«Regionalismo differenziato» e «secessione dei ricchi»

di Vannino Chiti

 

La riforma istituzionale che sta avanzando silenziosamente con il progetto di autonomia di tre regioni del Nord (Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna) è stata ribattezzata come «secessione dei ricchi» perché tali regioni sono il polmone economico del Paese. Per come esso viene configurato, il progetto è pericoloso, perché trasferirebbe alla competenza regionale settori e attribuzioni importanti che sono al momento sotto il controllo nazionale, dividendo ulteriormente il Paese, già fortemente squilibrato fra regioni ricche e regioni povere, fra Nord e Sud, e rischiando di minare alla base la sua stessa coesione. Occorre, invece, una riforma ampia (secondo un’idea condivisa) che affronti la questione del riordino della materia in chiave federalista e all’interno del quadro europeo.

 

Di soppiatto e senza squilli di tromba

Ritorna in campo anche se di soppiatto e senza squilli di tromba un disegno di riforma delle istituzioni. È non solo disordinato e confuso, come spesso accade in Italia, ma anche pericoloso. Trovo giusta la definizione che ne è stata data, quella di una «secessione dei ricchi». Il progetto ad ora ha coinvolto tre regioni: Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna. Gli approcci sono diversi ma, gli uni e gli altri, seppure con motivazioni di qualità diversa, produrrebbero esiti non condivisibili. È vero che l’Emilia Romagna rispetto alle risorse da avere a disposizione chiede di disporre di quelle che lo Stato centrale già impiega per i settori che sarebbero trasferiti alla competenza delle regioni. Non è una differenza da poco rispetto a Lombardia e Veneto, che pretendono, dopo un periodo breve in cui resterà un’invarianza di risorse, di trattenere gran parte delle imposte riscosse nei loro territori. La solidarietà, base della coesione di un Paese, verrebbe meno e non riguarderebbe solo i rapporti tra Nord e Sud, ma accentuerebbe divisioni profonde e molteplici all’interno delle stesse aree settentrionali e con le regioni del centro.

È la linea della Lega di Salvini, anche se mostra qualche incoerenza con gli assi fondamentali del suo disegno politico: da un lato il sovranismo reazionario, il nuovo fascismo del XXI secolo, dall’altro la distruzione dell’unità nazionale e il ritorno agli staterelli dell’Ottocento, prima del Risorgimento democratico.

Tra Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna vi sono invece convergenze nella richiesta di avere non più solo l’organizzazione della sanità e del diritto allo studio, ma la programmazione della formazione, degli indirizzi scolastici, delle specializzazioni sanitarie, il trattamento economico del personale. Si può fingere di non vedere, a seconda delle appartenenze politiche: è la via, tante volte seguita, di non condurre mai una battaglia degna di questo nome. Le conseguenze sono sotto i nostri occhi. Attenuare il danno o utilizzare un po’ di anestesia per rendere meno acuto il dolore ha portato spesso in tutto l’Occidente le forze progressiste e democratiche a sconfitte drammatiche.

Quello che è in gioco sono i diritti di uguaglianza tra cittadini italiani, sanciti dalla Costituzione. Non vi sono alternative: o si conduce un’iniziativa forte e decisa per impedire un vulnus che incrinerebbe la cittadinanza democratica, oppure si è subalterni e in qualche modo se ne diventa politicamente complici. Non si può lasciare questo compito esclusivamente ai cittadini del Mezzogiorno o delle aree più deboli: sarebbe catalogato come voglia di assistenzialismo e rimosso. Non nego certo che in varie realtà del nostro Paese vi siano sprechi e inefficienze: non sono solo al Sud e dovunque devono essere superati. In questo caso tuttavia non si è di fronte a uno scontro tra assistenzialismo ed efficienza, ma tra salvaguardia, per tutti gli italiani, dei diritti fondamentali di cittadinanza e la loro sostituzione con una gerarchia di prestazioni socioculturali a seconda che si viva in territori più ricchi, meno fortunati oppure che si sia addirittura migranti, cioè nuovi cittadini, ma di serie C.

