«C’È UN’EUROPA CHE NOI AMIAMO»: LA VISIONE DI ERNESTO BALDUCCI

di Vittoria Franco, Leila El Houssi, Mauro Ceruti, Severino Saccardi (Tavola rotonda coordinata da Piero Meucci)

 

A conclusione del Convegno, la tavola rotonda riprende e sintetizza i temi trattati, rilevando gli elementi che rendono ancora oggi di grande attualità l’espressione usata da padre Balducci nel lontano 1991, che rimanda a due diverse realtà: l’Europa che noi amiamo e l’Europa che noi non amiamo. Da allora, pur nelle enormi contraddizioni in cui l’Unione europea si dibatte, alcuni passi in avanti sono stati fatti, soprattutto nell’ambito del rispetto e delle politiche dei diritti, il terreno che lo stesso Balducci riconosceva come precipuo del pensiero europeo. Resta ancora molta strada da fare per quanto riguarda il rapporto dell’Europa con gli altri popoli ed in risposta alle nuove sfide alle quali essa è ora sottoposta: le migrazioni, il terrorismo, le disuguaglianze, l’inclusione dei «nuovi europei». Sfide che possono essere affrontate con uno sguardo positivo rivolto al futuro solo avendo a mente la lezione del passato.

 

L’Europa che amiamo è quella dei diritti

Piero Meucci. Buona sera a tutti. Il mio compito è quello di coordinare questa tavola rotonda dal tema C’è un’Europa che noi amiamo, la visione di Ernesto Balducci. Ne parleremo con Vittoria Franco, filosofa dell’Università di Pisa, Leila El Houssi, docente di Storia degli stati islamici all’Università  di Padova, Mauro Ceruti, filosofo e scrittore, che avete appena ascoltato e Severino Saccardi, direttore di

«Testimonianze»  e organizzatore di questo interessantissimo Convegno, che parlerà per ultimo. Do la parola per prima a Vittoria Franco perché, anche alla luce di quello che è successo in questi giorni in Francia, ci dica verso quale strada potrebbe andare, ora, l’Europa.

Vittoria Franco. Grazie, Piero. Mi dai una responsabilità troppo grande. Vorrei partire dall’efficacissimo artificio retorico creato da padre Balducci con il discorso del 1991 sull’Europa «che noi amiamo» e l’Europa «che noi non amiamo», per sostenere che esso può essere utilizzato ancora, anche se bisognerebbe declinarlo diversamente. L’Europa che non amiamo è quella che abbiamo visto all’opera negli ultimi anni, ed è l’Europa dell’austerità, l’Europa che impone ai Paesi membri una sorta di gabbia con il pareggio di bilancio, pena l’impossibilità di accedere alle risorse europee; che rende difficile la crescita senza investimenti e politiche per la coesione sociale (e l’Italia ne sa qualcosa).

L’Europa che noi non amiamo, e che purtroppo tende a espandersi, è quella dei respingimenti dei migranti, quella che pianta fili spinati e costruisce muri. Noi europei ci siamo liberati dei muri nel 1989 e dopo meno di 20 anni i muri ritornano, più minacciosi direi, per tenere fuori dai confini – in questo caso i confini ci sono, lo dico a Mauro Ceruti – coloro che bussano alle nostre porte cercando rifugio: non soltanto lavoro o sicurezza economica, ma la salvezza. Sono coloro che chiedono asilo per fuggire dalle persecuzioni e dalle guerre, come diceva poco fa il professor Livi Bacci. Flussi migratori enormi, di milioni di persone che non possono non avere un impatto significativo sull’Unione europea. L’«altro» di cui parlava Balducci oggi lo abbiamo dentro l’Europa, non dobbiamo andarlo a cercare in paesi lontani. E questo cambia la fisonomia dell’Europa.

Voglio però spendere una parola a favore dell’Europa e credo che la vittoria di Emmanuel Macron, domenica, in Francia, sia molto significativa e molto positiva perché riapre, per riprendere il discorso del professor Ceruti, la possibilità di tornare a sognare un’Europa di crescita, un’Europa della cultura, della coesione sociale, un’Europa della libertà, un’Europa dei diritti. Emmanuel Macron ha parlato di audacia e io credo che egli sia stato audace a fare una campagna centrata sull’appartenenza europea e che la sua audacia sia stata premiata.

Voglio fare alcuni esempi, per far capire perché l’Europa conviene e perché bisognerebbe rafforzarla. Si tratta di atti che al tempo in cui Balducci parlava non erano ancora stati approvati o di realtà che non esistevano ancora.

