QUANDO L’ESALTAZIONE (VERBALE) DELLA BELLEZZA NON BASTA: IL «CASO ITALIA»

di Mariella Zoppi

 

In Italia possiamo vantare una lunga legislazione a tutela del patrimonio artistico e ambientale (la prima legge risale al 1909), che è andata modificandosi e ampliandosi nel tempo divenendo sempre più prescrittiva, ma una logica clientelare e una mentalità individualistica hanno spesso vanificato il dettato delle leggi, con risultati disastrosi, soprattutto in presenza di un territorio estremamente fragile e a causa di una retorica della bellezza che punta più al suo risvolto utilitaristico che a quello di motore di consapevolezza e di crescita culturale.

 

«Costretti a vivere di fronte ad un paesaggio ammirevole, gli Oranesi hanno superato questa temibile prova, coprendosi di costruzioni bruttissime. Ci si aspetta una città aperta sul mare, lavata e rinfrescata dalla brezza serale. E, a parte il quartiere spagnolo, si trova una città che volta le spalle al mare, costruita girando su se stessa, come una chiocciola» (Albert Camus, L’estate)

 

Una preziosa fragilità

«Conservare la bellezza di un luogo significa esaltare l’aspetto della comunità che vi abita, ci dedichiamo alla conservazione della nostra ricchezza come custodi di un piccolo frammento di umanità»: così apre il suo sito Web un’agenzia specializzata in itinerari ed eventi culturali ed artistici, che naturalmente sono esposti e proposti per la prenotazione e la vendita. Continuando nella navigazione, si può scegliere fra visitare una mostra, un monumento, andare alle terme o fare un tour. La ricerca della bellezza si identifica con la scoperta dei luoghi e delle opere in relazione alle sensazioni seducenti che questi possono suscitare. Un concetto che ci portiamo dietro fin dal Settecento, quando transitava romanticamente per le emozioni del sublime e del terribile, e oggi ci racconta l’evoluzione del senso estetico e del gusto nel pensiero occidentale, che non riguarda solo gli ultimi tre secoli, ma ha radici nella Grecia antica e attraversa lo studio dei cànoni e delle regole del Rinascimento e la loro successiva sfolgorante trasgressione nel Barocco.

La bellezza porta in sé il seme della relatività e del mutamento, ci relaziona con una preziosa fragilità che impone la cura, pena la sua scomparsa: la sua perdita è sentita come una dolorosa assenza, un vuoto non colmabile. Da qui il problema della sua conservazione, imprescindibile ed ineludibile, che in natura appare in tutta la sua caducità ed effimera precarietà. Il traslato del termine bellezza come sinonimo di patrimonio culturale ed artistico si è andato affermando nel corso del Novecento e, pur piegandosi all’avvicendarsi del gusto e delle mode, è portatore di valori universalmente riconosciuti e condivisi che non possono e non devono subire l’affronto né dell’oblio né, tantomeno, della distruzione. Il tema della perdita è connaturato a quello della bellezza e da esso non può essere separato.

 

Se valorizzazione fa rima con mercificazione

Negli ultimi anni il binomio patrimonio-bellezza si è caricato di una valenza retorica che non è più riferibile ad una accezione romantica, ma che si relaziona ad una razionalità pragmatica talvolta fastidiosa e mistificante. La giaculatoria «bellezza, ricchezza, patrimonio, arte, cultura, giacimenti, petrolio d’Italia» troppo spesso ripetuta appare una sequenza consunta, una devozione a parole che presenta non pochi margini di ambiguità per quel suo proporsi al tempo stesso come elogio di un bene inestimabile e da curare, in cui la priorità sembra essere più il consumo, che la protezione. La sua condivisione viene interpretata non tanto come contributo al miglioramento di una conoscenza comune capace di traguardare sempre nuove mete (attivare saperi e cultura), quanto come modalità d’uso finalizzato ad incrementare turismo e tempo libero, a dinamizzare i consumi attraverso attività indotte o correlate, spostando il problema dalla protezione (comprendere e condividere per tramandare) alla valorizzazione intesa come mercificazione. Non si vuole con questo dire che la cultura debba avere una fruizione di élite, al contrario si vuol affermare un diritto alla conoscenza, di cui tutti debbono godere e fruire in quanto si riverbera nella società come nei singoli individui con benefici che non sono e non possono essere limitati a quelli materiali. Certo, il «petrolio d’Italia», costruito e sedimentato attraverso tanti secoli di storia, può diventare una fonte di reddito per il Paese, ma solo se questo avverrà in modo corretto e sostenibile, senza le ingordigie e le banalizzazioni legate a rivenuti economici immediati. Solo così, infatti, riuscirà a riverberare nel lungo e medio periodo i suoi effetti che devono essere prioritariamente riferiti alle ricadute sull’educazione del popolo e dei popoli. È questo il solo modo per progredire e individuare nuovi traguardi nelle arti come nelle scienze, nelle tecnologie come nella coesione sociale.