 

Trovare un’altra strada

È poi chiaramente antidemocratica la procedura fissata per approvare le intese Stato-regioni. Il Parlamento è di fatto esautorato: potrà approvarle o respingerle, ma non modificarle con emendamenti. Una volta che siano approvate non sono sottoponibili a referendum e la loro attuazione passa a commissioni miste Governo-regioni interessate, con queste ultime che avranno praticamente un potere di veto. Le riforme istituzionali in Italia non sono un’invenzione, ma una necessità. Questa però non è la via. Bisogna che sia sconfitta. Di riforme si parla da almeno trent’anni: una ragione per non andare avanti a testa bassa, ma per fare un tagliando che metta a fuoco i cambiamenti da introdurre oggi nelle istituzioni della democrazia.

Il primo motivo che richiede un riorientamento riguarda la prospettiva europea. La priorità è la costruzione di una democrazia federale: gli Stati Uniti d’Europa. Senza realizzare una sovranità e una cittadinanza europee, nell’epoca della globalizzazione, la democrazia nei confini degli stati nazione si impoverirebbe fino a ridursi a poco più di una forma. Politica estera, di sicurezza, difesa, grandi scelte ecologiche e di sviluppo, riequilibrio tra cittadini e territori rientrano nelle competenze di un governo federale: all’interno di questo quadro occorre precisare le responsabilità che spettano agli stati nazionali e i punti cardine di una loro riorganizzazione interna. Tanto più è necessario rimettere a fuoco l’insieme delle prospettive dal momento che per una fase ci si muoverà in un percorso fatto di gradualità. È evidente per me la necessità di valorizzare le città, nel loro ruolo di governo amministrativo, di individuare ambiti e funzioni dell’ente intermedio, di attribuire alle regioni quelle competenze che possano essere portate avanti in modo più efficace che dallo Stato centrale. Le regioni possono dar vita ad accordi di programma, associarsi, in Italia e con istituzioni europee, per affrontare temi complessi loro affidati, non certo riconfigurarsi come una pluralità di staterelli, fuori dall’attualità storica. In Italia, in questi anni, ci si è misurati con le istituzioni in modo approssimativo e talora confuso, passando come un pendolo da un federalismo annunciato a un centralismo ben più praticato. Le istituzioni, come la Costituzione, rappresentano un riferimento comune, non una proprietà di chi vince le elezioni. Sarebbe opportuno aprire prima di tutto un confronto con i cittadini italiani, sollecitando l’apporto di sindacati, organizzazioni della società civile, università, mondo della cultura, forze politiche non solo di maggioranza. Le istituzioni non possono essere smontate e rimesse insieme a pezzi, quasi si trattasse del vestito di Arlecchino: bisogna avere un progetto unitario e condiviso.

 