Nel 2000, ad esempio, è stata approvata la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, che poi è stata assunta a Lisbona nel 2007. Questa Carta si compone di 54 articoli molto belli che tutti dovrebbero conoscere. I primi 50 riguardano sei valori fondamentali, che sono i valori fondativi dell’Europa: dignità della persona umana, libertà, uguaglianza, solidarietà, cittadinanza, giustizia.

Altro elemento importante è quello che riguarda un’esperienza appena iniziata al tempo del discorso di Balducci: abbiamo celebrato quest’anno i 30 anni dei programmi Erasmus e i giovani che sono qui senz’altro lo sanno; nei giorni scorsi anche a Firenze si sono svolte manifestazioni e iniziative molto importanti. Sono programmi che contribuiscono a creare la cittadinanze europea, incidendo proprio sul terreno della cultura, nella vita vissuta dei giovani. Sono oltre 3 milioni e mezzo gli studenti che si sono avvalsi di questa possibilità, il 10% dei quali sono italiani, e che quindi hanno potuto scoprire altri paesi, studiare le lingue straniere, conoscere il mondo, imparare la cultura della tolleranza, di cui anche qui si è parlato, e anche, spesso, innamorarsi e construire famiglie fuori dall’Italia. Si è creato, anche attraverso la loro esperienza, un intreccio di identità, di culture direi, sviluppando in questi giovani una diversa forma mentis, più ampia, più multilingue, più aperta, più internazionale. Ecco, anche questo fa parte dell’esperienza dell’Europa. Si è creata, cioè, negli anni, una nuova generazione che ha l’Europa come orizzonte, che «ama l’Europa», per riprendere la formula di padre Balducci.

Altro punto: le politiche europee hanno costituito strumenti di crescita per tutti i paesi, in molti ambiti. Penso di nuovo ai giovani, all’istruzione, al reinserimento nel mercato del lavoro. Politiche che, per me, che mi sono occupata a lungo di questi temi, sono state importanti per creare le condizioni per un’apertura alla parità fra uomini e donne, con il superamento della cultura patriarcale, fortemente radicata nel nostro Paese. L’Europa ha contribuito molto all’apertura di questo nuovo orizzonte, che viene definito «democrazia paritaria» e che ha come perno l’empowerment femminile, il riconoscimento dell’autorevolezza delle donne, del loro ruolo nella società e non solo nella famiglia, nel lavoro, nelle professioni, nel discorso pubblico, nella politica. Un cambiamento che si comincia a riscontrare anche nel linguaggio, che si diffonde sempre più nel discorso pubblico, che riguarda anche le leggi, dimostrando che siamo entrati nel cambiamento effettivo delle regole. Pensiamo alla legge elettorale: oggi le leggi non possono non prevedere la possibilità di esprimere due preferenze e, nel caso, una deve essere data a un candidato di sesso diverso dal precedente, contribuendo così ad aumentare il numero delle donne nelle istituzioni elettive.

Nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, inoltre, l’art. 23 è dedicato proprio alla parità tra uomini e donne, parità che deve essere «assicurata» in tutti gli ambiti. L’uso di questo termine, «assicurata», è un progresso anche rispetto alle varie costituzioni dei singoli Paesi. Grazie alle azioni che le istituzioni europee hanno messo in atto per promuovere l’empowerment femminile, siamo passati da una fase in cui la molla delle politiche di pari opportunità era la debolezza delle donne a una fase nella quale le donne sono considerate una risorsa per un mondo più giusto. Un ultimo accenno all’Europa dei diritti, che ci piace. Sicuramente ci piace (sono andata a leggermi il rapporto 2017 dell’Osservatorio per il rispetto dei diritti fondamentali in Europa che me ne ha dato conferma) che, nonostante tutte le difficoltà in cui l’Europa si dibatte, questa rimane ancora una delle regioni del mondo in cui la giurisdizione è impegnata a garantire i diritti fondamentali delle persone. Nel rapporto citato vengono richiamate quasi tutte le sentenze delle varie corti, sia europee che nazionali, e mi ha sorpresa proprio il richiamo della Corte europea – ma anche, per esempio in Italia, di alcuni tribunali e della Corte costituzionale – al valore della dignità, che è messa in cima alla Carta dei diritti: il diritto all’autodeterminazione  nelle scelte che riguardano la propria esistenza e l’esortazione ai paesi membri che ancora non l’hanno fatto – sono pochissimi e l’Italia è fra questi – a dotarsi di una legge sul fine vita, il testamento biologico (il Parlamento italiano finalmente ne sta discutendo, ma siamo ancora, appunto, a livello di discussione); il rispetto della dignità femminile e la condanna della violenza sulle donne; il rispetto della vita privata e familiare, per esempio le sentenze sulla filiazione, sul riconoscimento dei diritti dei figli nati nelle coppie omosessuali, oppure attraverso la cosiddetta maternità surrogata, la stepchild adoption. L’Europa ha preso posizione su tutti questi diritti, richiamando i paesi membri a rispettarli.

