UN’ECONOMIA ORMAI MATURA, MA ANCORA DI NICCHIA

di Simone Siliani

Migliaia di persone vivono all’interno di sistemi di economia sociale e solidale (imprese e cooperative sociali, istituzioni finanziarie etiche, microcredito, imprese recuperate, ecc.) costituendo una galassia composita e ancora frammentata, che fatica a pensarsi come un sistema alternativo a quello dell’economia di mercato e finanziaria, tuttora dominante, seppure in forte crisi. Si tratta di settori che si preoccupano, comunque, delle conseguenze non solo economiche ma anche ambientali e sociali della loro attività e che, grazie anche alla tecnologia, riescono a generare valore condiviso.

 

Critica del modello neoliberista

L’economia sociale e solidale è ormai un’economia matura, nel senso che nel suo pur breve arco di vita, ha esploso gran parte degli elementi che ne fanno un sistema, articolato e in espansione, di teorie, modelli praticati, soggetti, istituzioni e prospettive di sviluppo. Nasce come critica profonda e radicale al paradigma economico affermato, quello del liberismo nella sua fase di maggiore espansione nell’età della globalizzazione. È importante ricordare che quando la critica ad una economia indifferente ai valori sociali e della solidarietà con il pianeta e fra le generazioni inizia a manifestarsi, il sistema dell’economia mainstream è al suo culmine: sono gli anni del reaganismo e del tatcherismo e per quasi trent’anni nessuno scommette un dollaro bucato sulla possibilità che esso possa entrare in crisi. L’idea che attraverso l’evoluzione finanziaria del modello del neoliberismo, la crescita economica non trovasse limiti di sorta e che, infine, questa crescita – pure foriera, anzi fondata, sulle crescenti diseguaglianze nella distribuzione del reddito – potesse se non risolvere almeno lenire le inevitabili conseguenze sociali e ambientali di un simile modello economico, era data per vincente e invincibile. L’opposizione teorica e sociale a questo modello era vista come residuale, destinata a soccombere o ad essere conquistata dalla forza intrinseca del modello economico imperante. Il quale ha mostrato in realtà la sua fragilità, entrando in una profonda crisi a partire dal 2008 negli Stati Uniti per poi diffondersi nel mondo; è in Europa, però, dove ha dato luogo ad uno dei periodi di recessione economica più lungo della storia recente e una crisi sociale di vaste dimensioni che non accenna a ristabilirsi, anche a fronte di una modestissima ripresa della crescita economica nel continente. Anzi, paradossalmente, alla leggera ripresa economica, in quasi tutto il continente ha fatto riscontro una stagnazione sociale ed un peggioramento dei dati sull’occupazione e, soprattutto sulla distribuzione del reddito, cioè della disuguaglianza. Una tendenza tanto più vera in Italia dove, a fronte dell’inversione dell’andamento negativo del PIL (ci sembra questa la descrizione più corretta dell’andamento dell’economia italiana non potendosi definire il +0,7% del 2015 una ripresa della crescita), gli effetti sociali della crisi e delle risposte ossessivamente incentrate sulla riduzione della spesa pubblica continuano ad incidere pesantemente sulla qualità della vita degli italiani.

 

La crescita della disuguaglianza

A questa condizione di fragilità del sistema economico globale corrisponde una crescita della disuguaglianza, tanto a livello globale quanto soprattutto all’interno delle nazioni. Per la verità questa è una

tendenza che i più autorevoli studi in materia registrano fin dall’Ottocento1 anche se nell’ultimo periodo la disuguaglianza mondiale ha dato segni di inversione di tendenza. Ma, al contrario, ciò che continua a crescere anche in questi ultimi anni (1992-2008) sono le differenze di reddito interne alle nazioni e, nonostante la stazionarietà o la riduzione delle disuguaglianze interne ad alcune nazioni (fra quelle studiate: Brasile, Colombia, Messico, Cile, Perù, Thailandia, Tunisia, Turchia), complessivamente la disuguaglianza interna è aumentata nel periodo considerato.

