L’EUROPA NEL TEMPO DELLE

MIGRAZIONI

di Massimo Livi Bacci (introduzione e coordinamento di Stefano Zani)

 

Il fenomeno migratorio è legato strettamente alle condizioni geopolitiche dei territori di partenza e di quelli di arrivo dei migranti e non è certo un fenomeno nuovo della storia. Uno sguardo retrospettivo può essere utile per capirne le radici lontane e per riflettere sulle forme che esso ha assunto nel tempo. Certamente, l’oggi è dominato da una visione dell’«emergenza migranti» che, innescata dalla lunga crisi economica che ha investito i paesi europei, genera paura e fenomeni di intolleranza. Governare un tale processo epocale è quindi la grande sfida che l’Europa ha di fronte e che, pur con tentennamenti e lentezze, si inizia a concepire come indispensabile.

 

La parola al demografo

Stefano Zani. Buonasera a tutti. Iniziamo questa sessione con la visione del trailer del film Sta per piovere, che molti di voi forse conosceranno – io ai miei ragazzi ne ho parlato –, del regista fiorentino Haider Rashid. Il film parla dello Ius soli, cioè del diritto dei figli dei migranti ad avere la cittadinanza. È stato presentato anche in Senato e la cosa che mi fa personalmente piacere è che il protagonista è un mio ex alunno, che saluto idealmente: Lorenzo Baglioni. [Trailer: «Buona sera, ho 26 anni, sono nato e cresciuto a Firenze e da come parlo, dal mio accento, avete capito che questa è la mia città (…) Tra quattro giorni io e la mia famiglia dobbiamo lasciare l’Italia (…) Ma quante cose dobbiamo ancora dirci, noi ragazzi della seconda generazione, italiani di seconda categoria, non italiani, che siamo di colori, religioni, idee diverse, ma siamo tutti uniti da un profondo dolore perpetrato da azioni, parole razziste (…) Mi chiamo Said Malnati, sono italiano (…)»]. Bene, spero che queste poche immagini vi invoglino  a cercare il film, a vederlo e a diffonderlo. È un film che, pur essendo stato presentato in vari festival, non ha avuto la diffusione che secondo me merita, data l’importanza del tema e della denuncia: sono circa 500.000 i ragazzi figli di immigrati, nati e cresciuti in Italia, che non hanno diritto alla cittadinanza se non condizionata da una serie di notevoli ostacoli. Il protagonista di questa prima parte della serata è il professor Massimo Livi Bacci. Il professore non ha bisogno di presentazioni se non, forse, per i più giovani: è un demografo di fama nazionale e internazionale, ha insegnato all’Università per lungo tempo, è stato anche senatore ed è autore di una serie di preziosi testi, alcuni dei quali proprio sulla problematica delle immigrazioni,  fra i quali segnalo In cammino. Breve storia delle migrazioni (2010), Storia minima della popolazione del mondo (2016) e Il pianeta stretto (2015). Le considerazioni più attinenti al tema di questa sera credo siano contenute in un suo saggio, pubblicato online in pdf e intitolato Migrazioni: vademecum di un riformista, dove si affronta il tema della regolamentazione del diritto alla migrazione, anche alla luce della sua esperienza nelle varie commissioni  di cui ha fatto parte. Lo invito quindi ad iniziare la conferenza prevista, con un suggerimento, giacché in sala è presente anche un nutrito gruppo di studenti: spiegare, facendo qualche distinzione  lessicale,  i termini con i quali oggi abbiamo a che fare quotidianamente – profughi, rifugiati, migranti -, un lessico che viene utilizzato spesso in modo confuso, ma che la pressione migratoria di questi ultimi anni ci costringe a definire. Infine aggiungo una suggestione personale: Fuocoammare è un altro bel film sull’immigrazione  a Lampedusa, che vi invito a vedere, nel quale si affronta il tema delle migrazioni  e sul quale, nell’ultimo numero di «Testimonianze», ho scritto un piccolo articolo in cui cerco di dimostrare come si tratti, a mio avviso, di un film a soggetto e non di un documentario quale si presenta a prima vista anche a un pubblico esperto. Mi sembra che esso ci solleciti su un aspetto, toccato proprio dal Vademecum di un riformista, riguardante ciò che il professore chiama «bonificare i pozzi avvelenati della politica», in quanto Fuocoammare, anche se sottotraccia, affronta il tema dei «penultimi» che vedono arrivare gli «ultimi» e, in qualche modo, rappresenta una spiegazione del perché la recente immigrazione  di massa coincida con le nuove fortune del razzismo e della xenofobia nella sua versione sciovinista e con i successi elettorali di partiti e movimenti xenofobi e razzisti, con leader che agitano la bandiera degli interessi nazionali, come si è visto anche dalle ultime elezioni in Francia, in cui Marine Le Pen ha preso, malgrado la sconfitta, il 34% dei voti. Uno dei messaggi più profondi del film è che se si lasciano da soli i penultimi ad affrontare gli ultimi, i penultimi  possono sentirsi minacciati,  e per certi aspetti possono esserlo davvero, come ci mostra anche Bauman nel suo ultimo libro intitolato  Stranieri alle porte. Da qui il risorgere delle tentazioni xenofobe e razziste. Ecco, lascio spazio all’intervento del professore, che potrà tener conto o no di queste mie suggestioni,  ma che sicuramente ci aggiornerà sull’agenda italiana relativa al tema, inserita in un contesto europeo e globale. Grazie.

