IL «CANTIERE APERTO» DELLA CULTURA DELLA PACE

di Mario Giro (intervista a cura di Severino Saccardi)

 

La difesa dei valori promossi dalla Dichiarazione universale dei diritti umani implica un continuo negoziato fra i principi e la reale effettività degli stessi. La Chiesa cattolica si è adoperata nei diversi pontificati che si sono succeduti nel corso del

Novecento e fino ad oggi nel condannare la guerra e il ruolo dei credenti può essere quello di vegliare e dialogare instancabilmente affinché la pace sia preservata. Un compito che la «Comunità di Sant’Egidio» svolge quotidianamente nei diversi continenti.

 

Lavorare su un equilibrio fragile

  1. Qual è, al di là della dimensione puramente celebrativa, il valore, di carattere politico, storico e culturale, del settantesimo anniversario della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo?
  2. È un valore storico evidente. Per la prima volta tutti i popoli si riconoscono in valori comuni. Questo quadro viene messo continuamente in crisi da interessi nazionali opposti e dalla violazione dei diritti umani. In equilibrio instabile rispetto alla sovranità degli stati e l’ingerenza umanitaria. Fino a che punto uno Stato può invocare la non ingerenza in affari interni è una questione delicata. Questo principio oggi sembra sia superato, ma bisogna ricordarsi che il principio della non ingerenza negli affari di uno Stato fu celebrato e scritto dopo la Seconda Guerra mondiale per contrastare quello che aveva fatto il nazismo che in nome delle minoranze tedesche aveva innescato la guerra ingerendosi nelle questioni interne di altri paesi. Oggi capiamo il valore dell’ingerenza umanitaria e al tempo stesso i limiti nell’esportazione della democrazia e delle sue conseguenze. Si tratta di lavorare su un equilibrio fragile.
  3. La Dichiarazione viene promulgata per affermare l’universalità dei diritti umani fondamentali; ma, talora, questa proclamazione di universalità viene posta in contrapposizione con la relatività e la diversità delle culture. È una contraddizione reale? O è un semplice pretesto accampato da sostenitori di regimi che i diritti umani non hanno alcuna intenzione di rispettarli? Come si esce da tale (apparente o reale) aporia?
  4. Da entrambe le questioni se ne esce con un continuo negoziato. È chiaro che i diritti delle minoranze sono importanti ma non possono giungere a oltrepassare certi limiti. Certe cose non si possono valutare come tradizioni storiche (ad esempio l’infibulazione, i matrimoni precoci o forzati) e il nativismo deve trovare un equilibrio con l’universalità.

 

L’atteggiamento evangelico del vegliare

  1. Nel tempo presente, la Chiesa è fortemente impegnata sul terreno della promozione e della difesa dei diritti umani. Al suo interno storicamente è andata maturando, gradualmente e con il tempo, la consapevolezza dell’importanza di questo tema. Quali sono stati i passaggi fondamentali e i grandi pronunciamenti che hanno favorito la maturazione ed il consolidamento di tale presa di coscienza?
  2. Innanzitutto la difesa della vita in ogni luogo e ogni condizione e poi il discorso sulla pace fatto dai pontefici lungo tutto il Novecento, a cominciare con Benedetto XV, quando si oppose alla Prima Guerra mondiale facendosi molto criticare dagli accesi nazionalismi contrapposti dell’epoca, ma anche Pio XI che si oppose al nazismo, Pio XII che parlò, a sua volta, di inutile strage, per arrivare a Giovanni XXIII con la Pacem in Terris, Paolo VI con la Populorum progressio e così via fino a Giovanni Paolo II, Benedetto XVI e papa Francesco. Si tratta di un discorso assoluto sulla pace in cui la guerra è considerata sempre un male, superando l’antica argomentazione della guerra giusta che datava da Sant’Agostino. È stata una maturazione che piano piano ha condotto la Chiesa cattolica a diventare prima nella difesa della pace e a disseminare questa sua coscienza nella altre religioni attraverso il dialogo voluto da Giovanni Paolo II a partire dall’incontro di Assisi del 1986.
  3. C’è un contributo specifico che i credenti, pur in spirito di laicità, possono dare alla riflessione sulla dimensione e sul tema dei diritti umani nel nostro «tempo della complessità»?
  4. Il contributo è vegliare. Ricordarsi delle guerre e delle violazioni dei diritti umani anche quando sono dimenticati, il che avviene continuamente. Un atteggiamento evangelico del vegliare, del ricordare ogni violazione ovunque essa si manifesti.
  5. La Dichiarazione universale nasce anche come reazione agli orrori prodotti dal secondo conflitto mondiale e dai totalitarismi del «secolo breve». Oggi però, papa Francesco, dice che, a livello planetario, c’è una terza guerra mondiale «a pezzi». Questo significa, forse, che c’è il rischio di una sconfitta complessiva della cultura e delle forze di pace nel mondo contemporaneo?
  6. La sconfitta è sempre in agguato. Il discorso della pace e dei diritti deve essere sempre ripetuto. Bisogna continuare a vegliare ogni giorno e a dialogare instancabilmente perché la pace sia preservata. Per esempio ora andiamo a Bologna per l’incontro internazionale promosso dalla «Comunità di Sant’Egidio» in cui la pace sarà al centro del dialogo delle religioni.