 

Quella legge del 1909

Uno dei vanti italiani, è quello di avere una lunga tradizione legislativa di protezione del suo patrimonio culturale, che ha inizio con la Legge del 1909 con cui diventano oggetto di tutela «(…) le cose immobili e mobili che abbiano interesse storico, archeologico e artistico» e si consolida con le due leggi del 1939 che estendono il concetto di tutela – e quindi di consapevolezza di un «valore pubblico e nazionale» – dai singoli e pur preziosi oggetti all’ambito in cui sono collocati e per traslazione ai contesti di particolare pregio che diventano essi stessi beni culturali. La parola «bellezza» compare con la Legge 29 giugno 1939, n. 1497 appunto sulla «Protezione delle bellezze naturali» e identifica un vasto campo che comprende: «1) le cose immobili che hanno cospicui caratteri di bellezza naturale o di singolarità geologica; 2) le ville, i giardini e i parchi che, non contemplati dalle leggi per la tutela delle cose d’interesse artistico o storico, si distinguono per la loro non comune bellezza; 3) i complessi di cose immobili che compongono un caratteristico aspetto avente valore estetico e tradizionale; 4) le bellezze panoramiche considerate come quadri naturali e così pure quei punti di vista o di belvedere, accessibili al pubblico, dai quali si goda lo spettacolo». Si apre così il tema del paesaggio che, anche se inteso ancora nell’accezione romantica di panorama, veduta e memoria in cui le emozioni suscitate sono tali da dover essere condivise, indica la via per tramandarle attraverso le generazioni. Il testo di legge, infatti, non si limitava a segnalare luoghi e cose (elenchi e vincoli), ma chiamava (art.8) in causa direttamente lo Stato come garante del patto di conservazione e della sua durata nel tempo, individuando nel ministro l’autorità in grado «1) di inibire che si eseguano, senza preventiva autorizzazione, lavori comunque capaci di recar pregiudizio all’attuale stato esteriore delle cose e delle località soggette alla presente legge; 2) di ordinare, anche quando non sia intervenuta la diffida di cui al numero precedente, la sospensione degli iniziati lavori».

 