 

Il contesto storico

Massimo Livi Bacci. Grazie a Stefano Zani e grazie agli amici di «Testimonianze» per l’organizzazione di questo incontro e per avermi invitato a parlare di un tema che, come sapete, ultimamente è assai «bollente». È sempre stato, in realtà, un tema bollente quello delle migrazioni, ma certamente negli ultimi anni di sconvolgimenti politici e geopolitici, ha assunto un’importanza fondamentale. Zani, nella sua presentazione, mi ha invitato a precisare anche la terminologia ad esso collegata: cercherò di farlo in maniera non pedante, anche perché non sono un esperto degli aspetti giuridici delle migrazioni. Prima però vorrei fare una breve introduzione, situando il fenomeno migratorio europeo nel contesto storico. Ricordo che, in fondo, il nostro continente – quello della geografia delle elementari, il continente europeo che va dall’Atlantico agli Urali – è stato per secoli, forse fino al contatto con il continente americano, un territorio di arrivo di flussi migratori. L’Europa si è popolata attraverso i secoli, i millenni, con ondate migratorie provenienti dall’Oriente, dal Mediterraneo,  ricevendo quindi, soprattutto,  le popolazioni  dei grandi territori che la circondano. Con l’epoca moderna l’Europa comincia, invece, ad essere tributaria del fenomeno migratorio, a partire dal contatto con le Americhe, diventando così, soprattutto, un continente di emigrazione più che di immigrazione, fenomeno questo che è durato, tutto sommato, fino alla seconda metà del secolo scorso. Fino a quel momento l’Europa ha continuato a produrre emigrazione, a popolare le Americhe e il continente oceanico, parte anche del continente africano e di quello asiatico, essendo quindi una grande «esportatrice»  di risorse umane. Dalla seconda metà del 900, inizia un ciclo nuovo e l’Europa diventa «importatrice» (scusate il termine un po’ brutale, ma il mio linguaggio sarà molto diretto, molto concreto) di risorse umane e, dagli anni 70 un continente di immigrazione. C’è un periodo, tra le due guerre, in cui l’Europa si chiude, in conseguenza della crisi del 29 e dei regimi dittatoriali che non amano l’emigrazione, benché essa faccia comodo da un punto di vista economico; poi però l’emigrazione riprende ancora, nell’immediato dopoguerra, come coda della grande ondata migratoria ottocentesca.

Grossomodo, dagli anni 60/70 in poi, l’Europa comincia a diventare veramente un continente di immigrazione: in parte a causa dei grandi imperi coloniali che si disgregano, con il conseguente ritorno degli europei che erano emigrati nelle colonie, in parte perché i cittadini dei nuovi paesi indipendenti cominciano ad affluire verso le ex potenze coloniali. Dall’Impero britannico, ad esempio, si emigra in Inghilterra: dal Pakistan, dall’India, dal Bangladesh, dalle cosiddette West Indies; in Francia si immigra dagli stati diventati indipendenti, che facevano parte del sistema coloniale francese. Ecco, questo schema può aiutarci a capire meglio il fenomeno migratorio.

 

