Perché l’esilio non sia il luogo dell’oblio

di Bijan Zarmandili

 

Perché l’esilio non si trasformi nel luogo dell’oblio, gli scrittori costretti a vivere lontano dalla loro terra danno corpo sulla carta, molto spesso nella lingua del Paese che li ospita, alle voci provenienti dalla realtà della loro infanzia, in un costante dialogo con i personaggi che nella loro mente raccontano le storie. La loro è una scrittura ibrida, nella forma e nel contenuto, che impone una sorta di metamorfosi a tutte le culture coinvolte in tale processo.

 

Le voci che vengono da lontano

Perché l’esilio non divenga il luogo dell’oblio bisogna popolarlo di fantasmi, di demoni e di angeli. Sono loro che ti restituiscono l’identità che rischi di perdere. Le voci vengono da lontano, s’intrecciano e a volte perdono senso, ma, sedimentate, di nuovo sono parole, frasi, storie. Non è soltanto la memoria che stimola il ritorno dei volti, il riemergere degli episodi vissuti: è un dialogo costante tra i personaggi che nella tua mente raccontano le loro storie. Tu ascolti e chiedi loro di ripetersi per memorizzare le loro chiacchiere, le loro favole, spesso tremende. Rispondi alle loro domande e a tua volta pretendi che chiariscano dettagli che non hai compreso.

Ricordo Ali Agha seduto all’ingresso della moschea del quartiere dove ho passato la mia infanzia e l’adolescenza. È vestito con il completo grigio, logoro, ma pulito. La sua vecchia camicia nera è abbottonata fino al collo. Sta seduto su uno sgabello e ha sistemato sul tavolino di legno grezzo che ha di fronte alcune penne, l’inchiostro e la carta assorbente; il blocco di carta e le buste sono custodite sotto il tavolino per evitare che si sporchino. Un altro sgabello accanto al suo è in attesa che qualcuno vi si sieda e detti una lettera. Lì, all’ingresso della moschea, Ali Agha ha il suo ufficio. Svolge il nobile mestiere dello scrivano, assai diffuso in Iran ai tempi della mia infanzia. Altri scrivani si trovavano agli ingressi della Posta, dell’Anagrafe o dei tribunali e per pochi centesimi scrivevano per i loro clienti lettere ai parenti lontani, certificati di morte o di nascita che dovevano essere timbrati dagli uffici competenti. Erano in grado di leggere e di scrivere tra una maggioranza di analfabeti. La donna seduta sullo sgabello accanto a Ali Agha è piuttosto giovane. Porta con disinvoltura il suo chadorche scopre un folto ciuffo di capelli neri; sulle labbra un residuo di rossetto sbiadito.

«Devo scrivere a mio fratello che non vedo da anni. È andato all’estero e non è più tornato. Penso che non tornerà».

Ali Agha ha già sul tavolino il foglio di carta e la penna in mano: «Mio amato fratello, spero che tu sia in salute e anche noi stiamo bene», comincia a scrivere e la formula è sempre quella, cambia la qualifica del parente a cui è indirizzata la lettera.

La donna racconta alcuni episodi recenti: la morte di uno zio e il matrimonio della cugina, e prosegue con i ricordi di quando vivevano insieme nella loro casa chiusa da muri di cinta. Il piccolo giardino era perennemente ornato di garofani e a primavera di viole del pensiero. Ali Agha la interrompe di tanto in tanto e le chiede di procedere più lentamente. Un paio di volte lei smette di raccontare, sopraffatta dalla commozione. Sembra che trattenga le lacrime. Anche Ali Agha si ferma: conosce bene lo stato d’animo dei suoi clienti, in particolare quando non trovano parole per descrivere il loro dolore, la nostalgia, l’affetto. In silenzio attende che passi il momento dello smarrimento e dopo, quasi sussurrando, suggerisce la frase adatta: «mio indimenticato fratello». Lei annuisce e prosegue. Quando asciuga l’inchiostro dell’ultimo foglio sono già accesi i due grandi lampadari di cristallo appesi al soffitto dell’ingresso della moschea. Ali Agha legge per la donna i numerosi fogli scritti in bella calligrafia e quando lei si alza dallo sgabello, ringrazia infilandogli nella tasca della giacca un generoso compenso per la sua fatica.

 

La grande casa di Monirrieh

Ero come Ali Agha lo scrivano quando ho cominciato a scrivere il primo romanzo, La grande casa di Monirrieh. Ho cominciato ad assomigliargli persino fisicamente, perlomeno all’immagine che avevo conservato nella memoria: se avessi fatto crescere i baffi, con i miei radi capelli bianchi, sarei stato un sosia di Ali Agha lo scrivano. Alla pubblicazione del romanzo, mi è stato chiesto perché da giornalista ero passato a fare il romanziere, che cosa mi aveva sollecitato a tale scelta. Ho risposto senza alcuna esitazione: «Non ho fatto altro che riportare sulle pagine del romanzo le storie che mano a mano mi ha presentato la memoria. Ho aspettato tanti anni per imparare ad ascoltare la voce della memoria e nel frattempo ho raccontato le storie e i fatti ai quali il mio mestiere di giornalista mi consentiva di partecipare».

