BOB DYLAN: UNO SGUARDO LUCIDO SUL MONDO
di Enrico Fink
«Poi è arrivato Dylan e tutto è cambiato», queste le parole di Shel Shapiro per indicare la novità che le canzoni di Bob Dylan rappresentarono fin dall’inizio, perché il cantautore americano, e futuro premio Nobel per la Letteratura, vigile vedetta dallo
sguardo lucido e attento sul mondo, con le sue creazioni, ne ha saputo raccontare i controversi aspetti, lanciando contemporaneamente un messaggio capace di incidere nel profondo.
Poi arrivò Dylan e tutto cambiò
«Poi a un certo punto arrivò Bob Dylan, e tutto cambiò. Nessuno poteva più cantare semplicemente “She loves you, yeah yeah yeah”…». A parlare è Shel Shapiro, sul palco con me e l’Orchestra Multietnica di Arezzo, presentando al pubblico Blowin’ in the Wind. Quando Shel l’aveva proposta – una cover da affiancare ai suoi storici brani, da eseguire in concerto con noi, ero rimasto un poco perplesso: non avrei mai immaginato di affrontare in concerto un brano così ingombrante – e invece, eccoci a ricordare Dylan sul palco, con un inno di quella portata. Le parole di Shel sono significative: Shapiro, all’epoca in cui le parole e le note di Blowin’ in the wind cominciavano a girare per l’etere, era agli albori di una formidabile carriera in Italia con i Rokes, perfettamente in sintonia con i gusti, i desideri, le sensazioni del momento: e se la sua percezione fu che «tutto cambiò», comprendiamo qualcosa dell’impatto di Dylan nella cultura musicale giovanile degli anni 60, anche qui in Italia, nelle province dell’impero. Non che l’impegno del primo Dylan rappresentasse una novità nel panorama dei folksinger americani – ma la sua immensa popolarità, la potenza semplice ma profonda delle sue canzoni fu evidentemente tale da presentare un esempio impossibile da ignorare; un confronto imprescindibile, per chi le canzoni le scriveva e le cantava, e per chi semplicemente le ascoltava. Una simile influenza dei suoi versi sulla cultura contemporanea,
un’influenza continuata sostanzialmente ininterrotta per mezzo secolo e oltre, è probabilmente l’argomento definitivo per mettere a tacere le opinioni dissenzienti sul riconoscimento del Nobel per la poesia; ma quale sguardo ha gettato e comunicato questo poeta sul mondo? Qual è il mondo visto attraverso gli occhi di Dylan?
Va da sé che anche questa domanda, come quelle di Blowin’ in the wind, non ha una risposta, o se ce l’ha è difficile da raggiungere. Troppe e troppo diverse sono le immagini che affiorano nel fiume in piena dei suoi versi. Troppo vasto il suo viaggio infinito; infinito come il neverending tour che lo vede calcare le scene ininterrottamente dal 1988, ma un viaggio ben più antico, cominciato ancora prima della rocking reeling rolling ride nella metropolitana di una New York invasa dalla neve di Talkin’ New York (1962) in cui Dylan rivede il suo arrivo in quella che a lungo fu la «sua» città; e che non si è fermato nemmeno con i ritorni cui si allude spesso nel suo (ad oggi) ultimo album contenente materiale nuovo, Tempest (50 anni più tardi, 2012) – le luci accese nella sua terra natale («(…) the lights on my native land are glowing / I wonder if they’ll know me next time round») in Duquesne whistle, o la «Scarlet town, where I was born» (Scarlet Town, dove sono nato) dell’omonima canzone: «All things are beautiful in their time / The black and the white, the yellow
and the brown / It’s all right there in front of you in Scarlet Town» (Ogni cosa è bella a suo tempo / il nero e il bianco, il giallo e il marrone / è tutto lì di fronte a te a Scarlet Town). Dylan ha percorso le strade del mondo e del cielo, davvero tanta strada: «(… ) from Broadway to the Milky Way, that’s a lot of territory indeed» («Da Broadway alla Via Lattea, è davvero un gran territorio», da Union Sundown, in Infidels, più o meno a metà percorso, 1983).
