E SE FOSSE L’UOVO DI COLOMBO?
di Severino Saccardi
Non è nuovo, il tema della crisi della politica. Ma, oggi, tale crisi ha assunto un carattere «globale»; riguarda non solo i singoli paesi, ma investe l’architettura medesima della nostra comune «casa» europea. Forse, la via d’uscita sta nell’avere nuovamente il coraggio (non per «buonismo», ma per realismo) di affrontare di petto temi caldi come quello delle migrazioni, che possono essere risolti solo riaprendo vie legali agli accessi in Europa e impostando un grande «piano Marshall» per l’Africa (o, detto altrimenti, una «Helsinki per il Nord-Sud»).
Quando tutto cambia
Tutto cambia. Ci troviamo, improvvisamente, in un «mondo nuovo». È la prima considerazione che viene in mente, accingendosi a parlare di politica. Cambiano soggetti, protagonisti, parametri di riferimento. Non è da oggi che la politica è in crisi. Ma, rispetto anche a tempi non lontanissimi, non solo essa è più profonda, ma ha, in qualche modo, un carattere «globale». È quanto segnalano gli autori di questa sezione monotematica, pur partendo talora da ottiche diverse e pur con argomentazioni e conclusioni, a volte, differenti. Il «caso Italia» ha, certo, una sua specificità. Basti pensare alla particolarità della coalizione «giallo-verde» e al consenso che ha ottenuto un movimento difficilmente classificabile (secondo le categorie tradizionali) come quello dei 5 Stelle o alla forza inaspettata di un partito come la Lega che, prima della fase salviniana, sembrava ridotto ai minimi termini. Analizzare una singola situazione nazionale è comunque importante, ma non porta a grandi risultati se si prescinde da un contesto più ampio; il contesto oggetto del dibattito che «Testimonianze» pubblica sulle sue pagine, fa riferimento ai molti elementi che concorrono a definire il sommovimento generale attualmente in corso: il dilagare dei nazionalismi e dei variegati «populismi» (il termine è spesso rimesso in discussione, ma ha una sua indubbia pertinenza ed efficacia), le difficoltà crescenti dell’Unione Europea (sempre più ansimante e segnata dai particolarismi), una crisi sociale che continua a mordere (anche se ci sono segni diffusi di ripresa, poco avvertibili peraltro nel nostro Paese) e con una crescente perdita di credibilità (più acuta, forse, in Italia che altrove) delle forme della rappresentanza politica. È difficile leggere le dinamiche e le tensioni che muovono e agitano le società del nostro tempo. È stato più volte detto (e lo si sottolinea anche in questo volume) che le divisioni tradizionali fra «destra» e «sinistra», agli occhi di molti, sembrano avere perso di significato. Contano più le distinzioni fra «alto» e «basso» e fra «élite» e «popolo», qualunque cosa esse vogliano significare. Ci sono, d’altra parte, fenomeni sintomatici. Dare il nome di «Rousseau» a una nota piattaforma informatica non è una scelta a caso. Nasce dall’idea di un riferimento alla «sovranità generale» del popolo che, tendenzialmente, mira a saltare le mediazioni, a superare i vincoli istituzionali e gli «impacci» della democrazia rappresentativa.
Un colpo d’occhio che impressiona
Siamo, va detto, in un’epoca che vive di apparenti paradossi. Qualcuno ha fatto notare, con una rappresentazione folgorante, che è singolare che non pochi movimenti della nuova destra prendano a riferimento un capo di stato con un passato (mai rinnegato; anzi!) di ex colonnello del Kgb. In un panorama generale e «globale» che appare tutt’altro che tranquillizzante. Il colpo d’occhio impressiona. C’è Putin, a Est, e, come intercapedine fra Mosca e l’Occidente, il gruppo dei paesi di Visegrad (Polonia, Repubblica Ceca, Ungheria, Slovacchia) che, certo, non amano la Russia, ma che sicuramente detestano molti aspetti di quell’Unione Europea di cui pure fanno parte e rifiutano in maniera decisa ogni apertura sul tema caldo della solidarietà comune sul fronte della «questione immigrazione». La parola d’ordine è il risaputo «aiutiamoli a casa loro» da profferire serrando, intanto, convintamente porte e frontiere. Non è in buone acque, in questo momento, l’Europa: minata dall’euroscetticismo interno (e dalle tensioni che si generano, perfino in paesi di tradizionale solidità politica come la Germania), insidiata dall’ondata populista (fermata con la mobilitazione generale antilepenista in Francia), che ha sfondato (sia pure in una versione variegata e particolare) in Italia, e ancora scossa, a distanza di tempo, dall’esito inatteso del referendum sulla Brexit. D’altra parte, è il quadro internazionale, nel suo complesso, ben oltre l’orizzonte europeo, a non fornire grandi motivi di rassicurazione. Nel Medio Oriente (e dintorni) permane un incandescente, e indomabile, focolaio di conflitti; si acutizzano le tensioni fra Iran e Arabia Saudita e fra sciiti e sunniti; in Egitto c’è il regime (formalmente, un «alleato », ma quanto mai ambiguo, lo attesta la dolorosa «vicenda Regeni») di Al Sisi, cresciuto sulle rovine della bella rivoluzione di piazza Tahrir e caratterizzato da una politica repressiva che niente ha da invidiare a quella di Mubarak; in terra di Libia (da cui partono i migranti verso l’Europa) c’è una preoccupante instabilità e la situazione è ancora spaventevole per quel che riguarda il rispetto dei diritti umani. Per non parlare dell’Africa tutta (un continente costellato di miserie, ma pieno anche di risorse e reso inquieto dalle attese di una popolazione giovane che cerca nuove frontiere) che rappresenta per noi una sfida e un banco di prova. In Africa (sia detto per ampliare il quadro di riferimento) è largamente presente la Cina (ah, già, la Cina!) che usa quel vasto continente come piattaforma per una sua ulteriore affermazione, nel mondo, come potenza «globale».