A un certo punto, però, la nostalgia è prevalsa sul presente e sulla spavalderia con la quale mi occupavo delle vicende contingenti. Ma anche da giornalista ho fatto lo scrivano, tra le virgolette scrivevo ciò che mi dettavano gli altri. Ho deciso che anche la memoria può essere virgolettata. Per tutto il tempo della scrittura del romanzo i protagonisti mi raccontavano le loro vicende e io cercavo di trovare vocaboli, sostantivi, aggettivi e frasi fedeli ai loro racconti, vicine ai loro umori.

L’esilio è il luogo della nostalgia: uno stato d’animo assai simile alla perdizione, allo smarrimento. Penso che tra le poche possibilità a disposizione di uno che vive in esilio, di uno che ha perso la patria, che rischia di perdere anche l’identità e forse la vita (come i mercenari morti, non di spada, ma di nostalgia nel corso di lunghe guerre), la capacità di mutare la nostalgia in un’opera creativa potrebbe essere quella salvifica. Lo scrittore in esilio torna spesso sui luoghi indimenticati della sua città nativa, ascolta il mormorio della gente e attende che qualcuno gli chieda di ascoltare la sua storia. Nella Grande casa di Monirriehè la figlia maggiore della protagonista del libro, Zahra, a raccontarmi la storia della madre. Dietro alla scrivania ascoltavo le sue parole e qualche volta, quando dettava con ritmo veloce e io rimanevo indietro, le chiedevo di ripetere l’episodio di cui mi parlava, esattamente come faceva Ali Agha lo scrivano con i suoi clienti.

 

La scrittura ibrida dello scrittore in esilio

Tutti gli scrittori in esilio sentono voci provenienti dai luoghi della loro infanzia, della gioventù, di quando erano in sintonia con i volti, con i costumi e con la cultura che li circondava. La trascrizione di quelle voci nelle pagine del libro produce tuttavia un effetto strano: si tratta di una scrittura ibrida, bastarda, nella forma e nel contenuto.

Vale la pena comunque di riflettere sull’ibridismo della scrittura dell’autore esiliato, anche perché si tratta di un fenomeno oggi assai diffuso in seguito agli spostamenti di popolazione da un continente all’altro, tra i più imponenti conosciuti dalla storia.

Le enormi masse di persone che provengono dalle aree più povere contano al loro interno i campioni più vari di umanità. Nella quasi totalità queste persone, una volta lontane dai paesi nativi, si sentono in esilio: esiliate a causa della povertà, delle guerre, delle repressioni politiche, religiose. Questa umanità varia contiene inevitabilmente molteplici talenti, tra cui talenti letterari e intellettuali in grado di trasferire le proprie esperienze in opere letterarie, in romanzi, in saggi e in poesia. Si servono della lingua adottiva per le proprie espressioni poetiche e ciò che producono è necessariamente il risultato di un processo dialettico avvenuto tra il loro originale bagaglio linguistico e culturale e quello del paese in cui sono costrette all’esilio. La raffinatezza del francese in Guerra e pacenon può tuttavia costituire un precedente a partire dal quale giudicare le pagine scritte in inglese, in francese, in tedesco o in italiano dagli autori «immigrati». La letteratura d’immigrazione – ma forse è meglio definirla letteratura dell’esilio – nell’odierna fase storica è un fenomeno che poggia le sue ragioni su un immenso e straordinario movimento di massa che sposta milioni di persone da un continente all’altro, determinando la nascita e lo sviluppo progressivo di una cultura ibrida, quindi nuova, che non è la somma o l’integrazione tra due o più culture (come spesso viene intesa), ma è il risultato di un complesso processo che impone una sorta di metamorfosi a tutte le culture coinvolte nel processo.

 

A due passi dalla sezione PCI di Ponte Milvio

La mia professione di giornalista mi ha portato ad occuparmi per diversi anni delle questioni riguardanti la rivoluzione khomeinista in Iran, della diffusione dell’integralismo religioso in diverse parti del mondo e dello scontro hungtingtoniano tra culture e civiltà. In due romanzi ho raccontato i personaggi del tragico mondo che l’integralismo religioso e le dittature hanno prodotto: la storia di un uomo-bomba in un Medio Oriente lacerato dalle guerre e dagli intrighi internazionali e quella di giovani iraniani che hanno scarificato la propria vita per la caduta del regime dello scià agli albori della rivoluzione islamica in Iran. Questa ultima storia aveva a che fare con la sorte dell’esiliato politico in Occidente. Tutto comincia in una osteria a due passi dalla sezione romana del PCI a Ponte Milvio. Qui, casualmente, due giovani studenti iraniani, una ragazza e un ragazzo, incontrano un gruppo di operai edili che discute del governo Tambroni, dei loro compagni morti a Genova, a Reggio Emilia e delle cariche di polizia a Porta San Paolo. Siamo negli anni Sessanta, quando l’Italia post-bellica comincia a guarire dalle ferite della guerra tra nuove contraddizioni. La conversazione tra i giovani iraniani e gli operai ha qualcosa di paradossale: i primi sono affascinati dal fervore e dalla passione politica dei comunisti italiani e scoprono i conflitti di una società democratica, mentre i secondi invidiano la libertà di cui godono i due iraniani, a quell’ora della notte ancora insieme all’osteria.

