«BEPO IL ROSSO»: UNA VITA DI FEDE E DI POESIA
di Marco Roncalli
Voce profetica del «secolo breve», ben saldo nella grande tradizione della Chiesa, che pure guardò con occhio critico e dalla quale ricevette gioie e dolori, e attento scrutatore dell’orizzonte del mondo, Turoldo fu uno spirito libero, dotato di grande fede e capace di esprimersi in un raffinato e potente linguaggio poetico. Nel suo lungo peregrinare non abbandonò mai il sentimento della carità (da anteporre a leggi e compromessi) e l’amore per le Scritture (antidoto al veleno del potere e dell’egoismo), invitando sempre alla pazienza dell’amore.
Chiudo gli occhi e lo rivedo
«Subito muore il rumore dei passi / come sordi rintocchi: / segni di vita o di morte? / Non è tutto un vivere e insieme / un morire? Ciò che più conta / non è questo, non è questo: / conta solo che siamo eterni, che dureremo, che sopravvivremo». Così, David Maria Turoldo, in alcuni versi dei suoi Canti ultimi. Chiudo gli occhi e rivedo padre David nelle situazioni più diverse. Nel suo studio, all’ombra dell’abbazia di Sant’Egidio in Fontanella, a Sotto il Monte, davanti a me giovanissimo cronista alle prime interviste e latore di bozze per conto di don Antonio Tarzia alla guida delle Paoline poi diventate San Paolo, o dell’ex segretario di papa Giovanni XXIII, monsignor Loris Capovilla, futuro cardinale centenario allora ancora a Loreto, «vescovo dei pellegrini» dopo la dura esperienza in Abruzzo. Chiudo gli occhi e lo risento mentre la domenica pomeriggio tuona nell’omelia durante la Messa con la sua voce forte nella familiare chiesa di Fontanella, davanti a compaesani e tanta gente «di fuori». Chiudo gli occhi e lo rivedo a colloquio con amici come Nazareno Fabbretti o Marco Garzonio per citare i primi due venuti alla mente, o gli ospiti «venuti da lontano» lassù, in quello che da ragazzo capii essere un «porto franco per i cercatori di Dio». Quando il Concilio andava messo in pratica e l’attenzione era puntata sull’America Latina (la terra dei Cardenal, Romero, Menchù…) e c’era l’Italia delle comunità di base. Quando si avviava la presidenza USA di Ronald Reagan, seguita da Bush padre, e i futuri leader del partito democratico di casa nostra non disdegnavano simboli come la falce e il martello. Chiudo gli occhi e mi capita persino di rivedermelo accanto, seduto, davanti ad un grande specchio: quello di Pierino, il barbiere del paese vicino, senza scordarmi le sue mani enormi che – diceva Lillo Santucci – erano «le sue ali mancate». Le mani che, altra immagine, teneva dietro la schiena, passeggiando fuori dalla casa di «Emmaus», o dopo aver congedato gli amici venuti a trovarlo sulla «sua» collina. Quelli dei quali avvertiva la nostalgia, non appena – dopo i saluti – sentiva il rumore delle auto allontanarsi: «(…) E tornerete domani e dopodomani / a rapirmi altre gocce di gioia / con fatica aggrumata / nella mia arnia d’inverno / Tale il mio sacerdozio; / pur felice / che torniate, amici. / Ciò non segna importanza alcuna / purché torniate / e domani e dopodomani, / o amici».