Protezione e pianificazione del territorio

Non fu certo un anno facile quel 1939 per il nostro Paese, ma la consapevolezza dell’importanza della protezione e della pianificazione del territorio (normata a livello nazionale tre anni dopo con la Legge Urbanistica) si affermava con chiarezza. Da allora la protezione dei beni/bellezze, in Italia, è parte di un quadro normativo coerente. Dovremmo dunque essere un Paese dove, da lungo tempo, tutto si sviluppa con equilibrio e armonia, dove le necessità degli abitanti (casa, lavoro, servizi) sono non solo governate da processi pianificati, ma modulati e modellati su un’idea di bellezza, in quanto su di loro la «tutela» agisce in posizione preminente e prioritaria. A questo principio fondamentale avrebbe dovuto improntarsi la ricostruzione degli anni 50, il boom edilizio degli anni 60 e tutta la politica del suolo dei decenni successivi, rafforzata dal punto di vista legislativo da provvedimenti come la Legge n. 431 del 1985 (nota come «Galasso») per la tutela delle zone di particolare interesse ambientale, che di fatto allargava a grandi areali geografici norme di protezione improntate a criteri ecologici in grado di coinvolgere tutte le azioni degli uomini nei confronti dei viventi e dei loro habitat. Al paesaggio di pregio e alla sua fragile bellezza si era andato ad aggiungere l’aspetto strutturale delle relazioni fra gli esseri e la loro evoluzione, dei cambiamenti ammissibili e/o incompatibili con il territorio in cui agiscono, superando il concetto di eccezionalità di particolari ambiti. Il vincolo paesaggistico della Legge 1497 del 39 veniva così esteso a: «(…) i territori costieri compresi in una fascia della profondità di 300 metri dalla linea di battigia, anche per i terreni elevati sul mare; i territori contermini ai laghi compresi in una fascia della profondità di 300 metri dalla linea di battigia, anche per i territori elevati sui laghi; i fiumi, i torrenti ed i corsi d’acqua iscritti negli elenchi di cui al testo unico delle disposizioni di legge sulle acque ed impianti elettrici, approvato con Regio decreto 11-12-1933, n. 1775, e le relative sponde o piede degli argini per una fascia di 150 metri ciascuna; le montagne per la parte eccedente 1.600 metri sul livello del mare per la catena alpina e 1.200 metri sul livello del mare per la catena appenninica e per le isole; i ghiacciai e i circhi glaciali; i parchi e le riserve nazionali o regionali, nonché i territori di protezione esterna dei parchi; i territori coperti da foreste e da boschi, ancorché percorsi o danneggiati dal fuoco, e quelli sottoposti a vincolo di rimboschimento; le aree assegnate alle università agrarie e le zone gravate da usi civici; le zone umide incluse nell’elenco di cui al decreto del Presidente della Repubblica 13-3-1976, n. 448; i vulcani; le zone di interesse archeologico» (art.1, L.431/85).

 

Il danno e la beffa

Sono passati oltre 30 anni da quando la visione estetica è stata integrata con un’idea più egualitaria di protezione dei luoghi estesa a tutti i territori considerati vulnerabili in relazione alla loro posizione geografica (indipendentemente dall’eccezionalità della «veduta»), ambientale, antropica e storica. Norme precise, che tuttavia avevano un vulnus: interferivano su campi talmente ampi che inevitabilmente dovevano ammettere discrezionalità e deroghe delegate allo Stato secondo le disposizioni individuate dalle leggi del 39. Ma, con l’ampliamento del campo di applicazione e l’aumento della complessità delle situazioni interessate, i processi di cambiamento diventavano materialmente incontrollabili proprio da parte di quegli organi che ne avrebbero dovuto garantire la corretta applicazione. Aldilà del dolo, che ha interessato situazioni estreme su cui è intervenuta la magistratura, il tema della coerenza – nel tempo e sul territorio nazionale – dei criteri nel rilascio dei permessi a costruire e di severità nella sanzione degli abusi è andato disgregandosi sotto il peso della quantità e differenziandosi nelle valutazioni man mano che alla crescente rapidità e alla diffusione degli interventi, si sono aggiunti altri fenomeni, da quelli di ordine sociale ed economico (es. abbandono della montagna, saccheggio delle coste), a quelli ambientali connessi all’azione dell’uomo (es. invasione degli alvei dei fiumi, impermeabilizzazione massiccia del suolo), a quelli collegati ai cambiamenti climatici. Su tutto questo si è inserito un habitus mentale tipicamente italiano che sembra far sì che il singolo cittadino non riesca a vedere che il suo interesse personale è parte di un più generale interesse collettivo, ovvero che la sua vita si svolge all’interno della società cui appartiene e da cui dipende. Una mentalità che anche nelle più clamorose denunce è apparsa improntata più alla logica del «non nel mio cortile» che non all’affermazione di un’etica comportamentale che avrebbe dovuto riferirsi a tutta la gestione del territorio e del Paese, che invece tollerava i condoni reiterati (da quelli edilizi, a quelli economici) e accettava l’idea di «mettere in regola» quello che non avrebbe potuto e dovuto essere e di racimolare qualche soldo con cui rimpinguare le finanze pubbliche. Il risultato è stato devastante: come si dice «oltre al danno la beffa», i mali sono rimasti, si sono radicalizzati e i soldi ottenuti sono stati talmente pochi, che non hanno potuto neppure porsi l’obiettivo di fronteggiare o correggere i disastri che avevano provocato.