Un progetto unitario e condiviso

Si dovrebbe partire dai comuni, anche qui con lo sguardo a ciò che si è fatto in tan ti paesi europei. La strada da seguire è quella di comuni metropolitani, sufficientemente grandi e forti da far fronte ai loro compiti amministrativi, non rinunciando alla partecipazione dei cittadini. La loro articolazione in municipalità, all’interno del Comune più ampio, consente di non rinunciare a questi due obiettivi essenziali. Non penso che sia da rimettere in discussione l’elezione diretta dei sindaci. Sono però convinto che si debbano ricondurre ai consigli comunali poteri di indirizzo e controllo, che oggi risultano svuotati e rappresentano una pallida memoria di quelli che in passato ne facevano una palestra fondamentale di formazione e di esperienza politica, un luogo di promozione del civismo. Per me non dare all’ente intermedio – si chiami provincia o in altro modo – un fondamento costituzionale non è mai stato un tabù. Ritengo che in ogni Regione, con i comuni che ne fanno parte, si dovrebbero stabilire i compiti e su questa base gli ambiti territoriali dei nuovi enti intermedi. In questo momento l’Italia è l’unica grande nazione europea priva di un ente democratico intermedio. Le provincie hanno un fondamento costituzionale, la loro elezione è indiretta, da parte di sindaci e consiglieri comunali, con una legge elettorale che misura i voti sulla base del peso demografico dei comuni rappresentati; mantengono competenze non irrilevanti, ma non sempre chiaramente definite, su ambiente, scuole di istruzione superiore, viabilità, in più senza risorse minimamente sufficienti. Nello stesso tempo le città metropolitane, per alcuni grandi capoluoghi, non decollano. I presidenti delle regioni sono eletti direttamente dai cittadini. Anche questa, realisticamente, è una scelta irreversibile. Tuttavia, non solo non ha senso ma è un serio vulnus alla democrazia tenere in vita il «simul stabunt, simul cadent». Con l’elezione diretta del presidente, i consigli dovrebbero essere eletti in modo autonomo e non essere costretti a decadere se chi guida il governo della Regione rassegna le sue dimissioni. Questo intreccio sposta sui governi l’equilibrio dei poteri fino a vanificare nella sostanza il normale esercizio delle competenze di controllo che nelle democrazie moderne caratterizzano il ruolo delle assemblee elettive. A livello nazionale, infine, Camera e Senato continuano a dare la fiducia ai governi, caso unico nelle democrazie occidentali; i governi attuano i loro programmi a colpi di decreti legge e con l’imposizione del voto di fiducia per approvarli; i partiti politici sono pressoché inesistenti e la maggioranza di essi – Lega, Movimento Cinque Stelle, Forza Italia – lontani da regole di vita interna trasparenti e democratiche; le leggi elettorali non garantiscono né piena libertà di scelta da parte degli elettori, obbligando ad esprimere con un unico voto il gradimento per i candidati nei collegi uninominali e per quelli nelle liste proporzionali, né contribuiscono a rendere praticabile, in coerenza con la volontà espressa dai cittadini, la formazione di maggioranze parlamentari stabili. Dopo anni di discorsi sui candidati premier, le elezioni del marzo 2018 hanno mostrato come questi nascano da una specie di estrazione del Lotto. Da parte sua la magistratura copre impropriamente spazi lasciati vuoti dalla politica, con una supplenza che non è utile al nostro Paese, né consolida la sua autorevolezza e il suo prestigio. Anzi cala in modo consistente anche la fiducia nella magistratura, con un danno non sottovalutabile per la tenuta dello Stato di diritto.

 

La necessaria riforma del regionalismo

È in questo quadro, a tinte opache, che avanza il federalismo differenziato, aggiungendo a fragilità macroscopiche l’annuncio di nuove, insopportabili divisioni. Negli anni in cui la riforma delle istituzioni era al centro di un confronto pubblico, l’obiettivo e il significato del federalismo differenziato si riferivano ai tempi per assumere alcune competenze, fino a quel momento prerogativa dello Stato centrale. Non erano consentite variazioni che potessero portare ad una babele di impostazioni e di contenuti sui fondamenti della cittadinanza né per le risorse a disposizione. Semplicemente alcune regioni potevano già essere in grado di assumere responsabilità nuove, mentre altre potevano decidere di seguire un iter più lento. Il Parlamento avrebbe in ogni caso dovuto approvare una legge che definisse i livelli minimi essenziali delle politiche sociali, sanitarie, di formazione e istruzione, da assicurare a ogni cittadino italiano. Non è stato fatto.

Non sono convinto che sia sostenibile ancora a lungo l’attuale configurazione del regionalismo italiano. Le regioni a statuto speciale non hanno più il significato che ne aveva consigliato la nascita. Non si tratta certamente di abbassare l’asticella delle loro competenze, bensì di innalzare quella delle altre regioni in campi che, nel quadro della prospettiva europea sottolineata all’inizio di queste mie riflessioni, sono propri delle istituzioni regionali, affrontabili cioè con una maggiore efficienza in questa dimensione.

Restano naturalmente specificità da conservare, di carattere linguistico, culturale e anche dovute ad accordi internazionali, per Val d’Aosta e Trentino-Alto Adige, ma niente di più. Così secondo me, occorrerebbe muoversi, senza demagogia e senza le solite concessioni ad una propaganda che allontana le persone dalla politica e dalle istituzioni della democrazia. L’indifferenza o la disattenzione continuano a essere un pericolo. Non si è di fronte a un’alternativa tra riforme o conservazione dell’esistente. Esiste una proposta di federalismo differenziato che è portatrice di una rottura del Paese, di una messa in archivio della solidarietà, di divisioni rispetto a diritti, che sono universali. Opposto è un percorso rigoroso di riforma delle istituzioni, ancorato alla Costituzione e coerente con l’orizzonte di una democrazia federale europea.