Un affresco di enormi dimensioni
Il panorama sul mondo offerto dallo sguardo di Dylan è a volte un affresco di dimensioni enormi, «larger than life», più grande del vero. Senz’altro è così quello che emerge, tra fiamme e oscurità, in Jokerman (ancora da Infidels):
… In the smoke of the twilight on a milk-white steed
Michelangelo indeed could’ve carved out your features
Resting in the fields, far from the turbulent space
Half asleep near the stars with a small dog licking your face
… It’s a shadowy world, skies are slippery grey
A woman just gave birth to a prince today and dressed him in scarlet…
(… nel fumo del crepuscolo, su un bianco destriero
la tua figura l’avrebbe potuta scolpire Michelangelo
a riposo nei campi, lontano dal caos
mezzo assopito sotto le stelle, un cagnolino ti lecca il viso
… È un mondo in penombra, i cieli di un grigio scivoloso
oggi una donna ha dato un principe alla luce, e l’ha vestito di rosso…)
Altrove invece lo sguardo è puntiforme, la prospettiva di una miniatura: basta pensare (per restare al 1983 e all’album Infidels) all’inquietante ballata Sweetheart like you, al disegno stilizzato di un tavolo in un qualche bar, di un dialogo che lascia più domande di quanto non offra spiegazioni, fra giochi di parole e allusioni:
In order to deal in this game, got to make the queen disappear
It’s done with a flick of the wrist
What’s a sweetheart like you doing in a dump like this?
(Per dare le carte in questo gioco, devi far sparire la regina
si fa con una mossa del polso
e che ci fa una pupa come te in un postaccio come questo?)
Il «flick of the wrist» che fa sparire la regina è un gesto veloce, preciso, quasi invisibile: un’istantanea, un’immagine minima che diventa simbolo di un qualcosa di molto più ampio ma fuori fuoco, appena intuito, un panorama appena intravisto nella carta che subito svanisce. Del resto una grande lezione di storytelling che Dylan ha imparato fin da subito, e che lo distinse fin dai suoi esordi dagli altri autori di «topical songs» (canzoni dedicate a un argomento specifico, politico o sociale) che Pete Seeger pubblicava nella sua rivista «Broadside» agli inizi degli anni 60, è lo spazio lasciato all’ascoltatore/lettore per aggiungere la propria immaginazione a quella dell’autore: la capacità di maneggiare con precisione e potenza simboli, immagini evocative che nella propria voluta ambiguità lasciano aperti dei varchi che, sia pure inconsciamente, siamo noi a riempire. Si torni a vedere, è facile trovarlo su Youtube, il Dylan che nel 1964, alla sua seconda esibizione al Newport Festival, arriva sul palco introdotto da Pete Seeger e canta Mr. Tambourine Man; e se non si mastica bene l’inglese, si guardi quel video avendo studiato anche con fatica se necessario le parole di questa magica canzone che probabilmente bisognerebbe vietare di tradurre, tanto è
perfetta e delicata nella sua composizione.
Un viaggio fantasmagorico Questo è il Dylan che l’anno prima sullo stesso palco, ospite di Joan Baez ha cantato Blowin’ in the Wind; è il Dylan che il pubblico ama ormai come grande interprete di canzoni politiche. Ed è impossibile non sentirsi parte di quel pubblico seduto sull’erba, a pochi centimetri da questo ragazzo che suona e canta da solo, e che invece di imbarcarsi su di un racconto o una storia di questo mondo, ci fa imbarcare tutti, ancora oggi, in una «magic swirling ship» per un viaggio fantasmagorico, dolcissimo, stupefacente; usando parole che come caleidoscopi compongono e scompongono luci ombre e colori nella mente di chi ascolta.
