QUANDO LA BELLEZZA TI SI SVELA COME DONO

di Sergio Givone (in dialogo con Severino Saccardi)

 

La bellezza non è un orpello, ma qualcosa di sostanziale, capace di parlare alla dimensione più profonda dell’uomo. Proprio per questo la fruizione del patrimonio artistico non può essere mercificata, ma deve essere valorizzata come elemento portante della formazione culturale e spirituale delle giovani generazioni.

L’arte, che è evento, disvelamento, grazia e gratuità, non è soltanto l’illusione di un animale (l’«animale uomo») particolarmente dotato quanto a estro e fantasia, ma è anche l’ambito in cui l’uomo medesimo si misura con quello che è veramente, e quindi con la sua libertà, con la sua dignità, con la sua capacità di porsi domande di fondo sul mondo e sull’esistenza e di aprirsi al riconoscimento dell’«altro».

 

Bellezza e sacro: un legame per noi smarrito

Saccardi. Forse potremmo partire, per questa nostra conversazione, da un (bel) riferimento occasionale. Ti ho sentito, in un ciclo di iniziative dedicate al grande Tarkovskij, parlare dell’importanza del rapporto con il sacro nell’arte e nella cultura russa. Una cultura in cui bellezza e sacro hanno sempre avuto un rapporto molto stretto.

Givone. Un rapporto, molto stretto. Quasi indistruttibile, direi. Mi viene in mente San Pietroburgo, dove nella chiesa della Vergine (era stata trasformata nel Museo dell’Ateismo, una chiesa curiosa perché è una specie di San Pietro in miniatura), aveva sede la Vergine di Kazan’, l’icona forse più venerata, più amata dalla popolazione e dai credenti. L’icona era sparita, ma ora l’hanno ritrovata e riportata in quella stessa chiesa, come se 70 anni fossero stati cancellati.

Partiamo da questo legame bellezza-sacro: da noi, una simile concezione è improponibile, invece in Russia essa è particolarmente evidente in casi come quello di cui stiamo parlando, appunto, quello della chiesa del Redentore, abbattuta da Stalin e ricostruita tale e quale, salvo nella parte sotterranea dove hanno fatto il museo. È un museo, ma viene visitato come un luogo sacro. La gente di fronte alle icone si inginocchia, le bacia, ha un’esperienza che è al tempo stesso estetica e religiosa, spirituale. Accade qualcosa del genere da noi? È Possibile? È pensabile? No.

Saccardi. No, perché da noi c’è la riduzione della bellezza alla sua dimensione di semplice «esteriorità estetica», di puro godimento estetico, anche quando l’origine e la motivazione di un’opera d’arte, di un’opera bella sono chiaramente legate al sacro, al religioso, allo spirituale.

Givone. Vale anche forse per la più bella delle madonne, quella di Raffaello, tanto per fare un esempio, che si trova nella Gemäldegalerie di Dresda, che i russi andavano a vedere a cominciare da Dostoevskij, e dopo di lui Grossman. Che cosa vedevano i russi in questa Madonna di Raffaello? Vedevano un’icona, cioè qualcosa che noi non vediamo più, vedevano una teofania, un’epifania, una rivelazione della divinità, nella sua verità, in quello che è veramente. Noi invece abbiamo una tradizione, cui facevi riferimento tu, che ha estetizzato la bellezza artistica, anche se i contenuti di quest’arte sono contenuti religiosi. Noi alla Madonna di Raffaello reagiamo diversamente, ne godiamo solo per quello che ha da dirci in termini di piacere, di armonia, di stile…

Saccardi. Un discorso che vale non solo per la pittura, ma anche per l’architettura di una chiesa…

Givone. È vero. Uno può entrare in una chiesa godendone esteticamente e basta, non certo per pregare. Ma c’è di più, io credo: questo processo, inaugurato dall’estetizzazione della bellezza e che ha cancellato il legame tra bello e sacro si è svolto nel senso di una vera e propria discesa nell’inferno del mercato. Cioè, non abbiamo avuto solo a che fare con l’estetizzazione del bello e del sacro, ma con una mercificazione; la bellezza, non vale più per sé, ma per quello che rende. Io sono portato a comprare, è quasi un’ossessione al mondo d’oggi. Perché compriamo le cose? Perché ci servono? Il valore d’uso è ancora il vero valore di riferimento? Assolutamente no, è il valore di scambio quello che conta, ma il valore di scambio sembra che si stia riducendo a un unico valore, il valore estetico. Io compro una cosa, vado al mercato o al supermercato e compro una cosa perché è bella, prima ancora che perché è utile. Quindi, non solo non ho più un rapporto col sacro, ma non ho neanche più un rapporto con l’utile, o il bello, ho un rapporto solo col denaro.

 

La mercificazione dell’arte

Saccardi. Oggi, inoltre, c’è una dimensione estrema di questo fenomeno, ed è quella del contrabbando e del mercato delle opere d’arte che, in alcuni casi, serve a finanziare i gruppi terroristici. Un altro aspetto da considerare è quello dei movimenti fondamentalisti che in certi casi distruggono le opere d’arte come elementi di un passato pagano, non redimibile in quanto simbolo e prodotto della miscredenza. Quando non le distruggono, le commerciano, per finanziare, appunto, le loro imprese.

Givone. Si potrebbe dire che anche il commercio delle opere d’arte è una forma di distruzione, dell’arte. A quel punto c’è solo la mercificazione, c’è solo quello che è restato dopo un processo di completa svalorizzazione dell’arte in quanto arte. Trasformando l’arte in moneta di scambio, l’arte non è più arte, l’ho distrutta.

Saccardi. Si può dire che all’arte è stata tolta l’anima.

