CHIUDERSI NELLA TORRE D’AVORIO NON SERVE
di Claudia Mancina

Fra politica e società si è creato un abisso, scavato dalla convergenza di più crisi che si sovrappongono, con effetti dirompenti. Nel cittadino occidentale cresce il senso di spaesamento e di paura e la «questione immigrazione» (che le forze reazionarie e xenofobe distorcono e amplificano strumentalmente) sembra divenire il problema fondamentale da affrontare. Occorre che la politica sappia dialogare con le emozioni che attraversano la società e ripensare radicalmente (non in chiave comunitarista, ma secondo una versione aperta e soft) il tema dell’identità per non rischiare di perdere quel patrimonio che la democrazia liberale del Novecento aveva faticosamente conquistato.

Lo spaesamento simmetrico
Tra i due termini, politica e società, un tempo uniti da un legame inscindibile, sembra oggi essersi scavato un abisso. Il tema è molto evidente in Italia, almeno dalla crisi di Tangentopoli, mai veramente recuperata; ma è presente in tutti i paesi caratterizzati da democrazia costituzionale. È, in primo luogo, una crisi di rappresentanza, nel senso più immediato della parola: la società non si sente rappresentata dalla politica. È anche, in secondo luogo, una crisi di identità: i soggetti della politica non hanno più una identità chiaramente definita, e i soggetti della società si sentono insicuri della loro. A ben vedere, queste due crisi convergono in una. La crisi di rappresentanza, infatti, non è dovuta allo spostamento ideologico e allo smottamento organizzativo dei partiti tradizionali, i grandi partiti che, in Europa come negli Stati Uniti (pur con le ovvie differenze), hanno assicurato il funzionamento della democrazia nel Novecento. Tanto meno, per quel che riguarda i partiti socialisti europei, a un «tradimento» delle antiche radici nella classe operaia e nei ceti svantaggiati a favore di un profilo più centrista e di politiche rivolte ai ceti medi. Le ragioni della crisi sembrano essere piuttosto di natura sociologica: è la società che è cambiata, con inevitabili effetti di spaesamento nelle persone e nella loro capacità di riconoscersi nei soggetti politici; e di simmetrico spaesamento nei soggetti politici e nella loro capacità di riferirsi a una base da rappresentare. Per restare ai partiti socialisti, non è che non ci siano più gli operai, è che gli operai non sono più unificati in un unico soggetto dallo stesso rapporto col lavoro e con le condizioni di lavoro. Idem per le disuguaglianze: ci sono ancora, anzi sono aumentate, ma è difficile riassumerle in una sola categoria o prospettiva. Questo rende molto difficile, e soprattutto inefficace, pensare e agire in termini di classe. Basti guardare ai sindacati, la cui crisi di rappresentanza è ancora più grande di quella dei partiti, tanto da avere cambiato completamente ruolo. Simmetricamente, a destra, si è ridotto lo spazio per il partito conservatore moderato, sostenitore delle imprese e della proprietà privata dentro un quadro di crescita generale, economica e civile. Mentre è avanzata, in tutte le democrazie, una destra aggressiva, fortemente nazionalista, xenofoba ai limiti del razzismo, che ritiene di dover difendere confini e tradizione da una vera o più spesso presunta invasione esterna. La politica del Novecento, con i suoi soggetti, è stata investita da un’ondata di sfiducia che non ha precedenti. E che tuttavia ha un fondamento innegabile: con lo sviluppo della globalizzazione, le decisioni non vengono prese se non marginalmente all’interno dei singoli stati, ma si sono spostate verso livelli sovranazionali o in alcuni casi extrapolitici (il mercato finanziario, le grandi organizzazioni globali). Questo crea un problema di democrazia. La democrazia è legata allo Stato nazionale, è un modo di rapportarsi dello Stato nazionale al suo demos, cioè alla sua constituency politica. Io cittadino mi aspetto certe cose dal mio governo, cose che sono importanti per la mia vita, per il futuro dei miei figli. Se non le condivido nel merito esprimerò il mio dissenso, anzitutto con il voto, poi con le altre forme di partecipazione che una democrazia matura consente, ma sempre nel quadro del rapporto cittadino-Stato. Se il mio posto di lavoro è messo in pericolo dalla delocalizzazione, se i miei diritti non possono essere difesi nell’ambito nazionale, se il mio governo deve obbedire a vincoli e spesso a diktat sovranazionali che non hanno una base democratica, come faccio ad avere fiducia nella politica? Credo che, molto semplicemente, il problema di fondo sia questo. La società è frammentata, attraversata da linee di conflitto molto più numerose e confuse che nel passato; e la politica democratica appare, e molto spesso è, impotente.