Direi quindi che il passaggio, e con questo concludo, dall’Europa della sola moneta all’Europa dei diritti sia stato compiuto e possiamo parlare ora dell’Europa – e qui mi piace riprendere un’affermazione di Stefano Rodotà – come del «più grande spazio transnazionale dei diritti». Credo però che occorra ancora compiere il passaggio dall’Europa del bilancio, che si occupa solo di economia, all’Europa sociale. Questo sarà il grande passo, la nuova sfida che l’Europa dovrà affrontare. Grazie.

 

Un ponte sul Mediterraneo

Piero Meucci. Grazie Vittoria.  Come vedete ci sono molti solidi motivi per amare questa Europa, pur con tutte le sue contraddizioni, con tutte le sue ambivalenze, di cui parlava poc’anzi il professor Ceruti. Un altro aspetto è il rapporto dell’Europa con i suoi vicini, con gli altri, che abbiamo visto essere stato, nel passato, come diceva anche padre Balducci, improntato più a volontà di potenza, di dominio, di sfruttamento che a un vero e proprio rapporto di rispetto della dignità e dei diritti degli altri popoli.

La professoressa Leila El Houssi, che ha un padre tunisino e una madre italiana, è una studiosa con un’identità a cavallo, diciamo, delle due sponde dl Mediterraneo. Si occupa della storia dei popoli islamici e quindi può darci un punto di vista più diretto rispetto a quello che sta succedendo in quell’area del mondo, e che si manifesta anche con i flussi migratori che arrivano in Italia.

Leila El Houssi. Grazie. Grazie dell’invito soprattutto a Severino Saccardi e agli organizzatori del Convegno. Parlerò principalmente di due aspetti: del tema dell’Europa in rapporto al Mediterraneo e di una realtà che a me sta molto a cuore, quella dei giovani di seconda e terza generazione.

Rifacendomi anche al filmato che abbiamo visto prima sul discorso di Ernesto Balducci all’Arena di Verona e alla sua efficace espressione, arrivo al tema di questa serata, l’Europa che noi amiamo e l’Europa che non amiamo. Personalmente l’Europa che amo è l’Europa dell’inclusione e l’Europa che non amo è quella dell’esclusione, e devo dire che negli ultimi tempi, purtroppo, l’Europa dell’esclusione emerge sempre di più, anche attraverso istanze istituzionali. Ci sono, infatti, alcuni paesi, come diceva Vittoria Franco, che mi ha preceduto, che tendono all’esclusione con la creazione di muri che a volte non sono, come dire, tangibili, ma sono muri sociali, e sono quelli che si stanno sempre di più erigendo. D’altra parte, abbiamo anche una società civile che è sempre più impaurita, a causa di accadimenti internazionali che hanno toccato il territorio dell’Europa. Non possiamo certamente nascondere che, quando abbiamo visto gli attentati terroristici che hanno colpito città a noi molto vicine come Parigi o Bruxelles, ci siamo preoccupati.