Givone. Il terrorista che nell’arte vede un legame con una tradizione che peraltro lui detesta, e quindi la distrugge, è lo stesso terrorista che usandola come merce di scambio, per comprarsi armi o qualsiasi altra cosa, la distrugge una seconda volta. Ma, l’ultima parola è questa? Io non lo credo, perché è vero che noi siamo ossessionati dalla bellezza e che solo ciò che è bello è degno di essere comprato, solo ciò che è bello è degno di essere amato…

Saccardi. Forse non è sbagliato osservare anche che siamo in presenza di una vera e propria «retorica della bellezza»…

Givone. C’è una tremenda retorica, peggio, una mistificazione, peggio ancora, un’ossessione, perché, se è vero questo che stiamo dicendo, ed è vero, che la bellezza è diventata la condizione perché io dica sì alle cose, al mondo, allora tu capisci che siamo messi male. Ma non è la stazione finale questa, perché, sarà pure un’ossessione, però è un’ossessione che fa sì che noi intimamente ci diciamo: «eppure della bellezza non possiamo fare a meno», «eppure nella bellezza noi cerchiamo magari qualcosa che essa, così come la conosciamo, non ci dà, ma di cui abbiamo bisogno»; questo qualcosa, credo valga la pena di cercarlo.

 

Ritornare alle fonti

Saccardi. Verrebbe da tornare alle fonti, alle radici, alle grandi suggestioni dalle quali deriva così gran parte della nostra tradizione culturale in materia: a Platone, ad esempio.

Givone. L’unità di tre che sono uno: il bello, il vero e il buono. Noi queste tre cose le abbiamo smembrate. Il bello non ci dice più niente quanto al vero: anzi, il bello è seducente, il bello è ingannevole, il bello aiuta a vendere, ma, appunto, mentendo; il bello non ci dice niente quanto al buono, perché una cosa può essere bella ma niente affatto buona. Noi abbiamo smembrato i tre aspetti, ci siamo ritrovati nella condizione che abbiamo descritto. Però, di nuovo, questa memoria dei tre che sono uno, cioè del fatto che nel bello c’è una traccia, magari dimenticata, perduta, tutto quello che vuoi, ma c’è un cenno, un riferimento al vero; nel bello, questo, c’è! Insomma, nessuno può strapparmi dal cuore l’idea che ciò che è bello è anche buono.

Saccardi. Quello è Platone, cioè la bellezza come via d’accesso alla verità. Cosa si potrebbe dire che rimanga oggi di queste grandi suggestioni? Platone che vede nella bellezza, appunto, il tramite per arrivare alla verità; Kant, che ci parla del sentimento universale del bello e del sublime. Che cosa rimane? In che modo ci possono parlare ancora, secondo te queste grandi immagini, evocazioni ed idee?

Givone. Rimane una sorta di dicotomia. Cioè, da una parte la bellezza è quella di cui abbiamo parlato finora, quella che incontriamo nel mondo delle merci, una bellezza mercificata, la quale ci ha sedotto e ci continua a sedurre, tant’è vero che continuiamo ad andare ai mercati guidati da questa funesta stella polare, cioè una bellezza che dice «comprami, comprami»; ma dall’altra c’è una bellezza che non si chiama più così, che non ha più nome, ma che continua ad essere quella, quella che è, cioè una bellezza che ci appare sempre di più come il luogo in cui prendere coscienza di noi, avere in chiaro noi stessi, fare i conti con la verità da una parte e con il bene dall’altra. Dov’è che facciamo i conti con queste grandi cose che non riusciamo neanche più a nominare, la verità, il bene, se non quando facciamo esperienze del bello? Queste sono parole non mie, sono parole di Dostoevskij. Dostoevskij è quello che viene sempre citato in riferimento a «la bellezza salverà il mondo». Dimentichiamoci questa frase, perché è una frase molto equivoca, su cui magari torneremo; Dostoevskij è anche quello che ha detto una cosa persino più importante: la bellezza è il campo di battaglia in cui Dio e Satana si giocano il destino dell’uomo, si giocano il cuore dell’uomo. Ecco che cosa può ancora essere la bellezza. Quella bellezza che non chiamiamo più bellezza, perché la bellezza è quell’altra cosa, è il mercato, è la nostra ossessione, ecc. La bellezza è un continuo essere: sarà, come dicevi tu prima un’antica memoria platonica, sarà una cosa che ha cambiato nome, ma che c’è, e quando c’è, risveglia in noi domande del tipo «ma allora, è così che deve essere?», «questo è il bene!», «è questo che ha senso?». Ecco, è la bellezza, non saprei indicare altri luoghi. L’uomo contemporaneo è di fronte a questa figura, al mostrarsi a lui di qualche cosa che non ha più nome, ma che continua ad essere la bellezza. L’uomo contemporaneo è lì, sarà amore, sarà eros, sarà un’opera d’arte prodotta, costruita non in nome della bellezza, perché l’arte contemporanea, oggi, non sa più cosa farsene della bellezza, anzi non ne vuol più sapere, ha paura della bellezza, perché la bellezza è diventata quella cosa che dicevo prima, è diventata mercato. Ma, l’arte contemporanea, che parla di «evento», a cosa rimanda con questa evocazione? A qualcosa che mi viene donato senza dar ragione di sé.

 

La bellezza come «evento»

Non sto parlando dell’evento come di quella cosa banalizzante che uno costruisce per creare artificialmente delle situazioni. È vero: la terminologia oggi diffusa e in uso, spesso, è fuorviante. Io quando parlo di «evento» parlo proprio della grazia, io sto parlando dell’incontro con la novità insperata, sto parlando della possibilità di guardare il mondo con occhi diversi, sto parlando dell’incontro con l’altro, questo intendo per evento. Allora, cosa fa l’arte contemporanea? L’arte contemporanea vuol essere sorpresa, meraviglia, incontro con una novità mai sperimentata, apertura della mente a qualche cosa di veramente altro. Questo intendo con la parola evento, ma questo, non è un nuovo nome della bellezza? L’eventualità, cioè il fatto che qualcosa mi venga dato, non perché mi è dovuto, non perché non può non essermi dato, non perché rientra nel do ut des della vita quotidiana…

Saccardi. …Ma perché ti si rivela…

Givone. …ma perché mi si rivela, come da una trascendenza, altra parola che non sappiamo più tanto usare, ma è la parola giusta, come dall’alto: io ci vado a sbatter contro e dico «toh guarda!».