L’Europa, solo «un’espressione geografica»?
E l’Europa, in relazione a questo, che politica intende seguire? Ha una proposta e un progetto politico che, come tali, siano di rilievo e chiaramente percepibili? Sono questi, dopotutto, non gli epifenomeni o le questioni di immagine di cui si discute nei dibattiti televisivi, i veri temi del nostro tempo. Parlare di Africa (o di Afriche, come forse sarebbe più corretto dire) dovrebbe voler dire occuparsi di ben altro che solo della, pur importante, questione delle migrazioni. Ma certo, qui c’è un nodo difficile da ignorare (che, dal suo punto di vista, naturalmente molto diverso da quello di chi scrive, ha saputo cogliere e usare politicamente l’attuale leader leghista) e consiste nella intuizione che da tale tema non si può comunque prescindere. Così è per l’Italia e per il «vecchio continente» nel suo complesso. Ma è un fenomeno che non si affronta fermando navi o chiudendo porti! Oppure, facendo riferimento a un altro contesto, secondo l’attuale politica della presidenza degli Stati Uniti, erigendo muri al proprio confine meridionale. Muri che da noi è impossibile innalzare, perché non ci sono barriere che possano fermare il mare. Finché non si prenderà atto che bisogna riaprire (nella legalità e garantendo, insieme, accoglienza e sicurezza, certamente) una via per l’immigrazione legale, da gestire e governare, e fin quando l’Europa (l’Europa, tutta e unita) non comprenderà che la politica verso l’Africa, se vuole avere senso e respiro, non può basarsi che su un vero «Piano Marshall» (a favore dello sviluppo e come incremento della cooperazione e della nostra stessa sicurezza), fatto di investimenti consistenti e di strategie coerenti, saremo sempre punto e a capo. Solo recuperando la propria unità, praticando la solidarietà scambievole e puntando su progetti politicamente ambiziosi e condivisi, è possibile sperare di trovare una risposta ai grandi problemi della nostra epoca. Quello, appunto, delle migrazioni, da intendersi come risposta a questioni di enorme portata, la «terza guerra mondiale diffusa» (definizione di papa Bergoglio), i cambiamenti climatici, la desertificazione e l’asimmetria demografica fra Nord e Sud del mondo. Non è un’idea nuova, quella di incoraggiare una interlocuzione su fondamentali temi di interesse comune fra paesi della sponda Nord e della sponda Sud dell’area mediterranea e fra Europa e Africa. Qualcosa in questo senso era stato tentato con il «processo di Barcellona», ma senza seguiti apprezzabili. Eppure, è a un disegno di vasta portata, fondato sul partenariato, sulla cooperazione e sull’interazione fra Nord e Sud che bisognerebbe tornare a puntare. Non è inedita la proposta di una «grande Helsinki» (dal nome della Conferenza che dette un segno nuovo ai rapporti fra Est e Ovest al tempo della Guerra fredda e spianò la strada al rivolgimento dell’Ottantanove) per il Nord-Sud. È su questa strada e in direzione di un’ampia prospettiva strategica, forse controcorrente, ma, in sostanza, lungimirante, e non certo nel rifugio illusorio offerto da nazionalismi e «sovranismi» vari, che l’Europa può trovare una risposta ai problemi, alle angustie e alle contraddizioni che l’affliggono. La sinistra e le forze democratiche, in cerca di una rigenerazione e di una rinascita, dovrebbero aprire in merito un grande dibattito e prenderne piena consapevolezza. Potrebbe essere l’uovo di Colombo (o un’affermazione degna, quasi, del signor de Lapalisse).