Questa preoccupazione però, indubbiamente, può sfociare in qualcosa di diverso, il timore può diventare anche rabbia e può degenerare in altri episodi di violenza. E tutto questo è, in qualche modo, legato all’esclusione e anche al razzismo. Su questo terreno c’è molto da fare, molto da lavorare. Parto da questo fatto perché sicuramente, da alcuni anni, i paesi della nostra riva Sud del Mediterraneo (dai quali ci separano solo pochi chilometri; se ci pensiamo, io lo dico sempre, Roma e Tunisi sono le due capitali più vicine; Roma è molto più vicina a Tunisi che a Parigi o Bruxelles, sia geograficamente che culturalmente) hanno espresso, alcuni anni fa, una loro dimensione attraverso quelle che vengono chiamate le «rivoluzioni» o «rivolte». Questi paesi, sicuramente, sono cambiati completamente, c’è stata una trasformazione totale, una frattura rispetto all’epoca precedente, dal 2011, in Tunisia, in Egitto e poi anche in Libia. Sappiamo benissimo che anche i paesi che non hanno subito le cosiddette rivolte arabe, le hanno comunque sentite. Per esempio la stessa Algeria che non le ha vissute direttamente, le ha comunque percepite; e nel Marocco ci sono stati dei cambiamenti. Quindi, questi paesi hanno chiaramente dimostrato che avevano bisogno di instaurare un cammino verso la democrazia, e devo dire che rispetto a questo processo l’Europa è stata abbastanza ambigua. Un’Europa che ha osservato, ha applaudito queste rivolte, ma di fatto, nel momento della costruzione della nazione – perché di questo si tratta,visto che questi paesi all’indomani delle rivolte entravano in una fase complessa qual è quella della costruzione della loro nazione – è stata latitante. Penso al caso che a me è molto caro, la Tunisia, l’unico Paese che in questo momento può rappresentare un’eccezione nel panorama delle realtà in cui si sono verificate le rivolte. È infatti il Paese che nel 2011ha dato inizio alla rivolta e che dopo alcuni mesi ha avuto le prime elezioni democratiche, ha mandato al potere un partito con una maggioranza relativa di ispirazione islamica che ha governato con due partiti laici; dopo due anni ha redatto una costituzione che viene detta e così viene definita dai giuristi, «la più bella costituzione del Mediterraneo», perché ha inserito all’interno alcuni articoli legati all’uguaglianza di genere, alla libertà di coscienza. Un aspetto apprezzabile, da non dare certo per scontato per il partito in quel momento al potere, che era un partito di ispirazione islamica, che ha ottenuto la maggioranza relativa. Dopo tre anni ci sono state altre elezioni e in queste elezioni ha vinto un altro partito, più laico, sempre con una maggioranza relativa, dando vita ad una alternanza democratica. Quindi, come vedete, la Tunisia sta faticosamente cercando di costruire una democrazia e non è facile in un Paese dove, dal 1956 – anno dell’indipendenza dalla Francia – al 2011 ha avuto due presidenti, uno che è durato in carica circa 30 anni e l’altro che ha governato 24 anni.

In pochi anni, quindi, la Tunisia sta duramente lavorando, perché ha subito destabilizzazioni importanti per mano di attentati terroristici drammatici come quello che c’è stato Museo del Bardo, dove sono stati coinvolti anche degli italiani. Il Museo del Bardo, sia detto per inciso, è un Museo bellissimo in cui ci sono, tra le altre cose, dei mosaici meravigliosi di età romana ed è un simbolo molto interessante della transculturalità mediterranea. Questo Paese quindi sta lavorando tantissimo, nonostante queste destabilizzazioni, con grande forza. L’Europa, devo dire, da un punto di vista anche economico e di cooperazione fatica ad aiutarlo, mentre dovrebbe sostenere un Paese come questo, che potrebbe costituire il cuore del Mediterraneo, rappresentando una sorta di luce per i paesi vicini; una considerazione che bisognerebbe tener presente, perché è evidente che se salta il Mediterraneo salta tutto. La situazione è oggi tutt’altro che semplice. Infatti, sappiamo perfettamente che abbiamo un Egitto che vive in questo momento una dimensione complessa, con un regime pesante; abbiamo una Libia che ha una difficoltà incredibile nella costruzione, appunto, della nazione, perché ci sono attori differenti che interagiscono tra di loro e siamo ritornati alla divisione storica all’interno del Paese perché la Libia come la conosciamo oggi è, sostanzialmente, un’invenzione del colonialismo italiano. Abbiamo un’Algeria dove, quasi nessuno lo sa, due giorni fa ci sono state le elezioni con una scarsissima affluenza alle urne, con una percentuale pari al 24%-25%. In questo quadro abbiamo un Marocco che è intento a guardare sempre più a Sud, verso l’Unione africana, piuttosto che a Nord verso l’Europa. Poi, se ci spostiamo più ad Est, abbiamo la drammatica questione siriana e di tutto il Medio Oriente. Occorre quindi sottolineare che c’è fermento in questo mare Mediterraneo, che dovrebbe rappresentare un elemento comune per tutti i paesi che vi si affacciano. In realtà il Mediterraneo diventa invece una barriera, un muro per quanto riguarda ad esempio la questione della migrazione, della quale è stato parlato diffusamente in precedenza. Si è generata una situazione calda, complessa, che molti sembrano non vedere e che in questo momento colpisce soprattutto l’Italia. L’altro giorno ero a un convegno con Oliver Roy il quale, quando gli è stata posta una domanda sulla Francia, sulle elezioni e sulla questione migratoria, ha detto: «Noi non abbiamo un problema di migrazione, abbiamo una questione di rapporti con la terza generazione, non una questione migratoria, è l’Italia che ha una questione migratoria». È vero, e anche in questo l’Europa si differenzia al suo interno, abbiamo diverse realtà. Sicuramente l’Italia ha una questione migratoria importante e, lo sappiamo benissimo, forse l’Europa non fornisce una spinta adeguata per aiutarla a confrontarsi con questo tema. Oggi abbiamo una questione migratoria, ma domani avre- mo, e cominciamo già ad averla, una que- stione di seconde e terze generazioni. Noi siamo all’inizio della seconda generazio- ne. A volte sorrido perché, quando faccio lezione, comincio a vedere nella mia clas- se alcuni ragazzi che, come me, hanno genitori che provengono da altre realtà, chi ha il padre o la madre che viene dal Marocco, dalla Tunisia, dall’Algeria ecc., e sono molto giovani, vedi che sono an- cora all’inizio di un percorso, che parla- no meglio il dialetto veneto che la propria lingua di origine, che non conoscono, co- me è normale. Insomma, comincia ad es- serci anche in Italia, come in Francia, una seconda generazione; però, dal punto di vista legislativo, siamo ancora indietro, molto indietro, molti non hanno la citta- dinanza e questo ci rimanda alla legge sulla cittadinanza che si trascina da tanto tempo; ora, finalmente, se ne parla. La leg- ge dovrebbe essere in discussione in Se- nato, ma ancora di fatto non c’è. C’è quin- di questa seconda generazione che inve- ce diventa una realtà sempre più presen- te e la politica sembra non accorgersene. Ma attenzione, non facciamo gli errori che ha fatto la Francia, in nome magari della laicità. La Francia è alla terza generazio- ne, una terza generazione che spesso è dimenticata nelle banlieue, una terza ge- nerazione che non è rispettata, che ricer- ca una sua identità e che non la trova, non la vede. Noi dobbiamo cercare in Italia di far sì che queste seconde generazioni sia- no incluse. Dobbiamo lavorare politica- mente affinché ci sia una politica di inclusione, perché abbiamo bisogno di que- ste persone, perché queste persone saran- no metaforicamente e realmente dei pon- ti verso le altre culture. Saranno loro il ve- ro ponte, il ponte verso il Mediterraneo, il ponte verso il Nord Africa e il Medio Oriente, un ponte, di cui abbiamo biso- gno perché siamo in un mondo sempre più connesso. Per questo dico che l’Euro- pa che amiamo deve essere quella del- l’inclusione e mi auguro che questa sia possibile. Grazie.