Sono già passati venticinque anni
Sono già passati venticinque anni dall’addio di padre David, e cento dalla nascita dell’uomo che, come sintetizzava Carlo Bo, aveva avuto da Dio due doni «la fede e la poesia», e ne aveva fatto il suo ponte con l’Assoluto. Venticinque anni da un congedo alla fine di una dolorosa Via Crucis iniziata nell’88, dopo la conferma di un cancro («Ieri all’ora nona mi dissero: / Il Drago è certo, insediato nel centro / del ventre come un re sul suo trono »), e un congedo con migliaia di persone assiepate la mattina dell’8 febbraio, a Milano, a San Carlo Corso, per i funerali celebrati dal cardinal Martini, poi, nel pomeriggio, stipate alla messa funebre nella sua abbazia e subito dopo nel piccolo cimitero di Fontanella. E cent’anni dal quel 22 novembre 1916, quando nacque in una famiglia povera a Coderno, frazione di Sedegliano – in quel Friuli sempre rimasto baricentro esistenziale: via Caterina Percot 7/1, questo il posto della sua «prima finestra sul mondo» là dove oggi le stanze della sua famiglia – recuperate nella struttura originaria – sono diventate un centro culturale per studiare il pensiero turoldiano. Da qui, dalle radici, si dovrebbe partire – come in ogni biografia – per ripercorrere quella parabola umana e spirituale che, dopo aver attraversato il 900, vide l’ultima tappa a Sotto il Monte, il paese natale di Angelo Giuseppe Roncalli.
E da qui, dalle origini, parte anche quella che è forse la prima biografia turoldiana documentata in libreria da pochi mesi. Ne è autrice Mariangela Maraviglia che con David Maria Turoldo La vita, la testimonianza. 1916-1992, ha ricomposto, inseguendone i passi e sostando in una profluvie di intersezioni, le tappe di un itinerario umano e spirituale, sullo sfondo di importanti vicende ecclesiali, sociali e culturali. Così la vita di «Bepo il rosso» (Turoldo all’anagrafe civile fu registrato come Giuseppe, e il rosso era… quello del colore dei capelli), poi del servita e del poeta, dell’intellettuale e del salmista, si dipana in queste pagine come un gomitolo. Dall’infanzia al mistero di una vocazione approdata a tredici anni nell’Ordine dei Servi di Maria. Dalla formazione nei conventi del Veneto sino a quello di San Carlo nella Milano di Schuster, dove giunse il 12 luglio 41 insieme al confratello Camillo De Piaz per studiare alla Cattolica di Gemelli (si laureò l’11 novembre 46 sentendosi offrire subito un posto come assistente sia da Gustavo Bontadini – in Filosofia teoretica a Milano, sia da Carlo Bo – in Letteratura a Urbino). Dalla partecipazione alla resistenza non armata (per lui una «rivolta morale»), finendo talora braccato dai fascisti dopo le sue prediche in Duomo (tenute per un decennio, sino al 53), impegnandosi nel periodico clandestino «L’Uomo», fondato nel settembre 43 (a testimoniare già dal titolo la sua scelta dell’umano contro il disumano, perché «La realizzazione della propria umanità: questo è il solo scopo della vita»), sino al viaggio che gli avrebbe svelato l’indicibile realtà dei lager (da Dachau a Flossenbürg…, con i cadaveri insepolti, i sopravvissuti, i viali coperti dalla «sabbia dolente » delle ceneri dei morti).