La fragile condizione demografica dell’Europa

Quindi, l’Europa ricomincia ad attrarre immigrazione: pensate che, nel primo decennio del 2000, dal 2000 al 2010, inizio dell’esplosione della crisi che purtroppo ancora lambisce tutto il continente, l’Europa ha assorbito qualcosa come una ventina di milioni di immigrati (saldo netto tra immigrati ed emigrati), quindi un afflusso molto consistente. La sola Italia, fra il 2000 e il 2010, ha avuto una crescita netta, cioè al netto dei rientri nei paesi d’origine, in termini di immigrazione, di più di tre milioni di persone; la Spagna ancora di più, nell’ordine dei quattro milioni di persone. L’Europa è diventata di nuovo meta di immigrazione, ma naturalmente la crisi economica ha cambiato le carte in tavola e, ad esempio, la Spagna, che si era aperta all’immigrazione con una legislazione molto generosa nel primo decennio di questo secolo, dal 2011/2012 in poi ha perso parte delle persone che erano arrivate sul suo territorio, perché molti immigrati sono ritornati verso i paesi d’origine, soprattutto in Marocco e in America Latina. Questo ritorno verso la patria d’origine ha prodotto quindi un ribilanciamento. In Italia l’immigrazione è continuata nonostante la crisi economica e il saldo fra uscite ed entrate è sempre stato a favore delle entrate; nonostante la crisi, l’Italia ha continuato ad attrarre migranti. Questa trama, però, non si comprende a pieno se non si fa riferimento anche a una certa debolezza demografica dell’Europa. In Europa le nuove generazioni sono poco numerose perché la natalità è molto bassa da decenni. Ad esempio, i giovani presenti in questa sala appartengono a generazioni nate negli anni 90, quando nascevano 500/600mila bambini l’anno, mentre negli anni 60 ne nascevano quasi un milione. Si capisce bene quale sia la riduzione dei contingenti giovanili in Italia, come in gran parte dell’Europa, con poche eccezioni. Siamo in presenza, quindi, di una strutturale debolezza demografica. I paesi dell’Unione Europea hanno avuto, malgrado tutto, una crescita economica e quindi hanno attratto immigrazione, anche perché sono paesi aperti, globalizzati, dai mille contatti con tutto il mondo, con fortissimi scambi commerciali e sociali, che pertanto non possono chiudersi agli scambi di popolazione. Le attuali giovani generazioni sono abituate ai contatti internazionali anche al di là del programma Erasmus (l’unico vero grande programma europeizzante messo in atto dall’Unione europea, che ha avuto un grande successo; mi lamento solo che non gli siano state date più risorse), e considerano quindi i contatti internazionali un fatto ormai connaturato. In questa situazione di debolezza demografica, di società aperte, immerse nel flusso degli eventi internazionali, collegate economicamente, socialmente, culturalmente con gli altri paesi del mondo, la mobilità è un fenomeno strutturale.

 

Fra mobilità fisiologica e nuove emergenze

Il fenomeno relativamente nuovo per l’Europa è quello dei rifugiati, dei profughi, e qui si deve cominciare a distinguere, perché oggi si parla di migrazione mettendo insieme il fenomeno fisiologico, esistente da quando l’umanità si trova sulla terra, e le nuove emergenze. Infatti, la mobilità esiste da quando l’umanità si trova sulla terra: ci si muove per andare a cercare migliori condizioni di vita, e in genere per motivi economici, ma anche per motivi di ordine ambientale, sociale o politico. Questa è la molla dell’emigrazione fisiologica, e lo è stata fin dall’inizio dell’umanità, fin da quando siamo stati cacciatori e raccoglitori e ci si muoveva per andare in un territorio dove c’erano più risorse, oppure, nel caso dei primi agricoltori, ci si insediava in luoghi che erano più adatti all’agricoltura. La storia dell’umanità è quindi una storia di migrazioni. È tenendo presente questo sfondo che dobbiamo distinguere fra una migrazione costituita dalla mobilità normale, fisiologica, di una collettività, di una società, e i flussi migratori frutto di conflitti, di violenza, di regimi dittatoriali, perché sono fenomeni del tutto diversi. Nel secondo caso io non migro volontariamente perché spero di migliorare la mia condizione, sono costretto a emigrare perché altrimenti ci rimetto la pelle o patisco un grave danno personale o familiare. Naturalmente è molto difficile distinguere, c’è una linea continua fra chi scappa dalle bombe di Aleppo, e quindi è veramente un rifugiato, un profugo che cerca di salvarsi scappando in un altro Paese e chi emigra per migliorare le proprie condizioni di vita. Chi scappa dalle guerre è sotto l’ombrello della cosiddetta Convenzione di Ginevra, sottoscritta da tutti gli stati più o meno civili, che prevede che lo Stato terzo debba accogliere il profugo, non possa rimandarlo indietro, perché egli rischierebbe la propria incolumità, o potrebbe essere vittima di discriminazione o di persecuzione. Questo tipo di migrazione è una migrazione forzata, che nel caso europeo attuale è determinata dalla fortissima crisi geopolitica mediorientale. Se non ci fosse stata la guerra civile in Siria, non ci sarebbero stati i quattro o cinque milioni di rifugiati siriani che oggi girano per l’Europa e il Medio Oriente, la parte preponderante dei quali è in Turchia, in Libano, in Giordania, in Iraq, in Germania. Questa collettività di cinque milioni di emigrati Siriani cerca di mettere radici fuori della propria patria, o comunque di passare in sicurezza il tempo necessario prima che in Siria ritorni un simulacro di pace e di equilibrio. È possibile, allora, che una parte dei rifugiati vorrà tornare nel Paese d’origine, ancorché esso sia semidistrutto. Pertanto vanno distinte le due forme di migrazione e non vanno confuse le rispettive implicazioni. C’è da dire però che, mentre è facile distinguerle teoricamente, mettendo a un estremo il migrante che scappa perché è in pericolo la sua vita e all’altro estremo il migrante economico, nella pratica si tratta di un’operazione complessa, perché ci sono tanti gradi intermedi di necessità che determinano la migrazione ed è difficile tracciare una linea chiara di confine dicendo: «A sinistra di questa linea ti devo accogliere perché rientri nelle convenzioni internazionali, quindi sei meritevole di protezione, a destra di questa linea non sei meritevole di protezione internazionale e ti rimando al tuo paese». Evidentemente, essendoci un continuum di situazioni, questa distinzione implica un’analisi molto delicata ed estremamente difficile e ritengo che con i dovuti adattamenti concettuali, giuridici, vada comunque mantenuta.