Un internazionalismo nuovo
Che cosa opporre, infatti, alla marea montante del nazionalismo e al ritorno in auge delle singole «patrie» se non una forma nuova, del tutto post-ideologica, di internazionalismo? Un internazionalismo, dotato di senso delle istituzioni e fondato su una comune assunzione di responsabilità fra diversi, originato non dal «buonismo» (come si dice con polemico e orrendo termine) ma da un solido principio di realtà e dalla percezione che sicurezza, sviluppo, cooperazione, migrazioni e diritti umani sono temi che possono essere affrontati solo in una logica di condivisione e di partenariato fra diversi soggetti in un tempo dominato dalla logica dell’interdipendenza. Sarebbe, appunto, l’uovo di Colombo se l’Europa decidesse di cessare di essere solo «un’espressione geografica» e di mancare agli appuntamenti con la storia. Nella condizione attuale, forse, non c’è da meravigliarsi se «(…) nel loro caloroso incontro di Helsinki, Donald Trump e Vladimir Putin abbiano (…) trattato gli europei come oggetti e non da coprotagonisti della scena mondiale». Molto c’è da fare per invertire la rotta. Ma quella è la via. Certo, adesso, c’è da remare controcorrente. E i problemi sul tappeto, a livello europeo e nei singoli paesi, non si contano. Bisogna intervenire sulle nuove emergenze sociali, sui problemi di un lavoro sempre più frammentato e precario, sulle nuove tecnologie che costituiscono, insieme, una grande opportunità e un problema e sul rapporto, più in generale, con una globalizzazione che ha emancipato settori di umanità e ne ha impoveriti altri. Tutto questo, mentre il divario e l’incomprensione fra società e politica aumenta e il consenso dei variegati movimenti generalmente definiti come «populisti» cresce. Gli autori della nostra sezione monotematica (ai quali va la nostra gratitudine per i loro contributi, variamente ispirati) che ragionano sulle vie possibili di un rinnovamento e di una riscossa concordano, mi pare, sull’impronta di tipo etico che tale processo dovrebbe assumere. Un’idea da sottoscrivere.
Un’altra illusione?
Molte sarebbero le osservazioni da fare in merito. Avremo modo di tornarci sopra. Mi limito a due notazioni di passaggio. Molto c’è da correggere nelle impostazioni seguite in questi anni, soprattutto sui temi di carattere economico-sociale, ma penso che sarebbe un’altra illusione pensare che possa bastare una linea un po’ più «di sinistra» per colmare il divario oggi esistente fra politica e società. Bisogna incidere molto più a fondo e su un altro piano. Se la politica vuole rigenerarsi deve privilegiare altre logiche rispetto a quelle troppo a lungo seguite; e deve, al di là delle colorazioni politiche, premiare il merito, l’idealità, la competenza e non le cordate di potere e l’appartenenza alle consorterie, nella selezione delle classi dirigenti. Altrimenti, l’antipolitica e la demagogia antipartitica continueranno ad avere davanti praterie sterminate di consenso da conquistare. Per una corretta selezione della rappresentanza sarebbero anche raccomandabili buoni sistemi elettorali e in Italia da questo punto di vista siamo messi maluccio (anche se da anni non si fa che parlare di riforme al riguardo). E per rimanere un attimo sul nostro Paese, dopo aver fatto riferimento ad orizzonti più ampi (senza tuttavia aver parlato di altro rispetto al tema che qui ci siamo assegnati), va detto che le anomalie italiane sono più di una. Qui si parla, giustamente, di una sinistra da ricostruire. Ma in Italia non è a rischio solo l’esistenza stessa della sinistra. Sono scomparsi, o letteralmente evaporati, anche i moderati. I «moderati» vengono continuamente evocati, ma non si sa chi siano né dove stiano. E pensare cha anche di una vera componente moderata e civile ci sarebbe necessità per costruire un’interlocuzione e dei percorsi capaci di portare fuori dalla problematica situazione del presente. In questo senso, andrebbe ormai riconosciuto (anche da parte di chi democristiano non lo è stato mai ed ha criticato il «regime» di allora) che una forza come la DC aveva fatto un grande lavoro, «civilizzando» e orientando democraticamente un elettorato talora più a destra del gruppo dirigente e non esente da nostalgie autoritarie. Ma questa è una riflessione da consegnare agli storici. Per quel che riguarda il presente, c’è molto da interrogarsi e da discutere e, soprattutto, c’è molto da fare. Il confronto libero delle idee, come sempre, aiuta. C’è, in tutto questo, un riferimento-cardine da seguire? Credo che si possa affermare, detto in maniera semplice e, forse poco in linea con il carattere smaliziato della politica contemporanea (responsabile, però di aver portato ai brillanti esiti che sappiamo), che quel riferimento esiste eccome. È quello della cura e della premura per il bene comune, un valore da riproporre come bussola e sestante nel nostro, tormentato, tempo della complessità.