Il contributo della disuguaglianza interna alla determinazione della disuguaglianza mondiale costituiva il 33,5% del totale nel 1992, mentre nel 2008 è arrivato ad essere responsabile di oltre il 45% della disuguaglianza totale mondiale. Nell’Unione Europea complessivamente è aumentata la disuguaglianza totale fra il 1980 e il 2008, soprattutto a causa delle differenze interne agli Stati, che da sole contribuiscono a determinare l’85% della disuguaglianza totale. L’allargamento ad Est dell’Unione ha accentuato questo dato; in particolare l’allargamento del 2004, con l’inclusione di Repubblica Ceca, Ungheria, Polonia, Slovacchia e Slovenia, ha contribuito ad ampliare la disuguaglianza all’interno dell’Unione (anche se da solo questo elemento non basta a spiegare il fenomeno). Ulteriori metodi di valutazione della concentrazione della ricchezza seguiti da diversi studi mettono l’accento su altri elementi. È il caso dei cosiddetti Top Income2 della lista Forbes. Questo parametro ci dice che nel 2000 l’élite dei Top Income possedeva circa il 48% della ricchezza mondiale. Negli anni successivi questa percentuale era lentamente scesa sino ad un valore minimo pari al 44%, registrato in corrispondenza della crisi economica avvenuta nel periodo 2007-2009.

A partire dal 2010, la quota di ricchezza mondiale posseduta dall’1% di super ricchi ha ripreso a crescere, tornando ad essere pari al 48% nel 2014. In soli quattro anni le 80 persone in cima alla lista Forbes, considerate insieme, sono passate da 1.300 a 1.900 miliardi di dollari di ricchezza posseduta, e i maggiori incrementi di ricchezza sono avvenuti in settori produttivi essenziali, quali quello sanitario e farmaceutico3. Tutti gli studi, da quelli più «alternativi» a quelli mainstream, concordano sulla crescita del fenomeno della

disuguaglianza nel mondo, il che indica, quanto meno, un cattivo funzionamento dell’economia mondiale. Anche in un ampio studio del Fondo Monetario Internazionale4, realizzato considerando il reddito disponibile in 109 nazioni, si conclude che tra il 1990 e il 2010 le disuguaglianze interne sono cresciute in buona parte del mondo: tra i cosiddetti paesi avanzati (21 nazioni considerate), nei paesi europei emergenti (21), nei paesi asiatici (14) e nelle nazioni africane di Nord-Est (12). Le uniche regioni caratterizzate da una diminuzione delle disuguaglianze solo l’America Latina (19 nazioni considerate) e l’Africa subsahariana (22), dove tuttavia si registra un aumento di disuguaglianza per almeno un quarto delle nazioni considerate. Joseph Stiglitz, nel suo saggio Il prezzo della disuguaglianza5, concentra la sua attenzione negli Stati Uniti e sottolinea come la dinamica della disuguaglianza si sia intensificata a partire dagli anni della crisi 2007-2008. I suoi costi sociali e politici, sono ancora presenti nella società americana che pure presenta una certa ripresa dell’economia, e ha prodotto un grave e diffuso malessere dei cittadini e della stessa democrazia statunitense. Il giudizio di Stiglitz sull’economia americana è lapidario: «L’economia in America non va bene e non va più bene da almeno trent’anni. Benché sia riuscita a incrementare il PIL procapite di tre quarti, dal 1980 al 2010, non ha potuto impedire la discesa dei salari della maggior parte dei lavoratori full-time di sesso maschile»6. E ancora: «(…) il mercato del lavoro inizia a somigliare (per disoccupazione e impossibilità di riposizionarsi a seguito di un licenziamento) a quello di molti paesi europei, l’aumento dei redditi nel 2010 riguarda prevalentemente il primo 1% della curva della distribuzione»7. «Nel 2010, il livello di disuguaglianza interna negli Usa è leggermente superiore a quello di Iran e Turchia, e di molto superiore a quello di qualsiasi paese della UE»8.

 

Un sistema senza alternative?

Tutto lascerebbe pensare che le prove dell’inefficienza del paradigma dell’economia mondiale, possano aprire la strada ad un cambio radicale di paradigma e l’economia sociale e solidale potrebbe quanto meno essere uno degli elementi fondanti di un nuovo paradigma economico per il XXI secolo. Ma niente di tutto questo avviene e, pervicacemente, il modello economico continua a muoversi nella stessa direzione degli ultimi decenni. Tanto che proprio di recente si è paventata, da parte di più di un commentatore, la possibilità

di nuove crisi finanziare, dovute a bolle speculative o all’accumularsi di crediti deteriorati nella pancia delle banche e degli istituti finanziari di tutto il mondo (Italia compresa). Steven Eisman, famoso per aver ispirato il film La grande scommessa, ad esempio, si è detto convinto che la sopravvalutazione del valore dei mutui subprime che sono nella pancia delle banche italiane mette a forte rischio il loro capitale, che varrebbe molto meno e che, in caso di crisi, verrebbe spazzato via, diffondendo ben oltre i nostri confini i germi di una crisi simile a quella del 2007-2008.