Faccio qui due parentesi. La prima riguarda il flusso dei rifugiati: ho detto anche in altre occasioni che l’Europa ha una memoria relativamente corta, perché alla fine della Seconda Guerra mondiale ci sono stati fra i 16 e i 18 milioni di rifugiati, così classificati, che sono stati costretti a migrare dalle terre in cui vivevano verso altri paesi. C’è stato un riassetto dei confini, soprattutto in Europa orientale, che ha fatto sì che milioni di persone si dovessero spostare. L’ondata di rifugiati, fra il finire della guerra e il 1947, riguardò l’ex Unione Sovietica, la Germania, l’Ungheria, la Cecoslovacchia, parte della Romania. Ma l’Europa ha vissuto il problema dei rifugiati anche con la Guerra di Jugoslavia, agli inizi degli anni 90, quando c’è stato un altro grande momento di migrazione di massa. In quel periodo la Germania ha assorbito in un anno quasi 500mila rifugiati dalla ex Jugoslavia, molti dei quali rientrati poi nei loro territori di origine. Quello dei rifugiati non è un fenomeno nuovo, anche se la forma in cui sta avvenendo ed è avvenuto fino adesso è di dimensioni più ampie e più drammatiche di quanto non fosse negli anni 90. È pertanto necessario ricordare la storia europea del fenomeno, per far tesoro delle esperienze, delle difficoltà, delle soluzioni adottate.

 

L’Europa ha bisogno dei migranti

Il secondo aspetto da affrontare riguarda la migrazione, diciamo così, «fisiologica»: mi permetto di mantenere questa distinzione un po’ artificiosa. È abbastanza evidente che l’Europa continuerà ad avere bisogno di immigrati. Non voglio abbondare con troppi dati – anche perché bisognerebbe leggerli, non posso citare a memoria –, ma dei 40 paesi europei (sia dentro che fuori la UE, escludendo però i micropaesi come San Marino, Andorra ecc.), se le porte fossero chiuse all’immigrazione, ben 34 perderebbero popolazione di qui a una trentina d’anni, perché quasi tutta l’Europa è in declino demografico. «Pazienza – direte voi –, l’Europa ha parecchie centinaia di milioni di abitanti, se anche ne perde un 10% nel giro di trent’anni, staremo più larghi». Il problema non secondario è che questa diminuzione relativamente consistente di popolazione riguarda la popolazione giovane e adulta, ed è compensata in parte da un aumento stratosferico della popolazione anziana. Questa diminuzione si accompagna ad uno sbilanciamento fortissimo nella struttura della popolazione. Solo due dati: l’età media della popolazione del Niger è all’incirca di 16 anni, il nigerino medio ha 16 anni, l’italiano medio ne ha quasi 45 e tra trenta anni l’italiano medio ne avrà più di 50. Questo dato evidenzia chiaramente l’enorme sproporzione: Paesi come la Germania, la Spagna e l’Italia di qui a venti anni perderanno un quarto della propria popolazione attiva, il che significa un forte invecchiamento della forza lavoro, una diminuzione dei posti di lavoro e probabilmente anche una contrazione del livello di produttività, perché gli anziani sono meno produttivi dei giovani e, checché se ne dica, un settantenne, nonostante le politiche dell’invecchiamento attivo e a meno che faccia l’archivista o il cancelliere, è meno produttivo di un ventenne. Quindi, invecchiamento significa minore produttività e anche minore innovazione perché si innova quando si è giovani, non si innova quando si è vecchi: l’età media alla quale gli scienziati hanno fatto le scoperte innovative che hanno valso loro il premio Nobel, magari quaranta anni dopo, è fra i 30 e i 40 anni, è a queste età che si genera innovazione. Un Paese che invecchia molto è quindi anche un Paese che ha un minor tasso di innovazione. Insomma, un Paese come l’Italia, il più longevo del continente europeo, avrà bisogno ancora nei prossimi venti-trent’anni di flussi migratori consistenti – dico consistenti senza dare cifre, perché esse sono, diciamo così, negoziabili, dipendendo dai tipi di governo e di assetto sociale che i vari paesi si danno -, pertanto, anche governi guidati dalle Le Pen, dai Wilders o dai Salvini o da chi per loro, certamente scoprirebbero di avere bisogno dell’immigrazione. Come la accoglierebbero è un altro discorso, ma dovrebbero comunque attrezzarsi per l’arrivo di flussi consistenti di immigrazione.