Cos’è il populismo?
Non c’è dunque speranza per la democrazia? Non può essere questa la nostra conclusione. Si tratta di ricostruire la democrazia nelle mutate condizioni. In questa fase una soluzione che sembra avere successo è quella populista. Per quanto ci si affanni a dire che il termine è generico e oscuro, tuttavia sappiamo bene che cosa vuol dire populismo: è un movimento – forse dovremmo piuttosto definirlo uno stato d’animo politico – fortemente contrario alle élite, investite di un condanna morale; al pluralismo, che è incompatibile con l’idea di popolo come entità omogenea, che si pretende abbia una espressione politica in quanto tale; alla divisione dei poteri. Come sostiene J-W. Müller in Cos’è il populismo?, il populismo, per quanto possa sembrare strano, non promuove la partecipazione politica: infatti non costruisce processi di formazione della volontà popolare, ma si limita ad evocare un popolo mitico la cui volontà è di fatto inverificabile (nello stesso senso anche N. Urbinati, Democrazia sfigurata). Proprio per questo, il populismo non rappresenta un correttivo ai limiti della democrazia rappresentativa; ma certamente dovrebbe spingere a ripensare i limiti della rappresentanza, soprattutto in una fase di crisi come l’attuale. I difensori della democrazia liberale, come dice ancora Müller, dovrebbero riflettere sulle forme della politica democratica e anche sui suoi fondamenti morali. Sembra però che quel che resta delle nostre élite politiche non riescano ad affrontare questa riflessione, né in Europa, né in America. Esse sono piuttosto sospinte verso una sempre più pronunciata subalternità a poteri e istanze extrapolitiche, dai mercati alle istituzioni sovranazionali; ma già da tempo hanno ceduto alla forza pervasiva di «(…) ambiti specialistici – giudiziari, amministrativi, tecnocratici – che conservano un alto grado di autonomia dalle istituzioni elettive», tanto da poter parlare di suicidio delle élite politiche. La debolezza di tali élite appare oggi drammaticamente evidente sulla questione migratoria, soprattutto in Europa, dove la costruzione comune di cui siamo tanto fieri rischia di saltare in aria per la difficoltà di coordinare le politiche nazionali sull’immigrazione. Mi fermo su questo punto, perché nessuno è altrettanto emblematico della scollatura tra società e politica.

Il sentimento anti-immigrati
Vediamo anzitutto quali sono gli argomenti che vengono di solito usati per spiegare il diffuso sentimento anti-immigrati. Il primo argomento è stato quello economico. Gli immigrati, si è detto, sono visti come concorrenti economici, o perché tolgono direttamente lavoro ai nativi, o perché ingrossando le file della manodopera abbassano i salari. Questo argomento è ormai smentito da varie ricerche e anche da alcuni dati statistici sorprendenti: per esempio, in UK le regioni in cui è prevalso il Leave sono quelle con meno immigrazione; lo stesso si può dire per le recenti elezioni tedesche, dove il partito di destra Afd, antiimmigrati, ha prevalso nei länder dell’ex-Ddr, anch’essi con meno immigrazione. Idem per gli Usa: Trump non ha vinto negli stati in cui si concentra la maggiore quantità di latinos ma negli stati della Rush Belt, quelli della vecchia classe operaia rimasta senza lavoro per la fine di certe attività produttive o per la delocalizzazione. Tuttavia il tema è sempre molto usato nelle campagne elettorali, e ciò vuol dire che è un tema efficace, che questo sentimento esiste anche a prescindere dalla realtà concreta. Per esempio, è bene ricordare che in Italia al primo gennaio 2017, i cittadini stranieri residenti sono stimati pari a poco più di 5 milioni, prevalentemente insediati al Centro-Nord. La collettività rumena è di gran lunga la più numerosa (quasi il 23% degli stranieri in Italia); seguono i cittadini albanesi (9,3%) e quelli marocchini (8,7%). In ogni sondaggio, però, risulta che gli interrogati su quanti siano gli stranieri in Italia rispondono citando cifre molto più alte, intorno al 30%. In questa scissione tra realtà e percezione si situa precisamente la scollatura tra società e politica (salvo naturalmente quella politica che echeggia e sfrutta tale percezione). Un altro argomento, che oggi si usa di più, è quello della sicurezza. È un argomento pesante: la paura è un sentimento serio, la difesa dalla paura, la garanzia della sicurezza sono tra i principali obiettivi delle istituzioni politiche e giuridiche e tra le principali – forse veramente le principali – richieste legittime che i cittadini rivolgono alle istituzioni. Per esempio, il sociologo Luca Ricolfi ha basato sul tema della paura la sua analisi di come la sinistra ha perso il suo contatto col «popolo», cioè con quei ceti svantaggiati che erano un tempo la sua base politica ed elettorale. È chiaro che la paura mette in continuità fenomeni molto diversi come la presenza di immigrati regolari e l’arrivo di clandestini o falsi rifugiati. Per questo il problema degli sbarchi, che è un enorme problema umanitario e organizzativo, è diventato un problema politico di prima grandezza. Abbiamo quindi l’analisi che dice che gli svantaggiati dall’enorme redistribuzione di risorse e opportunità prodotta dalla globalizzazione (proprio i lavoratori e i ceti medi occidentali) non si sentono rappresentati; e quella che dice che non si sentono protetti. Ambedue le cose sono certamente vere, ma io vorrei provare a fare una riflessione un po’ diversa.