Saccardi. Sì, d’altra parte, come sottolinei, è un accadimento che può verificarsi nella vita interiore e nel percorso di chiunque. Così è stato per grandi personalità. Don Milani inizia il suo percorso spirituale nell’interiorità, che lo porterà alla conversione, con la pittura, quando va a lezione dal maestro Staude. È un giovane, Lorenzo Milani che cerca una via d’uscita dagli «anni dell’errore» (come egli stesso li avrebbe poi definiti) quando viveva la condizione di figlio di privilegiati. E, appunto, la ricerca e il primo stimolo, la prima indicazione di una via sta nell’interrogarsi su queste forme, su questi colori, su questo mondo che gli si schiude e che lo invita a scavare, che allude, che rimanda ad altro. È una porta che si apre, mi pare.

Givone. Guarda, non è un caso che l’esperienza di conversione, ma non necessariamente di conversione religiosa, ma di conversione nel senso che uno dice «Toh, guarda il mondo potrebbe essere diverso da come mi è apparso finora e quindi il mondo, se le cose stanno così, può essere completamente diverso», parta da una dimensione del genere. Ecco, una metanoia, proprio un rivolgimento dentro il mondo a partire dal rivolgimento che io faccio su me stesso. Non è un caso che questo, che tu hai chiamato conversione, avvenga in occasione di esperienze o amorose o estetiche. E questo a cosa ci riporta? Ci porta di nuovo a Platone. Il Simposio sta raccontando un’esperienza che noi definiremmo oggi «erotica» ed estetica. Di cosa sta parlando il Simposio? Platone ci dice di questo slancio che strappa l’anima dalle occupazioni terrene e la porta a contemplare l’Uno, e quindi a contemplare la verità, a contemplare il bene; perché l’Uno che cos’è? È quello che è, sempre uguale a se stesso e che chiede di essere amato, di essere voluto. Nel Simposio Platone mi parla di un’esperienza che riguarda il rapporto amoroso fra gli uomini e la contemplazione delle opere d’arte, delle cose belle, che possono essere i corpi così come possono essere le anime, sta parlando della bellezza. Dire che anche oggi un’esperienza di conversione passa attraverso la bellezza, perché passa attraverso l’amore, perché passa attraverso l’arte, vuol dire in un certo senso tornare a Platone, vuol dire ritrovare ciò che abbiamo perduto, la bellezza, il concetto di bellezza. Anche se l’arte preferisce parlare d’altro, preferisce parlare di evento, di sorpresa, di performance, preferisce parlare di scuotimento di urto, di shock, ma in tutto ciò l’arte che cosa sta facendo? Vuole ridestarti alla consapevolezza di ciò che è bene, di ciò che è vero. E siamo di nuovo lì, il bello riscopre questo legame nei confronti della dimensione etica e della dimensione estetica. Il bello torna ad essere centrale.

 

Il bello, una promessa non mantenuta?

Saccardi. Però c’è anche e comunque un antico tema che da una parte segue questa indicazione e dall’altra la contraddice: il bello sembra, certamente, promessa di bene, sembra promessa di bontà, di cose buone. Tu guardi la luce meravigliosa, la bellezza di uno scenario, l’incanto della natura e ti predisponi al bene, e poi scopri che il mondo è pieno di brutture. Il bello (anche questo, come sai, è un tema antico) sembra quasi una promessa non mantenuta. E forse non siamo più abituati a ragionare su questo tipo di contraddizioni.

Givone. Ecco, incominciamo a chiederci questo: è vero o non è vero che il bello ci annuncia il bene e il vero? È vero che il bello è legato a queste realtà fondamentali, o il bello è soltanto inganno, seduzione…

Incomincerei a dire: intanto il bello non sarebbe incanto e seduzione come spesso è (quante volte ci è capitato di innamorarci di qualche cosa solo perché è bella e finire male, finire sviati!), il bello non potrebbe avere questa valenza di inganno se non fosse originariamente legato al bene e al vero. Non mi potrebbe ingannare, io non potrei essere sedotto dal bello se in fondo al mio cuore io non avessi questa memoria, nell’anima, che il bello è il bene, che il bello è il vero, non mi farei ingannare. Non correrei dietro in nome del bene e del vero a qualche cosa di bello, il bello sarebbe soltanto il piacevole e non mi farei ingannare, sarebbe solo una questione di piacere; quindi, se il bello mi inganna, come inganna, spesso, è perché ha un legame originario con il bene e con il vero. E questo è il primo punto. Secondo punto: perché ci guardiamo intorno, noi che siamo, lo abbiamo visto prima, ossessionati dalla bellezza, noi moderni, noi che andiamo a comprare le cose solo perché le cose sono belle? Perché, noi che siamo ossessionati dalla bellezza abbiamo creato intorno a noi il mondo più brutto che mai sia stato concepito? Il mondo, in passato, forse era, anzi sicuramente era infinitamente più povero e c’erano tante lordure che la povertà spesso genera (la miseria porta bruttezze!), ma il mondo non è mai stato brutto come oggi, non è mai stato capace di bruttezza come oggi. Questo è accaduto non perché abbiamo reciso il legame con il tema della bellezza, perché della bellezza non sappiamo più che cosa farcene! Tutto il contrario: il mondo è così brutto a causa della nostra ossessione, a causa della nostra incapacità di vivere la bellezza per quello che è veramente. Abbiamo trasformato la bellezza in finzione di bellezza, in mercato, al punto che è la nostra ossessione, nel mondo in cui tutto è merce, e dico che il mondo è brutto perché la bellezza degradata a funzione di mercato non è più bellezza ma è bruttezza.

Saccardi. Potremmo dunque asserire che la bellezza diventa corollario di un mondo imbruttito.