 

Un fenomeno in crescita

Aggiungerei un’altra considerazione sui flussi misti, che riguarda l’Europa e soprattutto l’Italia, che è approdo (e di approdo reale si tratta giacché la maggioranza dei migranti arriva dal mare) dell’immigrazione irregolare: sugli stessi barconi arrivano insieme profughi bisognosi di protezione umanitaria, o comunque titolati ad avere la concessione dell’asilo, e giovani che certo vengono da situazioni disagiate, certo vengono da paesi poveri o poverissimi, ma che comunque non hanno titolo giuridico ad avere la protezione internazionale. Nei primi quattro mesi di quest’anno, ad esempio, sono arrivati circa 6000 nigeriani, la prima nazionalità per numero di migranti, che hanno diritto a una protezione simile all’asilo per i conflitti esistenti in quel Paese e di essi una quota notevole ha acquisito il diritto d’asilo; la seconda nazionalità più rappresentata negli arrivi dei primi quattro mesi di quest’anno è quella del Bangladesh, sono i bengalesi o come si dice ora i bangladesi, che vengono da un Paese difficilissimo, poverissimo, ma non è un Paese in cui esiste la persecuzione o non vengono riconosciuti determinati diritti fondamentali. Si tratta quindi di flussi misti. Quando queste persone arrivano in Italia (o in altri paesi europei), come si sa, ci sono delle commissioni territoriali che valutano i singoli casi. Un tempo in Italia ce n’era una sola, a Roma, perché i rifugiati erano pochissimi; oggi sono decine e decine di migliaia coloro che fanno domanda di asilo, per cui ci sono fra le 35 e le 40 commissioni territoriali e loro sezioni distaccate che esaminano le richieste di asilo o le richieste di protezione da parte dei rifugiati. Non entro qui nel merito del lavoro delle commissioni, ma è facilmente comprensibile come sia un compito estremamente difficoltoso quello di capire e di esprimere un giudizio sul destino di persone che hanno titolarità diverse, provenienze diverse, motivazioni diverse, lingue diverse, situazioni di partenza diverse, ecc.

In che modo è gestibile questo fenomeno, che è un fenomeno in crescita? Ecco un’altra cifra: la popolazione del continente africano a Sud del Sahara, che oggi ammonta a un miliardo di persone, nel giro di poco più di trent’anni, prima del 2050, raddoppierà, anzi, più che raddoppierà. Un Paese come la Nigeria, che ha centottanta milioni di abitanti, fra trent’anni ne avrà circa quattrocento, questo nell’ipotesi che nel frattempo diminuisca la natalità, e quindi il Paese non continui a crescere alla velocità attuale. La popolazione del Niger aumenta a un tasso del 4% all’anno. Una piccola operazione aritmetica dice che questo tasso di crescita implica un raddoppio della popolazione in circa 70:4, cioè 17-18 anni e questo dà l’idea di un maelstrom demografico che non può essere risolto da un’emigrazione di massa verso paesi benestanti, ricchi e sviluppati.

 