«Fatelo girare, purché non coaguli»
Poi, tra vita conventuale e fuori dal chiostro, poesia e liturgia – altrettanto intense – si susseguono le tappe successive: dal dopoguerra sino all’inizio degli anni 60, le tappe già indagate da Daniela Saresella nel suo David M. Turoldo, Camillo de Piaz e la Corsia dei Servi di Milano (1943-1963) 3. Quella della Corsia dei Servi, della vitale stagione fiorentina, e – subito dopo l’incontro con don Zeno Saltini nel 48 – quella dell’avventura di Nomadelfia, il villaggio «con la fraternità come unica legge » aperto nell’ex campo di concentramento di Fossoli per accogliervi gli orfani di guerra. Poi, dopo diversi addii forzati, ecco Davide in movimento tra l’Austria e la Baviera, l’Inghilterra e gli Usa e il Canada. Ed eccolo ritornare in Italia (passando dal convento della Santissima Annunziata della Firenze lapiriana, a quello di Santa Maria delle Grazie, a Udine, dove iniziò a frequentare Pier Paolo Pasolini). Quindi l’approdo finale a Sotto il Monte, in provincia di Bergamo, dove Turoldo aveva deciso di trasferirsi già il giorno della morte di Giovanni XXIII – 3 giugno 63 – «(…) per camminare sulle sue stesse strade e guardare da questi spazi il mondo» e dove sarebbe rimasto per quasi trent’anni, continuando a propugnare un cristianesimo vissuto come ansia di comprensione dei problemi del mondo e a pensare ai cristiani come a dei «resistenti», trasformando il concetto di resistenza – del resto ben sperimentata – quasi in un valore («Una categoria dello Spirito: una nota necessaria per definirci cristiani»). Vi si stabilì con la benedizione del vescovo di Bergamo Gaddi (che gli chiese solo di …non fare dell’abbazia «una valle dei miracoli », né d’impiantarvi «una distilleria»). Avrebbe invece trasformato quel luogo in una cittadella di pace, continuando a dar concretezza – anche con un Centro di studi ecumenici e la Casa editrice Servitium – alle aspirazioni conciliari, alla volontà di rinascita religiosa e civile, alla recezione delle sfide dei movimenti sociali degli anni 60 e 70. Fra delusioni e disincantamenti, fra le speranze di una generazione desiderosa di giustizia e di pace in uno sguardo dilatato sul mondo, ma pure attento alle vicende italiane, e all’applicazione del Vaticano II. Senza dimenticare, dato conto del declinare dei sogni egualitari sotto il fuoco delle Brigate rosse e delle stagioni del «riflusso nel privato», l’inesausta vena poetica di David ispirato cantore dei Salmi, alle prese con il suo dialogo tra Dio e l’uomo, fitto di rimandi al Grande Codice, la Bibbia. Impossibile qui dar conto dei tanti libri, interventi, interviste, meditazioni dettate, dei molteplici generi comunicativi da lui usati e parte del suo modo di testimoniare. Come pure dei tanti personaggi incrociati lungo una vita piena: La Pira, Milani, Vannucci, Bo, Santucci, Dossetti, Lazzati, Mazzolari, Balducci, Gozzini, Barsotti…, e poi Capovilla, Bianchi, La Valle, Pasolini, Cardenal, la Menchu, Ravasi (fra i primi a ca120 pire quanto Turoldo avvertisse il «(…) dramma dell’uomo che si tormenta per le strade della storia, e il dramma di Dio che si pone accanto alla sua creatura più cara»), Martini (che consegnandogli il Premio Lazzati pochi mesi prima della morte affermò riferendosi a lui che «La Chiesa riconosce la profezia troppo tardi»). Tutti interlocutori di un uomo che credeva nel rinnovamento della Chiesa attraverso il ritorno alla radicalità evangelica, un «rivoluzionario tradizionalista», come dicevano i suoi giovani confratelli, consumatosi in un «dilapidarsi, senza risparmio». Un cammino («Tutta la vita è un cammino, tutta la creazione è un cammino», diceva) segnato da un’ansia di libertà; costellato di incontri e scontri e vissuto in modi diversi. Come coscienza critica verso colpe omissioni, del passato e del presente. Come consapevolezza di uno stesso destino dentro un mondo senza barriere. Come obbligato pellegrinaggio fitto di interventi di carattere religioso e sociale. Un fiume di idee, pronunce, gesti che via via hanno trovato consenso e dissenso, dentro il mondo ecclesiale e fuori. E se è pur vero che restano ancora inaccessibili i documenti del Sant’Uffizio, è facile ritenere verosimile la nota consegna girata dal Sant’Uffizio ai suoi superiori prima della scelta di Sotto il Monte: «Fatelo girare, perché non coaguli».