 

L’idea balducciana della necesitá della pace

 

Piero Meucci. Grazie Leila, hai messo be- ne in evidenza la differenza, nell’attuale situazione, fra il fenomeno migratorio in Italia, che affronta questa dimensione per la prima volta, e la situazione francese, dove siamo alla terza generazione, dove il terrorismo prolifera nelle banlieue più colpite dall’esclusione, dove i giovani non hanno un futuro, dove, appunto, essi si la- sciano manipolare dalla propaganda dei social dominati dall’Isis e dai fondamen- talisti islamici. Proprio su questo punto volevo riportare il professor Ceruti nel suo intervento: la creazione di una società plu- rale, chiamiamola così, multiculturale ma nel senso più ampio, è un qualcosa che potrà avvenire nel futuro, e se ne vedono le premesse attraverso quello che sta suc- cedendo?

Mauro Ceruti. Voglio partire subito dalla tua domanda per esprimere e sottolinea- re solo una idea: è l’idea che mi ha fatto incontrare con padre Ernesto Balducci, è l’idea che ha messo in moto tutto il pen- siero e tutta l’azione dello stesso Ernesto Balducci, di cui stiamo parlando oggi. Il suo daimon era il tema della pace. Nel- l’età planetaria, nell’età dell’arma nu- cleare, per Ernesto Balducci il tema della pace si inscrive non solo nell’ordine dei valori morali, ma anche nell’ordine delle condizioni necessarie per la sopravviven- za dell’umanità. È intorno a questa idea della «necessità» della pace che ruota il cambiamento radicale di paradigma che Balducci sente ineludibile per garantire la sopravvivenza dell’Europa e la sopravvi- venza dell’umanità stessa. La sua idea era «cambiare o perire»: o cambia il modo di pensare, il modo di agire o l’umanità muo- re. Ernesto osservava: «Gli uomini del fu- turo o saranno uomini di pace o non sa- ranno», nel senso che non ci sarà più l’u- manità.