Givone. No, no, molto peggio: la bellezza è la causa del mondo imbruttito. Cioè, la bellezza mercificata, la bellezza dimentica di sé produce l’opposto da sé. Questa è logica, non è metafisica. La bellezza snaturata e mercificata è bruttezza e oggi viviamo nel mondo della bellezza snaturata e mercificata ed ecco che intorno a noi il brutto trionfa inevitabilmente.

 

La bellezza è lasciarsi prendere

Saccardi. Qui si potrebbe fare anche una riflessione di carattere educativo. Prima accennavamo all’idea che aveva Kant: il sentimento del bello e del sublime è un sentimento universale. Potremmo però notare che esso è come un qualcosa che è depositato nell’anima umana. Se non impari a riconoscerlo non lo avverti, non lo sai vedere. Allora, verrebbe anche da dire che le generazioni più giovani, se sono abituate a vivere nel brutto, non possono riconoscere il bello. C’è quindi il tema dell’educare al bello, c’è un problema di educazione al bello, una dimensione che forse oggi non è curata come si dovrebbe.

Givone. Non solo non è curata, ma è resa difficile questa educazione al bello, per il fatto che noi abbiamo del bello un’idea ben curiosa. Consideriamo il bello uno scopo della vita, un oggetto da inseguire, un bene che ha finito per essere l’unico bene che davvero ci interessa e non c’è idea più pervertita di bellezza che questa.

La bellezza come scopo della vita, come oggetto da perseguire, come qualcosa da possedere…

Saccardi. …come fine in sé, diciamo…

Givone. …o comunque come qualcosa che è fuori di me e che io devo raggiungere impadronendomene. Pensa a quanta parte della nostra vita, soprattutto la vita dei nostri ragazzi, dei nostri «compagni di sventura» in questa valle di lacrime è governata da questa idea di bellezza: «Si è comprato quelle macchina così e così…», «Che bella! La voglio anch’io», quella donna, la voglio anch’io in quanto bella. Questo fa paura. Il fatto è che non siamo educati alla bellezza, e che della bellezza abbiamo un’idea completamente travisata. Diceva Platone: «Ma che cosa accade, cerchiamo di capire, quando facciamo esperienza della bellezza che cosa davvero ci accade?». Che noi una bella mattina andiamo in strada e diciamo «Voglio questa cosa bella, me ne voglio impadronire». Ma è questo che accade? Nessuno è così pazzo da dire «Io ho in mente che la bellezza sia così e così e così e quando la trovo me ne approprio». È la bellezza che viene incontro a noi, non siamo noi che andiamo e ce ne impadroniamo. La bellezza è una sorpresa, è una grazia, è un dono.

Saccardi. Tornano i ragionamenti che facevi all’inizio parlando dei russi; verrebbe da pensare a Florenskij, alla bellezza come qualcosa che scende verso di noi dall’alto.

Givone. Sì, e non come qualcosa a cui noi accediamo, perché, se la consideriamo come qualcosa da possedere, già siamo fuori strada, già non abbiamo capito che cos’è la bellezza, già non siamo in grado neanche di capire che cosa sia bellezza.

Saccardi. Mi par di capire, sintetizzando, che in questo caso si tratta di una dimensione che ha più a che vedere con l’«avere » che non con l’«essere».

Givone. La cosa può essere esattamente detta in questi termini, che saranno termini anche molto filosofici, ma è realtà: la bellezza è lasciarsi prendere. Educare alla bellezza è dire «queste sono le cose belle» «queste sono le cose che davvero vale la pena» perché, chi lo decide cosa sono le cose che vale la pena? Spesso è una questione di classi sociali di appartenenza. Ci sono cose che se appartieni a quella classe devi avere, sono i marchi di fabbrica: se tu hai quella casa, quelle posate, quegli utensili, quella macchina appartieni a quella classe sociale. Quindi, non è neanche più questione di dire che questo è bello e questo non lo è, ma che questo è bello per Tizio, Caio e Sempronio, per la classe X e che questo è bello per la classe Y. Dunque, allora tanto varrebbe risolvere il problema in termini sociologici e quindi dire: «Bene, io ti educo a Eaton e stai tranquillo che a Eaton tu impari le cose che coloro che appartengono alla tua classe sociale devono avere», o hanno naturalmente. Quindi, se è questione di classi sociali, benissimo, il problema è già risolto in partenza: dimmi a quale classe sociale appartieni, chi sei, chi vuoi essere e io ti sistemo nel tuo posto. La bellezza di cui stiamo parlando è un’altra cosa. Se la bellezza di cui stiamo parlando è quella che ci permette di fare davvero un’esperienza di verità e di senso, se davvero la bellezza è quella, come diceva Dostoevskij, in cui Dio e Satana si disputano il cuore dell’uomo, allora educare alla bellezza non vuol dire educare il gusto a certe cose, a certi stili di vita, a certi brand, vuol dire educare l’uomo alla sorpresa, alla meraviglia…

 

Un circolo vizioso o virtuoso?

Saccardi. …alla gratuità…

Givone. …la parola giusta è questa, gratuità, del dono che qualcuno ti fa.

Saccardi. La bellezza è quindi un dono della vita e del mondo che ti viene in qualche modo incontro, che si rivela.

Givone. …e puoi trovare il bello dove meno lo aspetti, lo puoi trovare nel gesto di un disperato che ti si presenta venendo da situazioni che possiamo appena immaginare, lì c’è bellezza, in un angolo di strada… L’incontro con un migrante, cioè l’incontro con l’ultimo degli ultimi può essere illuminato dalla bellezza e, in questo caso, la trovi lì. È talora in situazioni come queste che trovi la grazia, che è la gratuità, che poi vuol dire la libertà. È lì che la trovi, ma allora educare alla bellezza è educare a tante cose, è educare all’umanità.