«Così oscillo fra pietà e furore»
Forse la verità è che, molto spesso, a Turoldo fu chiesto più che di obbedire, di andare proprio contro i suoi desideri, anzi di cancellarli ignorando che anche i suoi desideri altro non erano che uno scommettere sull’andare oltre, sull’autotrascendersi. E gli fu chiesto senza trasparenza: «Riesco a credere, anche a perdonare, ad amare, ad accettare il diluvio di obbedienze assurde che mi piovono sulle spalle, ma le ragioni, le ragioni non dette, sospettate soltanto, sono avvilenti. Si può andare sulla montagna, a pregare, ma non si può accettare la vigliaccheria e l’equivoco. (…). Niente Firenze, niente Milano, forse domani niente altre città. (…). Tutto mi sarebbe permesso, ma allineato con il “cristianesimo potente”», così il 15 novembre 1960 Davide a Mario Gozzini. Eppure la Chiesa e il suo Ordine furono sempre vissuti da Turoldo come case dalle quali era impensabile l’idea di uscire. Sono molti i frammenti epistolari dove si ritrova, pur tra difficoltà, l’intensa convinzione della sua appartenenza ecclesiale. «Così oscillo tra pietà e furore»: con queste parole a metà del 1971 Turoldo confessava all’amico Abramo Levi il suo tormento, specchio di quello di tanti laici e sacerdoti che gli chiedevano consigli e discernimento. Andrà aggiunta poi – una volta per tutte – almeno una spiegazione del carattere inquieto di Davide. Lo facciamo con alcune frasi spigolate da una lettera datata 7 aprile 1975 e indirizzata ad un prete bergamasco: «È per amore verso la chiesa che mi comporto come mi comporto. Anch’io sono straziato di vederla così malservita (pure da me alle volte!). No, non può essere che il concilio sia venuto invano; non può essere che papa Giovanni non abbia significato niente; che i poveri non ci credano più; che molti, moltissimi giovani se ne siano andati: che ci sia più gente “fuori” che dentro che si batte per l’uomo». Pur radicato in una prospettiva trascendente non perdeva occasione per interventi pratici sulla giustizia, i diritti, la pace, le riforme per la Chiesa. Senza dimenticare il Cile, il Vietnam, la Bolivia, il Nicaragua, il Sudafrica, la politica, i disoccupati, gli ultimi. Diceva Turoldo: «Per me la chiesa è ogni uomo, è tutta l’umanità nella misura in cui si apre alla parola di Dio, al Cristo che si fa carne, che cioè diventa storia di salvezza nel mondo». E Michele Ranchetti, ricordando la sua figura «vibrante e serena e persuasa» persino negli ultimi anni, quelli della lotta ultima con il «drago» (cioè il tumore al pancreas), non a caso invitava a «(…) riconoscere nella sua vita una estrema coerenza »: la coerenza di un uomo che aveva «sempre e solo perseguito il bene». Un uomo «(…) con una voce dolorosa e violenta e due occhi pieni di fatica indistruttibile » (così padre Nazareno Fabbretti) per il quale la poesia era «rifare il mondo». Voce profetica nel secolo breve, i piedi ben saldi sulla grande tradizione della Chiesa (non le tradizioni, tantomeno quelle anacronistiche), e gli occhi spalancati sull’orizzonte del mondo, Turoldo – sì, uno spirito libero, libero per essere fedele allo Spirito e infedele alla lettera – sovvertì più volte – facendo discutere – l’ordine di alcuni valori, ma mai abbandonò lungo tutta la sua vita, l’amore per la carità (da anteporre a leggi e compromessi) e l’amore per le Scritture (antidoto al veleno del potere e dell’egoismo), invitando anche alla pazienza dell’amore: «Amatevi e fate quello che volete. Ma amatevi sul serio. Anzi, fate tutto quello che volete, purché non facciate nulla per egoismo. Infatti è il nonamore il vero peccato del mondo. (…). Possiamo solo aiutarci, nell’amore». Che dire poi della intuizione sulla povertà come benedizione e condizione di libertà, anzi della sua visione della povertà, capace di racchiudersi – così nel suo libro Profezia della povertà – persino nel possibile segno del «bianco mistero della grazia e dell’amore divino»? E del suo credo nella libertà sempre additata alle coscienze? A saper leggere – come ha spiegato bene Maria Cristina Bartolomei anni fa introducendo una nuova antologia, Educare alla libertà umana e cristiana Turoldo infatti ha scritto anche testi rilevanti per la formazione di coscienze libere e responsabili: percorsi che nulla hanno che a che fare con i falsi moralismi e passano anche attraverso il dubbio: «Guai se la via della fede non passasse attraverso il dubbio, sarebbe una fede disumana. Pascal dice che “bisogna avere il coraggio di dubitare”, allora la fede diventa personale. Fin ora avevi una fede “imparata”, d’ora in avanti o avrai una fede “vissuta” o non ti salvi più: il regno di Dio non si eredita, ma si rapisce».