Quasi niente è, dunque, cambiato nel modo di funzionare dell’economia mondiale da quegli anni, se non la presenza attiva della Banca Centrale Europea guidata da Mario Draghi, che continua a pompare liquidità nel sistema bancario acquistando massicciamente titoli di stato dalle banche centrali degli stati membri. Tuttavia, l’economia sociale e solidale, mentre ha costruito negli ultimi anni esperienze e modelli efficaci e abbastanza solidi quando la crisi esplose mostrando le debolezze intrinseche del sistema, non è riuscita (fin qui almeno) a trasformarsi in una proposta alternativa reale all’economia liberista; non si è fatta paradigma economico sostitutivo di quello esistente. Certo, i poteri che poggiano le proprie fortune sulla finanza mainstream sono forti, radicati e diffusi. La narrazione che è passata nel discorso pubblico è che il sistema è questo e non sono possibili alternative; anzi non è neppure concepibile un diverso modello. Così siamo in presenza di questa (apparente?) aporia: migliaia di persone vivono già all’interno di sistemi di economia solidale (basti pensare alla diffusione delle imprese e cooperative sociali, alle istituzioni finanziarie etiche, al microcredito, alle imprese recuperate, ecc.), ma questa realtà non viene pensata come sistema. Eppure tutti i dati ci dicono che gli strumenti dell’economia solidale hanno una efficienza paragonabile se non superiore a quelli tradizionali.

 

Un’economia socialmente responsabile

Fra i tanti prendiamo il caso dell’investimento responsabile. Un recente studio Morningstar sull’universo globale dei fondi mostra come quelli con un mandato «socialmente responsabile» non penalizzano gli investitori. Lo studio prende a riferimento gli anni 2002-2016 e utilizza un parametro di valutazione basato su un rating (da 1 a 5 stelle) che misura il profilo di rischio/rendimento. Ebbene, i fondi socialmente responsabili presentano un rapporto rischio/rendimento migliore rispetto alla media dell’universo fondi nei

profili 3 e 4 stelle e appena inferiore nei profili 2 e 5 stelle. Fra i fondi socialmente responsabili quelli che includono i fattori ambientali, sociali e di governance nel processo di costruzione del portafoglio titoli e quelli che scelgono solo di includere società sostenibili socialmente e ambientalmente e non di escludere a priori alcuni tipi di società (es. tabacco), hanno migliori performance. Inoltre, se confrontiamo il più antico indice socialmente responsabile esistente, l’Msci KLD400, con l’indice «tradizionale» S&P 500, dal 1990 al 2016, il primo ha rendimenti superiori al secondo in media di 81 punti base ogni anno. Dunque, soprattutto negli otto anni della crisi (ma anche prima) la finanza – e l’economia – socialmente responsabile funziona meglio, conviene per gli investitori, rispetto a quella tradizionale. Stiamo parlando di segmenti dell’economia che si preoccupano delle conseguenze non economiche, ma anche ambientali e sociali, dell’attività economica. È un’economia inclusiva, che si propone chiaramente un obiettivo di eguaglianza: quello di far sì che ogni essere umano possa partecipare effettivamente alla sfera economica come creatore, produttore e beneficiario. In questa economia viene ormai superata la dicotomia profitto/non profitto: al profitto non viene più attribuita una valenza demoniaca, ma costituisce al contrario uno degli elementi della sostenibilità di un’impresa economica. Tuttavia, il profitto deve rappresentare una giusta remunerazione del capitale investito ed essere comunque il frutto di un rapporto fra capitale e lavoro che escluda lo sfruttamento delle persone e dell’ambiente. Possiamo dire che questa economia si muove nel solco tracciato dall’articolo 41 della Costituzione che assegna all’intrapresa economica pubblica e privata una funzione essenzialmente sociale e che, per questo, traccia anche dei limiti all’impresa privata e al profitto che essa deve generare per sostenersi e riprodursi. Ancora, è un’economia che non si propone di tornare all’età pre-moderna del denaro come mezzo di scambio o a quella antica del baratto; al contrario fa i conti con l’evoluzione più recente dell’economia e della finanza. Non rinuncia a comprenderne i più oscuri meccanismi di funzionamento, perché sa che da essa dipendono le vicende del pianeta. Ma ritiene che essa non possa essere un fine in sé, che anzi debba ritrovare un suo senso (ormai perduto negli algoritmi e negli apparati tecnologici che ne fanno una creatura vivente quasi di vita propria) solo se torna al servizio di finalità sociali e ambientali, di giustizia e sostenibilità. E, dunque, che può e deve essere governata e indirizzata verso fini diversi da quello esclusivo di produrre soldi (peraltro fittizi) dai soldi. L’impresa che questa economia vede e alimenta (e da questa viene a sua volta alimentata) non ha come unico scopo quello di produrre prodotti e dividendi per i detentori di share, bensì quello di generare valore condiviso, cioè economico sociale e ambientale. È una impresa che genera bene comune e che opera anche sulla «redistribuzione», fondandosi su principi di «reciprocità» e sulla capacità di affrontare i nodi critici dell’ingiustizia anche attraverso l’attività economica, sul valore della relazione umana, sulla inclusione delle persone.