Saccardi. Sì, educare alla finezza dell’animo, alla verità, alla libertà. Ora, verrebbe da pensare: in fondo, messa in questi termini, la bellezza è un bene del mondo. E, senza dubbio, viene da chiedersi, rovesciando la frase famosa (e l’interrogativo) sulla bellezza che salverà il mondo: riuscirà il mondo a salvare la propria bellezza? Sarà capace di salvare il proprio deposito di bellezza? Un tema che da estetico o etico diventa anche politico. Nel mondo c’è comunque questa grande tradizione e questa grande storia, questo enorme patrimonio di bellezza di tutti i tipi, sotto tutti i cieli e appartenente a diverse culture, che oggi rischia, non solo l’usura, ma il degrado, la mercificazione, la compromissione.

Givone. Però tu vedi che proprio questo patrimonio di bellezza, quest’immenso patrimonio di bellezza è quello che rischia di essere mercificato, magari con le migliori intenzioni del mondo. Dicendo «solo se io lo valorizzo, se riesco a farlo rendere, questo patrimonio, avrò i mezzi per conservarlo» si cade in una bella contraddizione. Ma questo è un circolo virtuoso o un circolo vizioso? Io tendo a pensare che sia un circolo vizioso. Il mondo deve salvare la bellezza, questo è certamente un compito, un dovere. Un dovere etico, non soltanto un dovere estetico. Perché se la bellezza è quel qualcosa che abbiamo detto, salvare la bellezza è un dovere etico.

Saccardi. Un dovere etico, certamente. Anche quando non ti trovi di fronte a casi estremi come la distruzione di Palmira, ci sono tante forme di minaccia alla bellezza, oggi, nel mondo.

Givone. Certamente, devo salvare Palmira, e questo è un dovere estetico, perché Palmira è un patrimonio dell’umanità in termini di bellezza, ma devo salvare Palmira prima ancora in nome dell’umanità e quindi per ragioni etiche. E la devo salvare prima ancora, potendolo fare, e quindi grazie alla politica, perché senza la politica ho un bel dire «salviamo Palmira», ma se non c’è una politica che mi dà i mezzi per farlo, è impossibile che io possa realizzare tale scopo. Il mondo deve salvare esteticamente, eticamente, politicamente il suo patrimonio di bellezza. Deve, perché la bellezza non è soltanto una cosa di cui non si può fare a meno, ma è la cosa, è la sostanza di cui siamo fatti. Infatti, noi siamo fatti di bene e male, siamo fatti di vero e falso. Queste sono le domande che sostanziano la nostra anima. Quindi, se la bellezza ha a che fare con il bene e con il male, se la bellezza ha a che fare con il vero e con il falso, se la bellezza è quella cosa che Platone ci ha detto una volta per tutte, è l’uno che sono i tre, allora io la devo salvare. Ma, sono in grado di farlo? Come agiamo, di fatto, di fronte a questo patrimonio che rischia di essere sgretolato, perso, impoverito? Purtroppo la logica è quella mercantile: se vogliamo salvarlo, dobbiamo avere i soldi per farlo, se dobbiamo avere i soldi per farlo dobbiamo valorizzarlo, se vogliamo valorizzarlo dobbiamo offrirlo ad una fruizione di un certo tipo. Una fruizione che, economicamente, renda. In piccolo, la mercificazione dei musei, la commercializzazione dei beni stessi conservati nei musei, è questo circolo. Ma, torno a domandarti: è un circolo vizioso o è un circolo virtuoso questo? Con le migliori intenzioni, io temo che sia vizioso.

 

Musei come scuole

Saccardi. Su questo vorrei farti una controdeduzione, provare a vedere la cosa da un altro punto di vista, perché spesso si è dentro fenomeni e cambiamenti estremamente complessi. Ora, è evidente quello che dici su questo bello che deve produrre, che deve rendere, che in qualche modo è mercificato, che è offerto alla fruizione…

Givone. …ma io sto dicendo che non è questa la strada…

Saccardi. Certo, certo. Ho ben capito. D’altra parte, mi verrebbe da fare una riflessione di segno opposto. Prendiamo la questione del turismo. Il turismo culturale è spesso qualcosa di grezzo, relativamente volgare, che tende a consumare l’attimo, a fissare un’immagine da aggiungere al catalogo dei propri ricordi. Tutte cose che sappiamo. Certamente San Gimignano era molto più affascinante quando era immersa nel silenzio della campagna e non era invasa da frotte di turisti provenienti dal mondo intero. Ma verrebbe anche da chiedersi (e qui sta proprio la complessità della questione): era davvero meglio quando questo patrimonio era fruizione solamente di un’élite, o non ha un senso, anche se dentro una cornice che contiene inevitabilmente anche aspetti di imbarbarimento e di consumismo, che questo patrimonio, in qualche modo arrivi a masse più grandi di persone, a grandi numeri che altrimenti, sia pure in una forma culturalmente abbastanza povera, non avrebbero accesso a questa dimensione, cioè alla visione e alla conoscenza di un patrimonio artistico di cui altrimenti non avrebbero avuto la minima percezione?

Givone. Affrontiamo questo problema e, per farlo, spostiamo l’attenzione dal tema della valorizzazione e quindi della commercializzazione di questo patrimonio, per portarlo sul problema di che cos’è questo patrimonio e cosa devono essere, qual è la vocazione dei musei, cioè dei luoghi in cui questo patrimonio viene conservato e dove per l’appunto i turisti vanno a goderlo, a fruirlo, e quindi anche a nutrirsi.