…Though I know that evening’s empire has returned into sand
Vanished from my hand
Left me blindly here to stand but still not sleeping
My weariness amazes me, I’m branded on my feet
I have no one to meet
And the ancient empty street’s too dead for dreaming
Take me on a trip upon your magic swirling ship
My senses have been stripped
My hands can’t feel to grip
My toes too numb to step
Wait only for my boot heels to be wandering
I’m ready to go anywhere, I’m ready for to fade
Into my own parade
Cast your dancing spell my way, I promise to go under it
Though you might hear laughing, spinning, swinging madly across the sun
It’s not aimed at anyone
It’s just escaping on the run
And but for the sky there are no fences facing
And if you hear vague traces of skipping reels of rhyme
To your tambourine in time
It’s just a ragged clown behind
I wouldn’t pay it any mind
It’s just a shadow you’re seeing that he’s chasing
And take me disappearing through the smoke rings of my mind
Down the foggy ruins of time
Far past the frozen leaves
The haunted frightened trees
Out to the windy beach
Far from the twisted reach of crazy sorrow
Yes, to dance beneath the diamond sky
With one hand waving free
Silhouetted by the sea
Circled by the circus sands
With all memory and fate
Driven deep beneath the waves
Let me forget about today until tomorrow
Hey! Mr. Tambourine man, play a song for me
I’m not sleepy and there is no place I’m going to
Hey! Mr. Tambourine man, play a song for me
In the jingle jangle morning I’ll come following you
Obbedendo alla legge che auspicavo poco fa, neanche ci provo a tradurre questo testo; ma mi preme notare quanto sia denso di un linguaggio alto ma non elitario; quanto sia un testo ermetico e allusivo ma per niente difficile: non racconta una storia ma evoca immediatamente, in chiunque, immagini
chiarissime. Non parla di politica, appunto, come forse i ragazzi seduti sull’erba si attendevano; non parla di un topic, non ha un messaggio, non appartiene a un momento storico, ma a tutti i momenti, parla del 1964 come del 2018, riesce in qualche modo a essere canzone rivoluzionaria, un inno, quasi una canzone di protesta senza alcun riferimento esplicito.
Una vigile vedetta
Ma anche quando lo sguardo di Dylan sembra volare nel cielo, vago e indistinto, quasi lisergico come qualcuno ha ritenuto questa stessa canzone, come l’occhio azzurro di Dylan che, alla fine del celebre video di Jokerman, diventa la luna in un volto disegnato da cielo e terra, anche lassù in volo è in realtà uno sguardo mai meno che lucido e attento. Dylan sembra essere l’esatto opposto della vedetta addormentata al suo posto di guardia che compare più volte in Tempest, la canzone sul naufragio del Titanic che dà il titolo al già citato ultimo album di inediti del 2015. Una vedetta che dorme sognando il naufragio, che cerca di avvertire qualcuno ma senza risultato. Ecco, Dylan è senz’altro anche lui una sorta di vedetta, e il mondo che vede è lanciato verso un probabile naufragio come il Titanic, mentre a bordo si balla e gioca e si ama («Only a matter of time ‘til night comes steppin’ in», solo una questione di tempo prima che arrivi la notte, come diceva ancora in Jokerman); ma Dylan è una vedetta tutt’altro che dormiente. Lo sguardo di Dylan verso il mondo steso sotto di lui, aperto al suo occhio di indagatore e di raccontastorie, è più che altro lo sguardo di un profeta: questa probabilmente la matrice biblica più forte nei suoi versi. Dylan ebbe un periodo di forte fascinazione per la Bibbia, coinciso solo in parte con la parentesi cristiana; un periodo culminato nel celebre album John Wesley Harding, da lui composto per sua stessa ammissione con una Bibbia sempre aperta sul tavolo – in cui si sono ritrovate fino a sessanta citazioni esplicite del testo biblico. Ma al di là delle immagini e dei rimandi, è in generale il linguaggio di Dylan a ricordare quello dei grandi profeti del canone biblico: e lo era fin dai suoi esordi, come appare evidente nella sua celeberrima The times they are a changing scritta nel 1963:
Come gather ‘round people
Wherever you roam
And admit that the waters
Around you have grown
And accept it that soon
You’ll be drenched to the bone.
If your time to you
Is worth savin’
Then you better start swimmin’
Or you’ll sink like a stone
For the times they are a-changin’.
Come writers and critics
Who prophesize with your pen
And keep your eyes wide
The chance won’t come again
And don’t speak too soon
For the wheel’s still in spin
And there’s no tellin’ who
That it’s namin’.
For the loser now
Will be later to win
For the times they are a-changin’.