L’esternalizzazione delle frontiere

Quindi, c’è sicuramente la necessità di controllare e di governare la migrazione internazionale. Come? Qui si va per gradi. Una delle vie che ha tentato l’Italia, che ha tentato l’Europa, è quella che viene chiamata esternalizzazione dei confini: il confine italiano, ad esempio, non è più la spiaggia dell’Agrigentino, ma è spostato più in là. Come? Come stanno facendo Frontex, l’Agenzia europea, l’Italia e altri paesi, mettendo cioè una specie di cordone alle proprie acque territoriali o addirittura sul limite delle acque territoriali della Libia, dell’Egitto ecc. Questo significa spostare il confine più lontano. Oppure, come ha fatto l’Europa di fronte all’arrivo di un milione e passa di profughi siriani nel 2015, con un mega accordo con la Turchia nel quale si è detto: «Bene, voi tenetevi gli immigrati siriani e noi vi diamo un sacco di quattrini perché li possiate gestire nei campi»; una cosa che è convenuta sia all’Europa che alla Turchia dal punto di vista dello scambio finanziario, cioè dei soldi per il contenimento dell’immigrazione. Patti di questo genere presuppongono però una serie di requisiti difficili da mantenere: perché occorre assicurarsi che il rifugiato, il profugo, sia trattato in Turchia come sarebbe trattato in un paese europeo, garantendo cioè che i diritti fondamentali vengano rispettati, e non è detto che questo avvenga, anche se l’agenzia internazionale per i rifugiati cerca di operare un controllo. Le migrazioni, fenomeno internazionale, dipendono da un patto tra stati che potrebbe essere rotto in qualsiasi momento, o che potrebbe far diventare l’Europa vittima di un ricatto politico, come in parte Erdogan ha tentato di fare in certe occasioni. Questi sono patti, quindi, che possono funzionare da un punto di vista numerico e per un certo periodo di tempo, ma che non possono costituire l’asse di una politica duratura. Altro caso è quello della Libia, che non è più uno Stato, è un failed state come si usa dire, uno Stato fallito, perché esistono forse due Libie più un numero imprecisato di potentati privati, quindi è assai difficile fare un patto con tutti loro, tant’è vero che il negoziato è avvenuto con il cosiddetto Governo legittimo di Tripoli, dallo scarso potere, ma l’idea è «Tu guarda le tue coste e io in compenso, ti do una serie di benefici». Queste sono forme di esternalizzazione dei confini: il nostro confine non è controllato più dalle guardie di frontiera italiane, ma da quelle turche, o da quelle libiche o da quelle del Niger, con cui, ad esempio, c’è un accordo per cui quel Paese dovrebbe controllare la porta di passaggio più transitata fra l’Africa occidentale e la Libia, sbarrando la strada ai migranti in cambio ad aiuti allo sviluppo.

 

Politiche a più ampio respiro

Si tratta però, certamente, di una politica col fiato corto, che può essere sostituita solo con politiche di aiuto reciprocamente contrattate, rivolte al lungo periodo. Strada questa che l’Europa sta tentando molto timidamente. Ci sono un sacco di sigle di programmi che si muovono in tal senso: si parla ad esempio di GAM (Global Approach to Migration), che propone una cornice teorica, l’dea cioè che la migrazione non si governa con misure legislative, amministrative, ecc., ma deve essere inquadrata in piani di sviluppo organici; c’è poi il Migration Compact, cioè accordi con i paesi di provenienza dei migranti che prevedono, fra l’altro, l’obbligo di riprendere il migrante irregolare nel caso in cui venga espulso dal Paese di approdo. Se infatti il Paese di origine non lo rivuole indietro, non è più possibile espellerlo, lo stesso avviene se non ha un nome o una identità certa. Questi compact, o accordi, prevedono la riammissione in cambio del rafforzamento delle strutture per il controllo delle frontiere, di soldi, di investimenti, della concessione di quote di flussi legali. Sono cioè contenitori nei quali il Paese di origine e quello di destinazione mettono una serie di elementi che fanno sì che si possano esercitare maggiori controlli o avere uno stimolo allo sviluppo in modo che la pressione migratoria possa diminuire. Tutto questo va costruito e si costruisce molto lentamente nel tempo, produce i suoi effetti a lungo termine, non può avere effetti immediati, perché le cause remote, profonde della pressione migratoria sono soprattutto di ordine economico e sociale. Finché la molla dello sviluppo non verrà attivata, la pressione migratoria continuerà a restare alta. I soldi messi in campo dall’Unione europea sono relativamente pochi: negli ultimi documenti si stima un ammontare da mobilitare, fra contributi diretti del budget europeo, eventuali contributi di istituzioni private raccolti in vario modo, intorno agli 80/90miliardi di Euro. Se si confronta questo stanziamento con il famoso Piano Marshal che aiutò a rimettere in piedi l’Europa distrutta dalla Seconda Guerra mondiale, con il quale gli Stati Uniti finanziavano l’Europa con l’1,4% del proprio PIL per quattro anni, questa somma, fatti i dovuti calcoli di equivalenza, corrisponderebbe a circa una quindicina di volte le somme promesse dall’Europa, il che fa capire che la somma prevista dall’Unione europea per lo sviluppo dei paesi africani è inadeguata. Però questa è l’unica soluzione di lungo termine per far sì che la pressione migratoria abbia una fisiologica riduzione, ma va in qualche modo imboccata insieme ad un’altra strada: l’abbassamento del tasso di crescita demografica nei paesi d’origine. Se, infatti, la crescita continuerà ad essere del 3 o del 4% annuale, si creeranno generazioni «esplosive», masse di giovani disoccupati che non trovando lavoro in patria espatrieranno, alimentando così la pressione migratoria. Molti paesi africani ne sono convinti sulla carta e hanno creato programmi importanti di pianificazione familiare, salute materna, controllo delle nascite, autonomia delle donne, alimentazione e istruzione dei bambini, pacchetti informativi per convincere le coppie a modificare i loro comportamenti o a rendere convenienti nuovi comportamenti di minore fecondità, ma questi progetti restano spesso solo sulla carta, sono ben scritti, si leggono nei convegni internazionali, ma poi, per incapacità o non volontà politica, non gli si dà seguito. Quindi, occorrono delle politiche a sostegno. Certi paesi hanno intrapreso strade diverse, uno è l’Etiopia, l’altro è l’Uganda, dove politiche sociali orientate al controllo delle nascite sono in atto e cominciano a funzionare. Si tratta di orientare e convincere i paesi che ancora non sono su questa strada che quello demografico è un aspetto che occorre controllare. Ricordiamoci che alcuni paesi subsahariani non hanno intrapreso la lotta all’AIDS perché non hanno voluto ammettere che l’AIDS è una malattia dalle caratteristiche che conosciamo. Questo ci fa capire come le classi politiche siano particolarmente lente nell’affrontare i problemi.