Saccardi. Forse anche a loro qualche briciola di bellezza e qualche frammento della sua luminosità arrivano…

Givone. Certamente sì, è meglio un mondo in cui tanti, tutti, possono fruirlo questo patrimonio che un modo in cui esso è fruizione di pochi. Ma la domanda che io ti faccio, spostando un po’ l’attenzione è: che cos’è questo patrimonio? Che cosa sono i musei? Ecco, la risposta che io do è: non sono supermarket, seppure supermarket della bellezza, sono scuole, sono centri di ricerca. È questo che non si capisce tanto o si fa finta di non capire quando si dice che i musei devono essere valorizzati e la fruizione delle opere nei musei deve essere incentivata e deve produrre denaro. Non si vede che i musei sono anzitutto luoghi di ricerca e di studio e quindi di educazione. Ora, la ricerca e lo studio sono per pochi. Chi lo ha detto? Ma la scuola, l’università, sono forse per pochi? Noi almeno questo lo abbiamo imparato, gli americani magari ancora no: la scuola è per tutti ed è gratuita. La scuola non deve essere valorizzata e commercializzata, è lo Stato che deve preoccuparsene, perché la scuola è educazione, educazione anche al bello e non solo al bene e non solo al vero. Lo abbiamo visto, i tre aspetti non li possiamo disgiungere. Se la scuola è questo, la scuola deve essere per tutti e di fatto lo è, più male che bene, però la strada è quella e non si torna indietro da questa strada. Lo stesso deve accadere per i musei. I musei siano nient’altro che l’aula accanto alle altre aule scolastiche, siano una delle tante aule scolastiche. I musei questo devono diventare. Allora, il mio primo compito di uomo politico o di cittadino è quello di rivendicare per queste scuole il sostegno dello Stato. Perché o l’università la paghi con le tasse o la sostiene la comunità, lo Stato, tutti i cittadini insieme. Lo stesso deve accadere per i musei: non si devono finanziare da sé, il modello deve essere quello europeo, non quello americano. Cioè, il modello europeo delle scuole deve essere esteso ai musei a differenza di quello che accade in America, dove il modello scolastico è diverso: è il modello di scuole che si autofinanziano. Funzionano ahimè forse meglio delle nostre.

Saccardi. C’è, come sai, il problema delle risorse, ed è un problema enorme.

Givone. La decisione da prendere è: le risorse devono venire dalla comunità, oppure queste realtà, (università, musei) devono autofinanziarsi? Questa è la domanda alla quale non vedo tante risposte.

Saccardi. Naturalmente, il discorso si potrebbe allargare molto, perché è inutile che tu estenda l’educazione e che tu dia la possibilità di fruizione a tutti se poi impoverisci i contenuti che vengono offerti. Andando molto lontano, verrebbe da pensare al carattere anacronistico (ne accenna perfino don Milani), di una scuola che, nel momento in cui diventa scuola media unica toglie il latino, perché il latino è un ostacolo per le classi popolari; la sinistra è per le scienze, mi pare rilevasse don Milani, fotografando il dibattito di allora, mentre il latino è una materia da ricchi. Un dibattito cui sarebbe utile riandare, forse per rendersi conto di quanto tale assunto sia molto discutibile. C’è al fondo questa convinzione, una vecchia idea della sinistra: che, in fin dei conti, il popolo abbia bisogno solo di un’educazione tecnica e pratica (e certamente manca un’educazione scientifica e professionale, chi può negarlo?), con la paradossale conseguenza che le dimensioni più di carattere finemente culturali e spirituali vengono riservate alle élites.

Givone. Ma io non vorrei che questo oggi venisse applicato alle università e ai musei. Cioè, che l’università pubblica, l’università di tutti, debba essere quella a carattere scientifico, nel quale ambito siamo carenti, e in cui se uno vuole studiare Piero della Francesca e altre meraviglie, provveda egli stesso con i propri mezzi. No! Credo tu abbia ragione. Ciò che don Milani forse paventava per la scuola media, adesso lo possiamo vedere ad un livello più alto, a livello universitario e a livello di cultura storico-artistica alta. Una spaccatura, per cui alle discipline tecniche provvede lo Stato, che ha bisogno di ingegneri ecc., mentre quelle umanistiche ognuno se le coltivi da sé trovando i fondi, trovando i mezzi e così via.

 

La città come deposito di bellezza

Saccardi. Bisogna educare a leggere l’ambiente in cui ci si muove, soprattutto quello di carattere storico. La città è il deposito per eccellenza della bellezza. È grande, il patrimonio delle nostre belle città. A questo proposito, ci sono due problemi che mi vengono in mente e che mi piacerebbe discutere con te. Il primo è quello di cui tanto si parla, cioè quello del degrado, una condizione a cui ci si abitua come se questo patrimonio che ci è stato lasciato in eredità non fosse un patrimonio di tutti. Verrebbe da dire che quello che è di tutti in realtà è percepito come se fosse di nessuno; è un vecchio vizio della nostra mentalità ed è anche una minaccia per le nostre città, che viene fuori in modi eclatanti, come quando qualcuno (è successo più di una volta) spacca un pezzo di statua, ma che ha effetti anche nella vita quotidiana: l’imbruttimento della realtà urbana e lo svuotamento del tessuto urbano, (come talora si vede anche a Firenze e come sai, essendo stato assessore alla cultura di questa città) ha anche qui la sua origine. L’altro aspetto (alcune volte analizzato dai mezzi di informazione) di cui sarebbe importante discutere, è la convivenza, o meglio la sperimentazione di tentativi di convivenza tra la città storica, la città rinascimentale, con i suoi monumenti ereditati dalla storia, e la contemporaneità. Gli innesti e gli accostamenti, che ogni tanto si provano, sanno di sperimentazioni un po’ arrangiate, però questo è sicuramente un tema enorme. Il bello da una parte è legato a un’idea universale, eterna, ma poi ha la storicità delle sue manifestazioni. Ecco, noi oggi viviamo un passaggio molto complesso nel quale abbiamo l’impressione, mi pare, che si vada un po’ sulla base dell’improvvisazione rispetto ad una problematica che sarebbe importante approfondire ed affrontare con coraggio e con saggezza. Non so se condividi.