«La mia futura suocera non lascerebbe mai uscire Rossana sola con me di sera! Dobbiamo sempre portarci appresso suo fratello. Beati voi che venite da un paese libero, magari non siete neppure cattolici», dice uno di loro, ignorando che l’Iran sotto la dittatura dello scià non era affatto un paese libero e che l’islam ha delle regole ancora più rigide per quello che riguarda i rapporti tra l’uomo e la donna.

L’Italia di allora, dunque, è stata un laboratorio politico e culturale per la generazione dei giovani provenienti dal Terzo Mondo. Qui venivano educati al dibattito politico, al confronto democratico, ai valori dell’antifascismo, alla cultura dei diritti. Mentre studiano l’architettura e la medicina a Roma, i due giovani iraniani sono divenuti convinti oppositori del regime dello scià e per questo saranno costretti all’esilio forzato e quando, clandestini, si trasferiranno in patria per partecipare alla rivoluzione, saranno catturati, torturati e uccisi dalla polizia politica, la famigerata Savak.

Ho scritto il romanzo della vita di questi due giovani quando Roma aveva ormai perduto la sua memoria di quando era una città materna, di quando le vecchie signore romane affittavano stanze agli studenti stranieri a Viale delle Province e, commosse, li abbracciavano quando alla fine degli studi tornavano a Casa; di quella Roma dei bar del quartiere Flaminio, dove i campioni iraniani che partecipavano alle Olimpiadi del Sessanta facevano gare di braccio di ferro con i giovanotti romani.

È superfluo tornare a considerare quale è la Roma di oggi, l’Italia, o l’Europa di oggi nei confronti degli stranieri. Lo ha fatto il figlio dei due protagonisti del romanzo venuto a cercare le tracce dei genitori a Roma quando ha visto i pulitori di vetri delle auto ai semafori, le minorenni africane che si prostituivano alla Stazione Termini e quando ha chiesto all’edicolante di Ponte Milvio dove fosse la sezione del PCI. Si è sentito dire che dall’altra parte della piazza, in fondo al vicolo, è rimasto soltanto un «Ciao Enrico» alle pareti del locale della vecchia sezione.

È lecito porsi alcune domande: quale sarebbe la sorte di quei due giovani iraniani in esilio a Roma negli anni Sessanta se fossero capitati oggi a Roma? Chi, quale politica, quale cultura, quale scuola di pensiero si prenderebbe cura di loro? Sarebbero dei terroristi, dei kamikaze, oppure semplicemente del dissociati?

 

La metafora di un lungo viaggio

Arriva il tempo di uscire dall’ombra dei personaggi dei tuoi libri. Ero emozionato quando a metà dell’ultimo romanzo mi sono accorto che l’anziano terremotato che fugge insieme alla nipote autistica dalla sua città colpita dal sisma sono io. Erravano ai margini del deserto iraniano Kavir-e-Lut e le loro disavventure finiscono per educare alla vita lui, il vecchio nonno. L’odissea del superstite del terremoto è la metafora del lungo viaggio che compie l’esiliato a vita, per il quale il momento del ritorno non arriva. E i ripensamenti a cui è sottoposto con il passare degli anni non sono il semplice, banale, bilancio delle stagioni della vita: progressivamente giunge alla negazione dell’esilio stesso, alla rimozione dell’ossessione del ritorno, della gabbia dei ricordi, del patetismo della nostalgia, del vittimismo…

Scrive in prima persona le proprie fantasie sul mondo, sull’uomo e sulla natura: è un autore sfacciato, disinibito, con l’ego gonfiato e finalmente distaccato. È l’anziano terremotato, il protagonista del romanzo, che abbandona le vesti del saggio per farsi trascinare dal caos e dalle disavventure che capitano alla nipote. L’anomalia mentale della nipote diviene l’ordinaria follia di vivere a cui bisogna rassegnarsi, mentre la consuetudine alla «normalità», ai ruoli prestabiliti, alle tradizioni religiose e culturali e alle convinzioni politiche sono una saviezza artificiale. È la fine dell’esilio.

*Il presente testo, gentilmente trasmessoci da Claudia Micocci, moglie dell’Autore, recentemente scomparso, e trattato secondo le norme editoriali della nostra rivista, è pubblicato con lo stesso titolo nel volume La letteratura italiana e l’esilio, «Bollettino di italianistica», semestrale, n. s., anno VIlI, n. 2, Speciale, Carocci 2011. Bijan Zarmandili è stato collaboratore di «Testimonianze» e membro del Consiglio di redazione della rivista. La pubblicazione di questo articolo (con il consenso del «Bollettino di italianistica») è anche il nostro modo di ricordarlo e di rendere omaggio alla sua memoria.