David Turoldo e Lorenzo Milani: un’amicizia lunga una vita
Scrivo queste piccole note stilate di getto mentre i giornali parlano di don Milani per l’uscita del Meridiano mondadoriano e mentre si avvicina il primo anniversario della morte – il 26 maggio – del cardinale Loris Capovilla. Due amici di padre David molto diversi. Il primo conosciuto fin dall’arrivo di Turoldo a Firenze, mentre don Lorenzo era ancora a Calenzano, attraverso la mediazione di Meucci: un’amicizia, sia pure a distanza, durata una vita, costellata di momenti importanti come la collaborazione alla revisione di Esperienze pastorali, che padre David avrebbe voluto pubblicare con le edizioni Corsia dei servi. Progetto fallito perché l’arcivescovo di Milano Montini non se la sentì di dare l’imprimatur («Padre, tempi difficili corrono. Tempi in cui non basta neppure la prudenza, ma bisogna diventi anche astuzia», così il futuro Paolo VI). Anche grazie alle lettere fatte conoscere di recente da Michele Gesualdi sappiamo quanto basta per definire il loro rapporto autentico in cui nessuno dei due immaginò mai di ridurre l’altro alla propria misura, fino alla libertà di «urlare insieme là dove non eravamo d’accordo», avrebbe ricordato Turoldo. Sappiamo che a proposito di Esperienze pastorali, Turoldo consigliò Milani di far leggere il sui lavoro a Pignedoli «È una persona molto aperta (…), degli eventuali suoi consigli potrebbero riuscire profondamente utili. Credo che ne valga la pena. Fammi sapere qualcosa. Con affetto. Tuo P. David». Così il 28 maggio 1956 Turoldo scriveva a don Milani che considerava il servita «L’unica persona che conosca davvero il mio libro». «Caro Lorenzo. Mi piace molto che il tuo libro possa essere letto in anteprima da Pignedoli-Montini o Mons. D’Avack . (…) Va meno bene che a Pignedoli lo presenti P. David. Quando questi fu a Milano ebbe delle noie (…). Ma forse io esagero nelle paure, per il troppo affetto che ho per te. Del resto io ho tanta stima per P. David». Così il 4 giugno 56 don Raffaele Bensi, il padre spirituale, con il quale don Lorenzo si era aperto già prima di entrare in seminario. Nel libro in questione – Esperienze pastorali – con una libertà di linguaggio inusitata e preveggente, Milani non scriveva solo di fede e sacramenti ma anche di emarginazione e miseria, case e lavoro, non tacendo responsabilità politiche ed ecclesiali. E, com’è noto, pubblicato nel 58 – con tanto di nihil obstat del revisore ecclesiastico, padre Reginaldo Santilli, di imprimatur del cardinale di Firenze Dalla Costa e prefazione dell’arcivescovo di Camerino D’Avack – pochi mesi dopo fu ritirato dal commercio, perché dichiarato «inopportuno» dal Sant’Uffizio, oltre che stroncato dalla «Civiltà cattolica», premessa di duri commenti compreso quello dell’allora patriarca di Venezia Roncalli, che si era fidato del recensore. Era l’1 ottobre 58. Il 28 di quel mese Roncalli veniva eletto papa e il provvedimento contro il libro fu emanato all’avvio del pontificato. Il 19 dicembre 58, l’arcivescovo coadiutore di Firenze Ermenegildo Florit (che da dieci mesi aveva ricevuto tutti i poteri mentre Dalla Costa si ritirava nel silenzio), avvertiva Milani di aver già avvisato l’editore e chiedendogli di obbedire. Un anno dopo inizia invece la corrispondenza di Milani con il segretario del papa, monsignor Loris Capovilla, che via via si fa specchio della sofferenza di don Lorenzo per non essere stato capito dalla sua Chiesa, incapace di accogliere l’abbraccio dei poveri da lui ricevuto, come ora confermano tutte le lettere recuperate.