Per quale ragione? Facendo questa do- manda, mi rivolgo soprattutto ai ragazzi qui presenti. Il punto di partenza della no- stra riflessione deve essere il 1945. Come finisce la guerra nel 1945? Finisce a Hi- roshima con l’utilizzo, per la prima volta, dell’arma nucleare, della bomba atomica. Bomba atomica peraltro figlia della più straordinaria grande avventura intellettua- le, scientifica, che sia accaduta nell’Euro- pa moderna. A proposito di ambivalen- za… Generata da un gruppo di geni che, negli anni venti e trenta del 900, hanno scoperto che l’atomo non è atomo, cioè non è indivisibile. Era insomma la fisica delle particelle elementari, da cui, per una eterogenesi dei fini non prevista neanche dagli scienziati che l’hanno messa in can- tiere, è nata questa mostruosa arma che costituisce un radicale punto di disconti- nuità nella storia umana. Una novità la cui portata dirompente è stata largamen- te rimossa, proprio per il suo carattere spa- ventoso e per la inedita responsabilità che affida all’uomo. Perché è un punto di svol- ta radicale? Una delle differenze che di solito si introducono per distinguere l’in- dividuo umano dall’individuo animale, anche dagli individui animali più evoluti, quelli che noi riteniamo più evoluti e an- che più simili a noi, qual è? È la capacità di suicidio dell’individuo umano. Ciò che ci caratterizza è la possibilità di esprime- re la volontà di morire – e non solo nei casi estremi, come è il caso dell’eutana- sia quando non è più vivibile la vita – e quindi il fatto che in alcuni momenti del- la vita individuale si cerca di trovare mo- tivazioni, culture, formae mentis, per dire sì alla vita. Nel 1945, la bomba atomica introduce una discontinuità nella storia della specie umana perché Homo sapiens diventa, improvvisamente, una «specie» capace di suicidio. L’esplosione atomica di Hiroshima nel 1945 è stata la campa- na d’allarme di una possibilità fino ad al- lora inconcepibile: la possibilità che l’a- zione umana potesse precipitare nell’an- nientamento globale. Questa possibilità trasformava alla radice la condizione uma- na, dilatando l’orizzonte della responsa- bilità fino a coinvolgere il futuro della stes- sa sopravvivenza dell’umanità nel suo in- sieme. La minaccia nucleare produceva tuttavia un fatto nuovo: la comunità di de- stino dell’umanità intera. Ora, le strategia più straordinarie sperimentate nella storia umana sono tutte variazioni sul tema dei giochi a somma zero: vinco io, perdi tu; vinci tu perdo io. Questa è l’economia, questa è la politica. Dopo la bomba ato- mica questo non è più possibile, cioè non è più possibile giocare fino alle estreme conseguenze il gioco, a somma zero, del- la guerra. La prossima guerra mondiale, giocata fino alle estreme conseguenze, sarà la prima guerra che non avrà né vin- citori né vinti, ma solo vinti. Tutti i popo- li della terra sono ormai avvinghiati in un destino comune, vivere o perire; da qui na- sce l’esigenza di introdurre nell’evoluzio- ne della cultura umana una discontinuità di paradigma. Dai giochi a somma zero a giochi a somma positiva: vinco io, vinci tu. L’idea di comunità di destino peraltro è l’idea su cui si è fondata la rinascita del- la nostra Europa, quella che ha raccontato bene la professoressa Franco. L’Europa del dopo 1945, l’Europa della CECA, era nata proprio dalla consapevolezza che bi- sognava capovolgere il paradigma che ave- va guidato la storia d’Europa degli ultimi secoli, che l’aveva dilaniata. Alla base del- l’Unione Europea sta infatti l’idea di co- munità di destino, un destino comune di tutte le nazioni dell’Europa. Ma questa è anche la condizione dell’umanità plane- taria. Mi piace ricordare nuovamente Er- nesto Balducci. Prima lo citavo così: «Gli uomini del futuro saranno uomini di pa- ce o non saranno», cioè l’umanità «deve» uscire dall’età della guerra. E domandavo: perché deve uscire dall’età della guerra?

«Perché per la prima volta – scriveva pa- dre Ernesto – nella storia umana, proprio nel pericolo sono riunite le condizioni di un superamento della storia fatta di guer- ra, perché le potenze di morte, le armi nu- cleari si sono rafforzate tanto da rendere possibile il suicidio dell’umanità».

 

Coltivare il senso della storia

 

Piero Meucci. Grazie al prof. Ceruti, dia- mo ora la parola a Severino Saccardi per le conclusioni.