Givone. Ho un sospetto, cioè che il degrado e poi la spaccatura di cui parli, e che è sotto gli occhi di tutti, tra una periferia triste, senza anima, degradata e un centro che conserva il suo passato, che però lo conserva separatamente, come cosa appunto da conservare…

Saccardi. …un po’ come città-vetrina…

Givone. Io ho il sospetto che tutti questi fenomeni (il degrado delle periferie e il centro come vetrina, un mondo fisso, un mondo schizofrenico, un mondo dove il nuovo non ha più nulla a che fare con la bellezza, da una parte, dall’altra la bellezza è cosa per pochi esteti, non fa più parte della vita, ecc.) abbiano un’unica e principale origine. «Questa realtà da dove viene?», mi domando. E, qui è il sospetto, non viene forse da quella spaccatura tra mondo della tecnica e mondo delle arti e dell’estetica? Una spaccatura su cui faremo bene a interrogarci, che non è scritta nelle cose, ma di cui siamo noi responsabili e che a volte sembriamo quasi volere. Quando noi decidiamo, come dicevamo prima, che l’università deve occuparsi soltanto o principalmente delle discipline scientifiche, lo Stato deve promuovere l’insegnamento delle discipline scientifiche e lasciare la cultura umanistica a poche anime belle, si prendono decisioni gravi, che hanno poi una ricaduta nel modo in cui viviamo, nello stile di vita, uno stile schizofrenico: le periferie orrende, invivibili, il centro come salotto buono, visitato soltanto come si va a visitare una vecchia zia. Questa schizofrenia viene da lì, viene dal fatto che abbiamo perduto il senso dell’unità organica di scienza e arte. La Fabbrica del Duomo era innanzi tutto il luogo in cui scienziati e artisti si incontravano, ma la differenza che poi noi abbiamo stabilito fra scienza e arte neanche se la sognavano. Fare scienza, quindi sviluppare una determinata tecnica, rispondeva a dei criteri di lavorazione che non avevano nulla a che fare con lo spirito, con l’anima, ma con la materia, e tuttavia fare scienza era al tempo stesso fare qualche cosa di profondamente umano. Viceversa, studiare la lingua, la filologia, per non dire le scienze dello spirito, coltivare l’arte, coltivare la bellezza, era qualcosa di scientifico. Non c’era questa divisione fra le culture. Torniamo a interrogarci su questo: è davvero un destino questa schizofrenia, questa separazione? Forse no. Certo, se noi cominciassimo dal togliere dalla nostra testa che un conto è la tecnologia e un conto sono i musei, che un conto sono i laboratori e un conto sono le industrie, un conto sono i grandi cantieri di produzione e un conto sono le scuole di ricerca spirituale, avremmo fatto un bel passo avanti.

 

C’è bisogno di un nuovo umanesimo

Saccardi. Quando si dice che c’è bisogno di un nuovo umanesimo, credo si voglia dire questo: c’è bisogno di unificare di far interagire, linguaggi, competenze e contenuti fra loro diversi.

Givone. …sì, si dice questo, siamo stati i primi a operare questa scissione. Se cominciamo a dire che il latino è cosa per pochi eletti già si opera la scissione. Io, poi, intendiamoci, non ritengo che il latino sia una cosa eterna, però…

Saccardi. …però il latino, adesso, è considerato una cosa per pochi, perché i più lo vedono come un inciampo.

Givone. Questo oggi non vale più solo per il latino, vale per la cultura storico-artistica. Questa viene veramente chiusa in un ghetto, un lusso per pochi, e poi si comincia a dire: «La vuoi? Provvedi a pagartelo questo lusso». Quando si dice che il museo deve autofinanziarsi, si è già imbucata questa strada e questa strada non mi piace. Il museo non deve autofinanziarsi, il museo deve essere finanziato. Questa è la ratio politica che io contesto. Il museo deve essere finanziato dallo Stato, perché il museo è una scuola allo stesso titolo con cui lo è l’università. E l’università, la scuola in cui si impara a leggere Dante, è altrettanto importante della scuola in cui si impara la scissione nucleare. Lo stesso.

Saccardi. È il vetusto tema della scissione fra le due culture.

Givone. Certo, ma abbiamo fatto un passo ulteriore, abbiamo deciso che una è la cultura necessaria, quella dei sei giorni della settimana, e l’altra è la cultura della domenica. Quindi, non solo abbiamo scisso le due culture, ma abbiamo fatto un passo in più che è un passo tragico.

Saccardi. L’uomo che viene dimezzato ne è la conseguenza. Verrebbe anche da pensare (non so se sia un passo un po’ azzardato che ci porta fuori strada), che in questa incapacità di integrazione fra dimensioni diverse dell’umano, in questa sostanziale cecità, che vi sia un tratto e un problema di carattere antropologico. Come se l’uomo contemporaneo, da una parte avesse fatto un percorso importante e anche positivo perché si è scoperto parte della natura, si è scoperto parte del mondo, ha scoperto i suoi tratti anche di animalità, riconoscendo la comune creaturalità con tutti gli esseri viventi. Perdendo, però, in questa acquisizione, il senso del suo carattere specifico, rispetto al mondo naturale e al mondo animale cui pure, in certo modo, appartiene. Non so se questo possa essere direttamente ricollegabile a quest’idea e al tema, qui discusso, della visione dell’arte come possesso, della bellezza come pura fruizione; ma certo, in generale, è come se in questo processo di immersione dell’uomo nella naturalità del mondo, che è parte della modernità e della contemporaneità, si fosse anche spento qualcosa.

Givone. Si diceva prima, torniamo a Platone. Adesso dico, torniamo a Kant. Credo che su questo punto la parola chiave, la parola decisiva, come tante altre del resto, l’abbia detta Kant; cioè, è vera l’una cosa e l’altra, però attenzione entrambe sono dimensioni vere, anche se sono in contraddizione. Cosa intendo dire? È vero che l’uomo è parte di quello che Kant chiamava il mondo fenomenico e in quanto parte del mondo fenomenico è animale, e lo è a pieno titolo; l’uomo è parte del mondo fenomenico e quindi è governato dal principio di causa ed effetto, quello che Kant addirittura chiamava il meccanismo universale. Ma se è vero questo, è altrettanto vero che l’uomo è libero, l’uomo è parte del mondo noumenico; questo vuol dire vedere nell’uomo un essere responsabile, uno che risponde delle proprie azioni. Noi non possiamo rinunciare, pena il completo oscuramento del nostro sguardo sull’uomo, né a una verità né all’altra, anche se sembrano essere verità contraddittorie perché il mondo fenomenico e il mondo noumenico sono nell’uomo lo stesso mondo. Non sono due mondi, con l’uomo che è un po’ è qui e un po’ è là. L’uomo è sempre quello. Quello animale, parte del mondo fenomenico, governato dal principio di causa ed effetto, ma anche l’uomo responsabile. Se rinunciassi ad una di queste due verità, diceva Kant, non capirei più niente dell’uomo, l’uomo mi diventerebbe ancora più incomprensibile di quello che è già quanto a enigma e mistero. Ma sarebbe ancora più misterioso, ancora più enigmatico se io dicessi, come oggi si tende a dire: attenzione, l’uomo è un animale e nient’altro che un animale, il resto sono illusioni; oppure se io dicessi, all’opposto, che l’uomo in realtà è puro spirito, l’uomo è un angelo, e poi c’è questo elemento bestiale in lui che però è tenuto sotto controllo ed è, comunque, secondario. Bisogna dire entrambe le cose e avere il coraggio di tenerle ferme, diceva Kant, cioè entrambe unite nello stesso soggetto che è l’uomo.