 

Fra crisi e nuove opportunità

I soggetti produttivi, ma anche quelli economici e finanziari che sostengono questo tipo di economia si muovono in un contesto assai complicato, in cui la crisi del modello di welfare occidentale (cioè quella idea e pratica dello sviluppo in cui hanno coinciso le fasi di crescita economica con il dispiegarsi di strategie di espansione dei diritti civili e sociali e di inclusione sociale) è evidente, ma nessuno dei protagonisti politici sembra in grado di elaborare e proporre una alternativa che non sia quella del neoliberismo. Anzi, con le politiche di austerità assunte a livello europeo come cura della crisi economico-finanziaria (in realtà assai poco efficaci), quel modello positivo si è rovesciato nel suo contrario: la spesa per il welfare è concepita come disvalore in quanto fa alzare il debito pubblico e il rapporto fra deficit e PIL oltre la soglia del 3% (arbitrariamente) stabilita dal Patto di Stabilità e Crescita come pericolosa dall’Unione Europea. Rovesciamento che stride con l’altra parte delle politiche europee, costituito dal Pacchetto di investimenti sociali per la crescita e la coesione con il quale l’Unione investe risorse del bilancio europeo proprio per garantire che i sistemi di protezione sociale degli stati membri siano più efficaci ed efficienti, oltre che per investire sulla formazione degli individui. A questo elemento di crisi strutturale della cultura, oltre che della operatività, dei sistemi di welfare, si affiancano altri elementi di criticità dell’ambiente socio-economico-

politico in cui si muove l’economia sociale e solidale: le crisi umanitarie con le migrazioni di massa; l’aumento della povertà e della marginalità per milioni di persone; gli effetti dei cambiamenti climatici (che non sono più preconizzati, ma che iniziano a manifestarsi a diverse latitudini del globo); la crisi dei corpi intermedi e degli enti che aggregano i cittadini, sempre più costretti a far fronte individualmente alle crescenti difficoltà; l’espulsione dal mondo del lavoro e la crescente precarietà del lavoro stesso, che hanno fatto crescere il numero degli inoccupati e dei giovani NEET, che non hanno più neppure la forza e la volontà di cercare un lavoro e trovano inutile proseguire il percorso formativo. Tuttavia vi sono anche opportunità significative per i modelli di nuova economia, che semplicemente quindici anni fa non esistevano e che possono essere colti per guadagnare quella egemonia culturale che non hanno saputo conquistare fino a qui. Infatti, Internet e la rivoluzione digitale consentono oggi una maggiore facilità di

accesso alle informazioni e alla loro condivisione, dando vita a nuove reti locali, nazionali e internazionali di protagonisti, accomunati da valori e visioni comuni: penso alla sharing economy, alle reti d’impresa, agli incubatori d’impresa, hub, alle PMI innovative e alle Società Benefit, all’industria 4.0; certamente la nuova fase di sviluppo delle imprese sociali e del welfare generativo; ma anche i nuovi modelli di finanziamento sociale come il crowdfunding e il crowdinvesting; come pure i mercati virtuali, le monete complementari

e la riduzione dei costi delle transazioni. Si tratta di innovazioni sociali sorrette da innovazioni tecnologiche che aprono orizzonti nuovi all’economia nella misura in cui, ovviamente, si coniughino con l’emergere dei nuovi movimenti che stanno costruendo valori nuovi per l’economia stessa. Movimenti che pongono al centro della propria azione culturale e politica il recupero della dimensione relazionale nelle attività economiche e il rafforzamento dell’approccio mutualistico nella soddisfazione dei bisogni.