Lo scambio epistolare fra David Turoldo e Loris Capovilla
E a proposito di lettere ritrovate, arrivano in questi giorni in libreria quelle di Turoldo con Capovilla (e viceversa). Le ho curate come gesto d’affetto insieme ad un amico poeta, Antonio Donadio, con la collaborazione di padre Espedito d’Agostini che ne custodisce gli originali nel prezioso «Fondo Turoldo». Una corrispondenza non meno interessante di altre questa fra due coetanei dai diversi percorsi, ma accomunati dall’aver scommesso la loro vita sul Vangelo – ciascuno a modo suo e con diverso ruolo – al servizio della Chiesa, partecipi delle vicende della società e attenti ai bisogni degli «ultimi». Due uomini che hanno attraversato il 900, accomunati nel loro credo, nell’aver capito la «svolta» del Vaticano II e l’indicazione giovannea dei «segni dei tempi», uniti nel loro amore per la Parola, ma anche la poesia, la cultura, qualcosa di non secondario nel loro sacerdozio. Due uomini diversi – ma nemmeno troppo – che hanno conosciuto presto insieme alla passione per l’annuncio, una sensibilità autentica nelle modalità per portarlo agli uomini del loro tempo – in larga parte anche nostro – e per testimoniare la loro quotidiana esperienza di cristianesimo, incarnandola nel «secolo breve». Per chi non lo ricordasse, Capovilla, nato a Pontelongo, in provincia di Padova nel 1915, amico di Mazzolari già nel dopoguerra (ed è già dire tutto), dal 53 al 63 fu accanto – prima nella laguna, poi in Vaticano – al patriarca di Venezia Angelo Giuseppe Roncalli, poi, con altro vello, Giovanni XXIII: condividendo con lui sofferenze e consolazioni, soprattutto in quel Concilio del quale fu testimone e coprotagonista, e del quale Giovanni XXIII gli chiese di essere lo «storico», compito cui fu fedele, conservando gli scritti roncalliani (pubblicati in proprio o affidati negli anni alle cure degli storici), ma pure facendoli vivere nelle successive stagioni della Chiesa (attraversate come arcivescovo di Chieti e Vasto, delegato pontificio a Loreto, nel ritiro non meno fecondo a Sotto il Monte, dove nel 2014 – lo stesso anno della canonizzazione di Giovanni XXIII e un anno prima della morte – gli venne recata la berretta cardinalizia). La corrispondenza di don Loris con padre Davide (conosciuto de visu in una parrocchia romana affidata ai Servi di Maria, San Claudio, il giorno dopo il pellegrinaggio del pontefice a Loreto e Assisi, il 4 ottobre 1962, alla vigilia dell’inizio del Concilio), documenta trent’anni di amicizia discreta, esigente e intermittente, «nel solco di papa Giovanni » come titola anche la raccolta edita da Servitium. Certo, vi è molto sia della vita di «padre David» che di «don Loris» di cui qui non vi è traccia. Inutilmente si cercherebbero pronunce – del resto note – su problemi cruciali dei turbolenti anni Settanta in