 

Teniamo cara la lezione di Kant

Saccardi. Questo, per certi aspetti, è già anticipato da Pascal.

Givone. Sì, perché, come ben sai, c’è quest’idea di un Kant pascaliano, di un Pascal che porta a Kant. Ma c’è in questo, comunque, una profonda verità: questo è l’uomo. Il mondo moderno, spesso, la riscoperta dell’animalità la concepisce in senso univoco e, pur riportandolo con i piedi per terra, deresponsabilizza l’uomo, lo svuota di valore. Così come è una forma di accecamento credere che siccome l’uomo è responsabile, è chiamato a dare conto delle sue azioni e a pagarne il fio, come si dice, il resto non conti, secondo un certo spiritualismo. La lezione di Kant, davvero, teniamola cara, teniamola preziosa, perché con essa capiamo, per esempio, di nuovo, che cos’è l’arte. L’arte non è soltanto l’illusione di un animale particolarmente dotato quanto a fantasia, l’arte è il luogo in cui l’uomo si misura con quello che è veramente, e quindi con la sua libertà, con la sua dignità e con ciò che lo costituisce in quanto uomo. È l’arte che ci parla della libertà, è l’arte che ci dice che la libertà non è soltanto una fantasia, ma è qualcosa di molto reale.

Saccardi. D’altra parte, andando verso la conclusione di questa nostra conversazione in cui sono emerse così tante considerazioni, non si può non sottolineare (tanto più su una rivista come «Testimonianze») come l’universale capacità di creare si esprima nella varietà delle forme, delle espressioni culturali e artistiche, alla cui comprensione e conoscenza è importante aprirsi. Perché il senso dell’arte e del bello, come abbiamo detto, possiamo considerarlo come un qualcosa di universale, ma le sue manifestazioni sono le più varie. Nel volume in cui la nostra conversazione viene riportata, si parla specificamente delle espressioni del bello nelle culture «altre». Credo che contro una visione massificata, consumistica e omologante del patrimonio culturale e artistico e del bello, ci sia molto da fare e molto da conoscere in questa direzione, per la valorizzazione della relatività delle culture umane.

Givone. Certamente. Tu pensa alla stessa nozione di bello: un conto è il bello in Occidente e un conto è il bello in Oriente. In Oriente forse non si può neanche tradurre la parola «bello» o il termine «bellezza». Ce ne sono tante altre per esprimere i concetti di cui qui ci siamo occupati. Però, quello che importa, una volta che abbiamo capito di cosa stiamo parlando, è che ne parliamo in termini di bellezza o in termini di gratuità: pensiamo a certe espressioni del bello in Giappone, nella cultura Zen, ecc. La domanda allora è: di che cosa stiamo parlando? Abbiamo davvero capito di che cosa stiamo parlando? Cioè, abbiamo capito che stiamo parlando della sostanza stessa di cui siamo fatti? E non soltanto di un elemento marginale, decorativo, di un di più che può consolarci, che può gratificarci, ma che non è così importante, non è così sostanziale. No, stiamo parlando di qualcosa di sostanziale. E perché stiamo parlando di qualcosa di sostanziale? Perché, ecco, non usiamo la parola «bellezza», usiamo la parola «grazia», che ci ha aiutato a capire che la bellezza è pur sempre anche altrove. La parola «grazia» vuol dire fare i conti col dono, col fatto che qualcosa mi viene donato gratuitamente, mi obbliga a chiedermi, allora, in che rapporto io sto con la trascendenza, che non è detto che sia Dio, in che rapporto sto con qualche cosa che viene da un altrove che non so neanche pensare, ma che intuisco essere presente. O in che rapporto sto io con la mia vita che mi è donata, per esempio, e che quindi non può essere altro che un rapporto estatico, non un rapporto di pura identità, di puro possesso. Ma di qualcuno che dice «Da dove?», «Verso dove?, «Che senso ha tutto ciò?». Ecco, uno che si pone il problema del senso, proprio nel momento in cui niente sembra averne, di senso. Eppure, me lo chiedo, e me lo chiedo perché, appunto, la mia vita mi appare come un dono, un dono da qualcuno o da qualche realtà trascendente verso la quale io, se non altro, alzo gli occhi. Quando parliamo di bellezza, questo sto dicendo, e così di grazia, di evento, stiamo parlando di qualche cosa di sostanziale, di qualche cosa che è la sostanza

dell’umano. Questo è il punto.

Saccardi. Non di un orpello.

Givone. Non di un orpello, perché, sì certo, noi possiamo dire che siamo delle creature naturali, i bisogni fondamentali sono quelli di ogni altro essere vivente, il resto è un di più. Se ragioniamo in questi termini, ragioniamo male, siamo fuori strada, cioè se pensiamo che la bellezza sia un orpello, siamo fuori strada. La bellezza è una cosa seria…

Saccardi. Un disvelamento!

Givone. Certo, di che cosa è difficile dire, ma sicuramente di qualcosa che ha delle radici ben profonde.