 

Uscire dalla nicchia

Questi movimenti, che si riferiscono tutti ad una idea di economia al servizio del la società (indipendentemente dal nome che le attribuiscono: economia solidale, del bene comune, civile, di comunità, di prossimità, ecc.), sottendono certamente a nuovi stili di vita individuali, ma la cosa più rimarchevole è che stanno contaminando esperienze e il modo stesso di concepire l’impresa. Le stesse politiche di Responsabilità Sociale d’Impresa stanno rapidamente passando dall’essere caratterizzate essenzialmente come scelte di marketing, al costituire uno degli elementi sempre più forti di identità aziendale. Per tutti basterebbe fare riferimento al vasto e composito mondo dell’agricoltura biologica, sociale o a Km.0, oppure al manifestarsi di una nuova fase di sviluppo dell’impresa sociale, intesa anche come superamento della dicotomia fra impresa pubblica e impresa privata nella gestione dei servizi pubblici e dei beni comuni. Le risposte della politica a questo fermento appaiono ad oggi deboli e contraddittorie, per quanto non del tutto assenti. Possiamo, ad esempio, annoverare fra le risposte negative la riforma italiana delle banche di credito cooperativo che tende a misconoscere la validità delle esperienze e della cultura del mutualismo, preferendo come criterio quello della dimensione quantitativa delle banche nella convinzione (fin qui smentita dalla storia recente, v. Monte dei Paschi) che solo questa garantisca la stabilità degli istituti. Ma, sull’altro lato, vediamo tentativi interessanti di recepire e stimolare con normative specifiche le nuove forme dell’economia. Si può citare il Collegato Ambientale (L. n. 221/2015) che, fra le varie cose, prevede incentivi per gli acquisti verdi nella P. A. e a produzioni derivanti da materiali post-consumo, lo schema volontario dell’impronta ambientale per la competitività del sistema produttivo, incentivi a pratiche di scambio di beni usati tra cittadini, sistemi di remunerazione di servizi ecosistemici e ambientali. Ma anche il Collegato Agricoltura (approvato in via definitiva il 6 luglio 2016 dal Parlamento) che prevede sostegni a innovazioni nel biologico oppure la Banca delle terre. Ancora la riforma del Terzo Settore (L. n. 106/2016) che include il Servizio Civile Universale, la ridefinizione della disciplina dell’impresa sociale; la legge per la promozione

dell’agricoltura sociale (L. n. 141/2015); la modifica del Regolamento Consob su Equity Crowdfunding che semplifica le procedure e amplia la platea degli investitori; e molte altre normative e parti di esse che possono essere ricondotte ad una progetto più complessivo di economia sociale e solidale, che però ancora non esiste perché non c’è nessuno che sia in grado o intenda trasformare questa galassia frammentata in un sistema coeso, coerente e sufficientemente forte da poter contendere all’economia tradizionale non solo una narrazione che lo renda credibile, ma anche che possa imporsi per la forza intrinseca del sistema. I prossimi anni ci diranno in quale direzione si evolverà questa nuova economia, se rimarrà un’economia di nicchia o se invece saprà conquistarsi un ruolo trainante nella società del XXI secolo.

 

1 C. Morrisson, F. Murtin, Inégalité interne des revenus et inégalité mondiale, «Fondation pour les études et recherches sur le développement International », Document de travail, 26 settembre 2011.

2 Top income shares, quota di reddito nazionale appropriata da piccoli e privilegiati segmenti della popolazione (n.d.r.).

3 OXFAM, Grandi disuguaglianze crescono, gennaio 2015, www.oxfam.org.

4 FMI, Fiscal policy and income inequality, http://www.imf.org/external/pp/ppindex.aspx, 2013.

5 J. E. Stiglitz, Il prezzo della disuguaglianza, Einaudi, Milano 2013.

6 Ibiden, p. 33.

7 Ivi.

8 Ibidem, p. 31.