Severino Saccardi. Io devo molti ringra- ziamenti; al Muse (il Museo di Palazzo Vecchio), proprietario di queste belle sa- le che ci ospitano, a Europe Direct, che è una istituzione del Comune di Firenze che si occupa dell’Europa con cui abbiamo organizzato il Convegno, a tutti quelli che hanno lavorato perché questo nostro in- contro potesse avvenire, a tutti i relatori per le cose interessanti che hanno detto e a tut- ti voi che avete seguito in così gran numero e con così significativa attenzione; un par- ticolarissimo «grazie» anche ai ragazzi presenti, che spero non si siano annoiati troppo e abbiano udito riflessioni, che spe- ro stimolino dentro di loro la voglia di approfondire il senso delle cose che qui ab- biamo cercato di affrontare. Per avere l’i- dea del futuro bisogna coltivare se stessi la memoria e la ricerca del senso della storia; va capito da dove veniamo per ca- pire dove andiamo. Mauro Ceruti ha sa- puto riproporci da par suo il fondamenta- le tema dell’ambivalenza e della com- plessità della storia, che va tenuto presente anche in relazione alla prospettiva che, in questo nostro tempo, abbiamo di fronte. Oggi è un giorno particolare, che va ri- cordato anche se poco se ne è parlato: è il 9 maggio e, in questa data, 39 anni fa, se ho fatto bene il calcolo, fu ucciso il pre- sidente Moro, che era stato rapito dalle Brigate rosse. Il terrorismo è stato parte della nostra storia, anche se oggi non ne abbiamo più memoria: ci furono tante per- sone «gambizzate», ferite, uccise. Una emergenza che avevamo superato e che oggi riemerge su scala globale. Il tema del- l’emergenza, dunque, non è superato. Anzi. Oggi, dobbiamo affrontare la questio- ne del fondamentalismo, che è una mi- naccia per la convivenza e la democrazia. Il pericolo non è tanto rappresentato dal fondamentalismo come idea o posizione politica. Finché esso rimane un’idea poli- tica, lo si può combattere e lo si può bat- tere. L’islamismo, cui qui viene fatto rife- rimento, chiaramente non inteso come re- ligione ma come declinazione politica e uso politico di un’identità religiosa, si esprime, per così dire, in varie gradazio- ni, delle quali l’estremismo armato è solo quella più radicale. Finché si ha a che fa- re con una filiazione politica dell’idea isla- mista (che però non pratichi la violenza), il confronto è con una realtà che si può controllare, si può battere e si può, poli- ticamente, abbattere. L’islam è in realtà molti islam e anche l’islamismo politico ha una varietà di espressioni di cui sarebbe opportuno tener conto anche, e soprat- tutto, in relazione ai problemi della convivenza in un’Europa che è ormai ampia- mente avviata a divenire, sempre più, mul- tietnica e multiculturale.