L’identità: un tema fondamentale
Che c’è di comune tra slogan vincenti come Make America great again (Trump), o Take back control (Brexit) o Être chez nous (Marine Le Pen)? È l’identità. La nostalgia di un’identità (spesso soltanto immaginata, ma questo non ha nessuna importanza) che appare messa a rischio dai nuovi arrivati. L’identità può avere una declinazione comunitarista: è la tesi che la vita individuale riceva i suoi significati, i suoi contenuti valoriali, e perfino i suoi fini, dalla comunità culturale a cui ciascuno appartiene; e che perciò la comunità debba essere difesa a qualunque costo, anche a detrimento delle libertà individuali, a maggior ragione dei diritti umani degli «estranei». Una tesi facilmente contestabile soprattutto con l’argomento fattuale che non esistono culture omogenee e quindi neppure comunità che possano essere concepite come chiuse. Ma l’identità può avere anche una declinazione più soft, che mette in primo piano la storia, la condivisione di percorsi formativi e culturali che sono effettivamente comuni, anche se all’interno di essi ciascun individuo si definisce liberamente, e da essi gli «estranei» non sono a priori esclusi. Nel mondo occidentale questa declinazione soft, potremmo forse dire liberale, dell’identità è piuttosto diffusa: è per esempio, in Europa, il ricordo delle due terribili guerre mondiali da cui l’Europa stessa è sorta; ma anche l’orgoglio per aver costruito la società più giusta che si sia finora vista nella storia. O, in America, il mito della potenza democratica che affondava le sue radici nella libertà personale, e nella capacità di crescita economica e sociale, di ciascun americano. È comprensibile che gli scandinavi abbiano paura di perdere la raffinata civiltà che hanno conquistato (il welfare, la parità uomo-donna), che gli inglesi abbiano paura di perdere la loro singolarissima costituzione, che gli americani abbiano paura di perdere il loro mito fondativo, l’etica protestante della responsabilità e dell’affermazione individuale.

Se la politica non tiene conto delle emozioni
Naturalmente, se è così, è chiaro che la causa non è l’immigrazione, ma piuttosto la globalizzazione, il terremoto degli assetti politici e culturali che questa ha prodotto. La piccole patrie non esistono più, anche se per paradosso c’è chi vorrebbe ricrearne di ancora più piccole. Tanto meno esiste più il rapporto di dominio dell’Occidente sul resto del mondo, che dava benessere e sicurezza, ma anche identità, ruolo, e di conseguenza coesione sociale. Il cittadino occidentale smarrito non si riconosce più nel suo Paese. E pensa che siano gli immigrati a portarglielo via. La mia impressione è che sia questo il problema principale, che tra l’altro consente di capire come le manifestazioni politiche prendano forme anche molto diverse, lungo tutto lo spettro sinistra-destra. Se è così, è chiaro che si tratta di un passaggio epocale molto difficile, che non può essere governato soltanto con principi generici come l’universalismo o il cosmopolitismo. La politica, come alcuni filosofi ci hanno insegnato, non è pura razionalità, ma si basa molto sulle emozioni. Come la paura, l’insicurezza, l’odio. Ci sono forze politiche che su queste emozioni prosperano. Chi voglia essere di sinistra nel difficile mondo di oggi deve evidentemente proporsi di governare queste emozioni, anzi di «sminarle». Ma per farlo bisogna anzitutto riconoscerle, comprenderne le ragioni. Dare risposte, senza cedere alla deriva populista e sovranista, ma senza rinchiudersi nella torre d’avorio di chi pensa di aver dalla sua la ragione universale. Dunque la questione dell’identità non va lasciata alla destra, ma riformulata radicalmente, partendo dal patrimonio storico della cultura europea, che è quello di una democrazia inclusiva, non difensiva, non armata verso l’esterno. E insieme capace di non evadere il compito di dare sicurezza ai suoi cittadini. Non è facile; ma questa è la sfida. Se la perderemo, perderemo anche la democrazia liberale, che non è solo il voto ma anche il sistema di diritti e di divisione dei poteri costruito nei secoli dalla civiltà occidentale. E lasceremo campo libero alle democrazie autoritarie – o «illiberali» – che, non a caso, si stanno oggi moltiplicando intorno a noi, proiettando sull’Europa, e sull’intero Occidente, un’ombra non meno minacciosa di quella che circa un secolo fa era proiettata dai fascismi.