 

Governare il fenomeno

Stefano Zani: Vi faccio notare come il professor Livi Bacci, in pochi e significativi passaggi ci abbia già in qualche modo indicato come il problema possa trasformarsi anche in un’opportunità. Noi ora siamo presi dalla paura del fenomeno migratorio, che consideriamo come un pericolo, ma il professore ha accennato al fatto che una popolazione non può chiudersi in se stessa perché, come avviene nei paesi sviluppati, rischia  il calo demografico  e la crisi economica. Todorov si chiede: «La storia di un qualsiasi paese può essere qualcosa di diverso dalla somma di tutte le influenze che in ordine di tempo quel paese ha subito?» e risponde «Se esistesse veramente un popolo deciso a rifiutare ogni cambiamento, che altro dimostrerebbe questa sua volontà se non una smisurata pulsione di morte?», quindi chi si chiude muore, questo è un primo elemento. Un secondo elemento, come recita anche una bellissima poesia di Kavafis Aspettando i barbari, è che noi, alla fine, abbiamo bisogno di questa gente, proprio per definire e ridefinire noi stessi. Inoltre, tornando a Fuocoammare, il titolo si rifà a una canzoncina  fatta dai siciliani durante la Seconda Guerra per indicare l’arrivo sulle coste siciliane delle truppe inglesi, dei nemici, che poi si sono rivelati dei liberatori. Allora, secondo me, il film effettua questo passaggio simbolico: i migranti vengono visti come un problema, come un rischio, che certamente c’è, ma potrebbero anche rivelarsi  dei liberatori. Se noi riuscissimo, come paradigma mentale, a inquadrare le cose in maniera storica e a saperle governare oculatamente e nel lungo periodo, noi arriveremmo alle conclusioni  cui era giunto Ernesto Balducci: alla fine i barbari sono la nostra speranza. Occorre quindi un grosso cambio di paradigma. È una sfida importante che richiede energie, risorse, ma in quest’ottica bisogna assolutamente mettersi. Massimo Livi Bacci. Alcune integrazioni a quanto detto in precedenza. Spesso lascia perplessi l’affermazione che c’è bisogno dell’immigrazione  per colmare il vuoto demografico. Si obietta che, se questo fosse vero, dovrebbe implicare la presenza di posti di lavoro non occupati dall’attuale popolazione, quando invece c’è una forte disoccupazione, che è soprattutto giovanile. Quindi come va visto il rapporto fra offerta e domanda di lavoro nei paesi di accoglienza  dell’immigrazione? Se consideriamo l’emigrazione otto/novecentesca  verso le Americhe vediamo che non si trattava di paesi in crisi demografica nel senso attuale, erano però paesi che avevano bisogno di braccia, avevano una forte domanda di persone, erano popolazioni che sentivano il bisogno di essere integrate da apporti di immigrati. Quindi, la domanda che ci si pone è senz’altro corretta: perché mai dovremmo avere immigrazione se abbiamo un’alta disoccupazione e soprattutto un’alta disoccupazione giovanile? Le considerazioni che ho fatto pocanzi sulla necessità degli apporti migratori non sono considerazioni sull’oggi, sono considerazioni sul lungo periodo e partono dal presupposto che, una volta riassorbita la crisi che dura ormai da oltre 8 anni e ritornato un moderato livello di sviluppo, questo certamente richiederà apporti migratori. Quindi la mia analisi è sul medio lungo periodo, passata la crisi attuale. Ho detto anche che durante la crisi l’immigrazione regolare, non quella irregolare, tutto sommato è continuata ad aumentare in Italia e ciò perché si deve considerare un’altra questione, quella del dualismo del mercato del lavoro, che ha radici politiche e sociali antiche, per cui molte attività non sono appetite o ricercate fra gli autoctoni. Il settore delle costruzioni, ad esempio, è un settore dominato dalle popolazioni immigrate, rumeni e albanesi soprattutto, e il commercio ambulante è prevalentemente marocchino. Per quel che