Siamo dentro, quindi, a una storia e ad un cammino umano che sono fatti di con- traddizioni, ambivalenze, e complessità, come Ernesto Balducci, che è stato il fon- datore della nostra rivista, aveva ben pre- sente. C’è una rappresentazione che, se- condo una ricostruzione semplificata po- trebbe sembrare esaustiva del pensiero di Balducci: quella della prima parte del fil- mato del suo discorso all’Arena di Vero- na del 1992; è un Balducci, in un certo senso, molto «tipico», che in manera co- sì veemente critica l’Europa e l’Occiden- te. In alcune rappresentazioni riduttive del suo modo di vedere le cose, egli è rap- presentato, infatti, come un pensatore an- ti-occidentale. In realtà, Ernesto Balducci è un critico feroce di tanti aspetti della storia dell’Occidente, anche in nome del- la migliore eredità del pensiero occiden- tale. Certo, in una proiezione ideale ed in una autorappresentazione della sua me- desima identità egli amava dire: «Io mi considero un uomo del Sud del mondo»; considerava centrale il problema della di- visione che esiste, nel mondo, fra svilup- po e sottosviluppo, e quando cadde il Mu- ro di Berlino, nel 1989 (un evento di cui pure egli sottolineò l’importanza epocale, nel riferimento a quei movimenti dell’Eu- ropa centro-orientale, con fiumane di per- sone in piazza, mettendo in atto rivolu- zioni «neogandhiane», pacifiche, che vo- levano cambiare in senso democratico il volto del nostro continente, in tutta la sua estensione), Balducci ebbe a dire, con pa- role che qui cito a memoria: «Bene, è un passaggio importante: ora però va abbat- tuto il Muro maestro, quello della divisio- ne tra Nord e Sud del mondo». Questo è un tema che ancora rimane, ma da que- sta critica dell’eurocentrismo, cioè di un’Europa che aveva percepito se stessa fino ad un certo punto come padrona del mondo, Balducci non ha mai fatto deri- vare, né tanto meno lo ha mai fatto «Te- stimonianze», l’idea che non ci si doves- se occupare della identità europea: anzi, a maggior ragione, il tema della identità europea ci riguarda, ci concerne da vici- no. È una questione che non si può ri- muovere, tanto è vero che l’«antiocci- dentale» (espressione che uso fra molte virgolette) Ernesto Balducci volle anima- re e fu protagonista nei convegni Se vuoi la pace prepara la pace, di molti dibattiti sull’Europa, inclusi alcuni incontri espres- samente dedicati al tema Europa che io ri- cordo bene, come l’Europa dall’Atlantico agli Urali e due iniziative, dei primi anni Novanta, che si intitolavano, per l’appun- to, Colloqui  Europei. Oggi si torna a di- scutere di confini e giustamente Mario Ce- ruti diceva che l’Europa non è una di- mensione che si delinea con i confini, è un insieme di culture, i cui confini inter- ni sono labili. Comunque, adesso parlare dell’Europa dall’Atlantico agli Urali – an- che se c’è di mezzo la «questione Rus- sia», che naturalmente non è cosa da po- co – non rimanda ad una dimensione ir- reale o impensabile. Tutt’altro. Ma quan- do se ne parlava negli anni Ottanta, era in piedi il Muro a Berlino, una spaccatura, simbolica e reale, fisica, ideologica, poli- tica, militare nel cuore del cuore dell’Eu- ropa. Eppure l’idea era quella di andare verso l’unità di tutti questi popoli, verso l’Europa come «casa comune» delle di- versità. E allora, se noi consideriamo do- ve eravamo allora e dove ci troviamo og- gi, come diceva Vittoria Franco, non sono pochi i passi che abbiamo fatto. Popoli che si erano ferocemente combattuti in guerre con milioni di morti, distruzioni, lacerazioni anche morali oltre che mate- riali, odi e risentimenti profondi, pregiu- dizi che rimanevano nel tempo, bene o male, nel secondo dopoguerra, a partire dai sei paesi che hanno iniziato il cam- mino verso l’unità europea, siamo di fron- te ad un cambiamento enorme, e positi- vo, di scenario. Poi, con l’allargamento dell’Unione, che ha comportato, certo, dei problemi, certo, delle contraddizioni, cer- to, delle disuguaglianze fra i paesi del con- tinente, ecc., si è arrivati a questa idea am- pia d’Europa, a questa inclusione di tan- te realtà nuove e diverse, che ci danno la misura di quanto il processo di integra- zione europea sia comunque andato avanti; e questo io credo che vada pie- namente sottolineato. È anche il senso di questo nostro appuntamento, in cui si è parlato di Europa a partire da diverse ot- tiche; quella della storia, della poesia e della letteratura, dell’economia, della de- mografia, dell’immigrazione. Questo è quello che è ragionevolmente possibile constatare: molto è stato fatto, ma molto rimane da fare. È vero quello che diceva Piero Meucci: le elezioni in Francia, da questo punto di vista, rappresentano un cambiamento, e una svolta importante. Sembrava, infatti, come le immagini che abbiamo qui proiettato suggeriscono che, fino a un certo punto, la via della lacera- zione del tessuto comune fosse ormai vin- cente. C’è stata recentemente la Brexit, questo strappo drastico, espressione di una insofferenza, che si basa anche su una rappresentazione della scena politi- ca in un modo inusuale, che sembra fondarsi non più sulla contrapposizione fra destra e sinistra, ma fra alto e basso, tra élite e popolo: una insofferenza che sem- brava difficile affrontare e ricondurre a lo- giche più meditate e «razionali». A tutto questo, oggi, sembra essere stato messo un punto, anche se certamente non una stabile barriera. Ma sarebbe sbagliato, co- me tanti commentatori hanno sottolinea- to, pensare o dare l’idea che ora tutto è risolto. Questa sarebbe un atteggiamento capace di condurre ad esiti catastrofici. L’Europa ha problemi non piccoli, è evi- dente: ha il problema della gestione del- la questione democrafica, dalla lonta- nanza delle istituzioni dai cittadini e dai popoli, della insufficienza della dimen- sione della rappresentanza, delle man- chevolezze della politica, dell’assenza di una politica estera comune ecc. Questi so- no i passaggi da fare: un’Europa più di qualità, un’Europa più vicina ai popoli, un’Europa che si decida ad esistere come soggetto politico. È l’idea che ci voglia non meno Europa ma più Europa, sia pu- re gestita, impostata e pensata in una ma- niera magari diversa, che ci ha spinto a formulare questo progetto di Convegno, per discutere di queste grandi questioni con voi. Con questo concludo queste po- che riflessioni e ringrazio dell’attenzione, di tutto quello che è stato detto e invito ai prossimi appuntamenti di «Testimonianze».