Italia, né probabilmente vi si troverà l’aspra sincerità che contraddistinse tanti incontri fra i due, soprattutto a Ca’ Maitino, l’antica residenza roncalliana, scelta da Capovilla per i suoi ultimi anni, dove più volte ha incontrato Turoldo raccogliendone – parole sue – «gli sfoghi», specie nei momenti di maggior decadenza nella vita politica ed ecclesiale del nostro Paese. C’è però qui quanto basta, per chi meno ha conosciuto i due, per farsi più che un’idea della loro relazione dal 1963 al 1992. Anni che hanno visto quattro papi – Giovanni XXIII e Paolo VI gli unici qui citati (del primo padre David l’1 agosto 68 scrive a Capovilla «Più il tempo passa, più sentiamo il bisogno della sua presenza e della sua protezione. Più il tempo passa, e più sembra un sogno la sua apparizione sulla terra (…)»; del secondo, Turoldo – il 13 agosto 64 – scrive a Capovilla: «Povero Papa! Ho proprio paura che parli a un mondo – quel mondo – volontariamente sordo, e ambiguo, e untuoso, e chiesastico, il quale invece è pagano, essenzialmente pagano»), poi Giovanni Paolo I e Giovanni Paolo II. Anni che hanno visto il Concilio e il post-concilio, ma pure l’acuirsi di problemi politici, l’accelerazione di trasformazioni sociali, le tensioni laceranti le posizioni su una fede da proporre e non da imporre. Beninteso, senza dimenticare che lo sguardo di don Loris e di padre David, mai limitato al «Belpaese», è sempre stato soprattutto uno sguardo (e molto di più) sul mondo, alle prese con i problemi della fame e della pace, della giustizia e del lavoro, del razzismo e della custodia del creato, dell’ecumenismo e del dialogo interreligioso o con i «lontani». Uno sguardo che, anche dalle colline di Sotto il Monte, ha sempre significato per loro guardare «alto e lontano». «Caro Fratello David. In recenti peregrinazioni al Sud Italia, la gente, che conosce dove abito, mi chiedeva con premura affettuosa: “Padre Turoldo, come sta?” Attorno a Lei, caro Padre, accade in una certa misura quello che si constatava a Roma negli ultimi mesi di vita di Papa Giovanni. I romani (anzitutto i romani di modesta estrazione, i senza potere, i lontani con nostalgia di paternità e maternità della Chiesa) consapevoli che sarebbe rimasto ancora per poco, cercavano tutte le occasioni per vederlo, ascoltarlo, offrirgli fiori a piene mani: amore e solidarietà, consenso e gratitudine. Quello spettacolo mi sta sugli occhi, come se fosse di ieri. È accaduto ieri, infatti». Così gli scriveva Capovilla il 26 gennaio 1990. E aggiungeva «Grazie dei Canti ultimi. Li ho letti, riletti col cuore gonfio, una gran voglia di appropriarmeli, sentendomene ineffabilmente attratto», concludendo con un pensiero al «congedo definitivo» che, com’è noto, per lui arriverà assai più tardi, a cento anni, facendo in tempo a condividere con padre David ripetute parole contro la Guerra del Golfo, a vederne la morte, e molto dopo a disporre di essere seppellito accanto a lui. Come è accaduto un anno fa. Oggi i due riposano a pochi metri l’uno dall’altro, sullo spicchio di collina occupato dal piccolo cimitero di Fontanella, là dove a ridosso del muretto di cinta, si alzano croci di legno robuste: come sono state le loro voci.