riguarda le badanti, c’è un’insufficienza dello stato sociale che fa sì che la domanda di servizio familiare sia molto alta. Abbiamo un mercato del lavoro segmentato, che non è una cosa buona, ma questa segmentazione continuerà ad esserci e continuerà ad attirare immigrati. C’è poi la questione del governo dell’immigrazione e della gestione delle paure che essa suscita. Certamente l’immigrazione genera diffidenza, genera paura, e una delle politiche che sicuramente andrebbero seguite è quella di investire sulle comunità che arrivano, che significa investire sul loro capitale umano, cioè lingua, conoscenza, conoscenza del Paese, perché non restino pesci fuor d’acqua, ma possano essere rapidamente istruiti e rapidamente funzionare in una società diversa e molto spesso più complessa. Questo è difficile ma occorre cercare di farlo, occorre investire su questo aspetto che certamente costa denaro. Ma non basta, bisogna anche investire sulle comunità che ricevono. Magari in maniera embrionale lo si sta cercando di fare oggi con la politica dell’accoglienza diffusa, cioè non concentrando i rifugiati in un posto solo ma disseminandoli sul territorio. Questa politica prevede incentivi ai comuni e questi incentivi possono essere aiuti agli investimenti, alle infrastrutture, al sistema formativo, ecc. in modo che anche la comunità locale si senta partecipe dell’integrazione. Questa è una politica da perseguire, bisogna lavorare per fare in modo che chi riceve l’immigrazione non sia messo solo nella condizione di subire, come dimostra il tema delicato dei paesi del cosiddetto gruppo di Visegrad (Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca e Slovacchia), paesi che si sono dichiarati contrari alla disposizione del Consiglio europeo di prendere una quota di rifugiati, perché questi non siano lasciati tutti all’Italia, alla Grecia, a Malta, che sono i paesi più esposti. Questa ricollocazione degli immigrati imposta dall’Unione europea non ha funzionato, occorre trovare delle modalità diverse che non siano, come si suole dire top-down, ma che in qualche modo guadagnino l’accettazione dal basso. Tutte cose molto difficili, come si è visto anche per le opere pubbliche, che quando sono imposte dall’alto non vengono accettate dalle popolazioni, come è il caso della TAV.

Ricordiamoci però che ci sono esempi virtuosi di integrazione. Ad esempio quelli della forza lavoro agricola nei paesi europei mediterranei. Fra i contadini dei paesi mediterranei, sta aumentando fortemente la proporzione di stranieri, quindi è già in atto un fenomeno di integrazione nel mondo del lavoro agricolo degli stranieri e questo riflette anche una domanda di popolamento di aree che sono in declino demografico o a rischio desertificazione, in cui un insediamento può avere delle ricadute economiche e ambientali molto positive. Si può quindi pensare a programmi mirati per gruppi di immigrati che potrebbero restaurare casali abbandonati, riprendere terre incolte e rimetterle in uso, ma sono programmi difficili da realizzare e dovrebbero essere sperimentali, dovrebbero essere ben finanziati e ben gestiti. Sono programmi difficili, che non possano essere fatti dall’oggi al domani e non possono risolvere l’urgenza di assorbire centinaia di migliaia di persone, però certamente sono vie da seguire e, siccome l’immigrazione è un fenomeno di lunga durata e anche i conflitti durano per molto tempo, oramai bisogna attrezzarsi per cercare nuove vie per risolvere il problema. Non c’è una via sola, c’è una grande complessità da gestire con l’impegno del sistema pubblico come di quello privato. Grazie

Stefano Zani: Benissimo, ringraziamo il professor Massimo Livi Bacci e lasciamo posto alla prossima sessione che ha per tema Una e molteplice, l’Europa della complessità, ha per relatore Mauro Ceruti ed è coordinata da Roberto Mosi.