Un guasto duplice, in quanto al tempo stesso morale (trasgressione tollerata e quasi incentivata) e fisico (tangibile e permanente), e di proporzioni enormi, rispetto al quale alla scomparsa della bellezza si è associata drammaticamente la perdita della sicurezza del territorio. Una complessiva debolezza che si manifesta ad ogni acuirsi dei fenomeni naturali che interagiscono sempre più gravemente con un suolo «consumato», con un carico di impermeabilizzazione non ulteriormente tollerabile, impoverito per l’abbandono dei suoi abitanti o, al contrario, gravato da usi impropri. Negli ultimi anni l’inerzia nella protezione del suolo ha enormemente allargato la dimensione delle aree a rischio, particolarmente grave in un Paese di per sé vulnerabile per la sua struttura geologica. Un Paese che appare consapevole da un punto di vista teorico, scientifico e tecnico di questa sua natura, ma che politicamente non vuole o non sa prenderne atto e agire di conseguenza attraverso la cura del territorio, che è fatta di misure di prevenzione, di educazione comportamentale e di controllo almeno sull’applicazione delle leggi che già esistono.

 

Quando manca il senso di «comunità»

La tutela, se pure ben normata, deve essere applicata soprattutto attraverso comportamenti collettivi quotidiani. Per difendere il paesaggio e il territorio non bastano – anche se sono imprescindibili – piani magnifici che si rifanno a quanto di più avanzato in termini di protezione, come i principi della Convenzione Europea (Firenze 2000), la stesura di norme inequivocabili e l’esplicitazione di buone pratiche, ma è necessario che tutto questo sia parte ed espressione delle comunità cui sono rivolte. E qui sta il punto dolente: qual è oggi il senso del termine «comunità» in una società frazionata, individualista, pervasa da solitudini e da paure? Come si può ritrovare un senso comunitario, obiettivi in cui riconoscersi, comportamenti che tendano a recuperare l’idea del bene comune anche quando questo imponga limiti all’azione del singolo? Risposte non facili in un momento in cui a livello planetario si sono persi i valori fondamentali della solidarietà e tutto sembra diventato autoreferenziale. In un momento in cui abbiamo confuso il senso della responsabilità con quello del successo intercettandolo solo come vittoria individuale contro la società di appartenenza: le parole «primeggiare» ed «emergenti», così comuni, sono la spia dell’affermazione individuale solitaria. Forse, frustrati dal declino dei grandi ideali, siamo stati rinunciatari, abbiamo delegato troppo pensando che uomini «nuovi» potessero dare moderne e adeguate risposte ai problemi irrisolti del nostro tempo: invece, i mali si sono aggravati. Incantati dalle parole, abbiamo tollerato che la politica non fosse più una responsabilità primaria e solidale della società, ma che diventasse appannaggio di imbonitori cui – spesso con la logica dell’esclusione o del meno peggio – abbiamo affidato il futuro del Paese. Chiusi nei nostri egoismi abbiamo permesso che lo Stato divenisse qualcosa di estraneo, un corpo fuori di noi, un gravame cui chiedevamo solo di essere «più leggero» e meno invasivo, senza pensare che un popolo che non sa riconoscersi in una coscienza comune non può pensare positivamente al suo futuro. Azioni solitarie, gesti individuali e buonismo non bastano, anche quando non sono solo avventure. L’egoismo è di per sé una forma di distruzione della bellezza, che non è accessoria ma pervasiva, non ha dimensioni, non è misurabile, non è statica perché è il risultato dei pensieri, dei gesti, della spiritualità e delle azioni degli uomini che la producono, l’alimentano e la tramandano. Per questo, solo le grandi civiltà hanno saputo consegnarci grandi bellezze.