 

L’impegno della «Comunità di Sant’Egidio»

  1. Appaiono di singolare attualità i principi proclamati dall’art. 13 («Ognuno ha il diritto di lasciare il proprio paese…») e l’art. 14 («Ognuno ha diritto, in caso di persecuzione, di cercare, di godere di asilo in altri paesi») della Dichiarazione, che possono essere evidentemente riferiti a situazioni complesse e drammatiche come quella delle migrazioni nell’età contemporanea. Quali riflessioni possono essere sviluppate in proposito riguardo al dibattito ed alle tensioni che, su tali tematiche, si stanno sviluppando in Italia e in Europa?
  2. Direi che nessuno mette ufficialmente in discussione i principi dei due articoli. Tuttavia si tende a fare delle distinzioni dicendo che non tutti i migranti scappano da persecuzioni e guerre, ma sono migranti economici. Credo che questa distinzione sia superata perché, ad esempio, i giovani africani lasciano il proprio Paese nella globalizzazione e a causa di essa sentono di avere il diritto inalienabile di farlo. D’altra parte la globalizzazione si basa sulle quattro libertà di commercio, di finanza, di servizi e di movimento delle persone. Perché quest’ultima non dovrebbe valere anche per loro?
  3. Come ripensare il valore e l’indiscutibile contributo particolare che un’esperienza come quella della «Comunità di Sant’Egidio» ha fornito alla cultura della pace, della convivenza e della dignità umana alla luce dei principi e delle istanze della Dichiarazione universale, che questo settantesimo anniversario pone alla nostra attenzione?
  4. Evidenzierei due momenti: il primo è avere intessuto un dialogo mondiale interreligioso fin dal 1986, data del primo incontro voluto da Giovanni Paolo II ad Assisi, che ha dato luogo a un movimento di pace dentro le religioni perché si aiutino vicendevolmente a non farsi manipolare dall’estremismo, dall’etnicismo e dal nazionalismo. Il secondo è avere voluto affrontare il discorso della pace concretamente: Giovanni Paolo II parlava della pace come cantiere aperto, Francesco come di un lavoro da artigiani. Fin dagli anni 80 la Comunità si è adoperata in mediazioni con conflitti ritenuti intrattabili. Noi crediamo che sia sempre possibile fare la pace o almeno fare qualcosa perché guardiamo gli effetti della guerra dal punto di vista dei poveri che sono quelli che soffrono di più e che soffrono in ogni caso. In questo lavoro, in questo servizio, «Sant’Egidio» ha operato in alcuni continenti ottenendo talvolta dei risultati eclatanti, come la pace in Mozambico, e sempre adoperandosi per favorire le ragioni della pace presso chi ha le armi e chi vede la guerra come unica soluzione. Con una certa ingenuità, che si rivela sapiente, noi pensiamo che il mondo possa un giorno abolire la guerra come ha abolito la schiavitù: ci saranno sempre contenziosi e conflitti ma dovrà essere possibile risolverli politicamente e non militarmente.