Come senators, congressmen
Please heed the call
Don’t stand in the doorway
Don’t block up the hall
For he that gets hurt
Will be he who has stalled
There’s a battle outside
And it is ragin’.
It’ll soon shake your windows
And rattle your walls
For the times they are a-changin’.
Come mothers and fathers
Throughout the land
And don’t criticize
What you can’t understand
Your sons and your daughters
Are beyond your command
Your old road is
Rapidly agin’.
Please get out of the new one
If you can’t lend your hand
For the times they are a-changin’.
The line it is drawn
The curse it is cast
The slow one now
Will later be fast
As the present now
Will later be past
The order is
Rapidly fadin’.
And the first one now
Will later be last
For the times they are a-changin’.
(Radunatevi gente, ovunque voi siate
ammettelo: le acque intorno a voi stanno salendo
e accettate che presto sarete bagnati fino alle ossa
se il vostro tempo vi vale salvarlo,
cominciate a nuotare o andrete giù come sassi
perché i tempi stanno cambiando.
Venite, scrittori e critici, che fate profezia con la penna
tenete gli occhi aperti: non avrete un’altra occasione
non parlate troppo presto, la ruota gira ancora
e non c’è modo di sapere chi sta per indicare
chi perde oggi, in futuro vincerà
perché i tempi stanno cambiando
Venite senatori, deputati, rispondete alla chiamata
non state sulla soglia, non bloccate la sala
perché a farsi del male sarà chi ha temporeggiato
c’è una battaglia che infuria la fuori,
presto farà sbattere le vostre finestre e scuoterà i vostri muri
perché i tempi stanno cambiando
Venite madri e padri da tutto il paese
e non criticate ciò che non potete capire
i vostri figli e le figlie sono fuori portata dei vostri comandi
la strada antica invecchia sempre più
per favore, toglietevi di mezzo dai nuovi, se non potete aiutare
perché i tempi stanno cambiando
È tracciato il solco, la maledizione è scagliata
chi è lento ora diventerà veloce
così come il presente diventerà passato
l’ordine rapidamente svanisce
e chi è primo ora, sarà presto ultimo
perché i tempi stanno cambiando)
Lo sguardo del profeta e quello del poeta
C’è qualcosa che rende lo sguardo del profeta diverso da quello del poeta. Ed è la tensione verso il cambiamento del mondo che si sta osservando e raccontando. Non solo dunque la narrazione del cambiamento, ma la funzione attiva, la partecipazione dei propri versi a quel cambiamento. Dylan emerge negli anni 60 da un movimento come il folk revival americano, che in qualche modo partecipa di questa doppia funzione, di descrizione e di trasformazione. Come in America è avvenuto altre volte (mi riferisco in particolare alla grande operazione di definizione dell’idea stessa di America svolta dalla nascente Hollywood, quando il grande cinema prima ancora che descrivere il «mondo americano», lo creava, lo prefigurava e plasmava di fatto un immaginario che non esisteva prima), i ricercatori del folk revival con tutta la loro attenzione alla «originalità» del suono e all’adesione alle «radici» hanno anche di fatto creato un suono, un’immagine sonora di una antica America molto più compatta, coerente e molto meglio definita di quanto non fosse quella antica America in se stessa. Dylan fu a lungo immerso in questo processo di creazione del proprio passato, arrivando a modificare il proprio nome, il proprio accento, la propria storia. Ma ben presto il suo contributo a questa ridefinizione identitaria ha valicato le frontiere, è andato oltre qualunque barriera geografica e temporale. «È arrivato Dylan, e tutto è cambiato», e come abbiamo detto all’inizio, forse per la sua immensa popolarità, per la potenza semplice dei suoi versi, forse per una qualche inspiegabile magia, Dylan raccontando il mondo l’ha cambiato, lo ha segnato con la sua visione. Ecco, lo sguardo di Dylan è uno sguardo che non solo ci fa vedere un mondo diverso attraverso i suoi occhi: ma che lo ha reso effettivamente diverso.
Ha colorato il mondo circostante in maniera indelebile. E il mondo, attraverso gli occhi di Dylan, non è più stato lo stesso.