rapido nei canali di diffusione digitale. Oppure creando dei software per intercettare rapidamente «il paziente 0» come viene chiamato il primo elemento , la «cellula-uovo» della fake news, come fu il falso propagatore dell’Aids in California, detto 0-patient. Una soluzione che viene dai Paesi Baltici investiti dalle fake news di Putin. In una recente uscita in Italia Tim Cook, ad di «Apple», ha affermato che per invertire la rotta bisogna «allenare la gente a usare la propria testa». Come è evidente si tratta di belle parole che difficilmente possono essere realizzate in tempi accettabili per scongiurare i guasti dei nemici della verità. Più efficaci potrebbero essere le idee di Carola Cadwalladr, giornalista investigativa britannica che ha contribuito a svelare lo scandalo di «Cambridge Analytics», l’agenzia che vendeva i dati personali raccolti dai giganti dell’High Tech a chi poteva utilizzarli per la propria campagna elettorale: «I giornalisti possono dare il loro contributo per la ricerca della verità, ma contro quei giganti hanno bisogno di alleati, l’azione dei governi». Così come è sempre più necessario intervenire rapidamente sulla formazione dei giornalisti per rafforzarne la reparazione nell’etica e nella filosofia morale. Devono diventare nello stesso tempo filosofi e imprenditori. Ma per questo ci vuole una grande consapevolezza e una grande determinazione da parte delle loro organizzazioni.