saccardiPAESI D’ITALIA NELL’ETÀ DEL «MONDO GLOBALE»
di Severino Saccardi

Insieme all’«Italia delle cento città» esiste anche quella, estesissima, dei piccoli centri. Realtà, spesso, caratterizzate da un forte senso dell’identità e della tradizione (che oggi rivive frequentemente nella dimensione del folklore locale) oltreché da una buona «qualità della vita», ma anche investite da molte trasformazioni e messe alla prova da mille contraddizioni. Come nel caso dei paesi «abbandonati» (e del loro patrimonio artistico dimenticato). Anche il microcosmo delle realtà locali, nell’età dell’interdipendenza e della globalizzazione, d’altra parte, vive oggi in una dimensione nuova e i paesi d’Italia sono, in modo inedito, anche paesi d’Europa e del mondo.

Immaginando don Abbondio e i Bravi
Della realtà dei piccoli centri (mi scuso per il riferimento personale) ho conoscenza diretta. Fiorentino di elezione (e di animo), ormai da decenni, sono però nato nel territorio di un piccolo comune. Gaiole in Chianti. Nel cuore della Toscana. Zona (come sottolineano orgogliosamente gli abitanti) del «Gallo nero» (riferito al marchio di qualità del vino). Da Gaiole, però, la mia famiglia se ne è andata presto. Le prime quattro classi delle elementari le ho frequentate, nel comune di Monteriggioni in due minuscoli borghi, Badesse e Basciano. Costituito, quest’ultimo, da una manciata di case, poste su un cocuzzolo, a cui si accedeva per una ripida salitina bianca, fiancheggiata da un muretto. Un muretto e una stradina su cui, chissà perché, la mia fantasia di ragazzo avrebbe poi istintivamente collocato la manzoniana scena dei Promessi Sposi, in cui i Bravi attendono al varco don Abbondio che torna dalla sua passeggiata. Gli scenari di paesi e borghi sembrano fatti apposta per evocare immagini, scene e suggestioni di storie e leggende, e non solo di quelle legate specificamente alla memoria ed alla tradizione del territorio. Basciano, da questo punto di vista, nel mio mondo di bambino, era un incanto. Ci rimasi malissimo quando, in quinta elementare, i miei, in un nuovo trasloco, si spostarono (e io, ovviamente, forzatamente, con loro) in un nuovo territorio. Verso la Valdelsa fiorentina, e precisamente verso il comune di Barberino (di cui ora è sindaco l’amico, e redattore di «Testimonianze», Giacomo Trentanovi, che è uno degli autori di questo volume).
Ero spaesato, ma non sapevo che lì avrei trovato quella che, poi, avrei per sempre considerato (con tutto il rispetto per Gaiole o per Basciano, che non potrei mai dimenticare, intendiamoci) la vera «terra delle radici». Una terra, quella della Valdelsa e del Chianti fiorentino (ha ragione Giacomo a sottolinearlo) che è ricca di storia, di incomparabili (bellissimi, anche quando non vistosamente scenografici) paesaggi naturali, di tracce sapienti del tenace lavoro delle generazioni che vi si sono avvicendate. Lì avrei trascorso anni indimenticabili, in una casa di collina, appoggiata ad una chiesetta romanica (un po’ cadente, ma piena di fascino, nella sua austera semplicità), sviluppando nel frattempo relazioni umane e sociali in un territorio «di provincia», ma ricco di occasioni di incontro e di stimoli. Tornando verso Siena, nelle vicinanze, c’è Poggibonsi (polo d’attrazione, allora, per lo sviluppo industriale e per la sua rete di piccole imprese) e Colle Val d’Elsa, con la suggestione del suo borgo antico e lo spessore, in ambito artigianale e operaio, della maestria dei suoi vetrai. A Colle Val d’Elsa, negli anni Settanta, sarebbe fiorita l’Utopia della base1 di un forte Collettivo Operaio (uno dei pochi collettivi veramente operai, in un periodo in cui della classe operaia la sinistra extraparlamentare coltivava soprattutto il mito, mentre i lavoratori in carne e ossa erano in genere schierati con la sinistra «tradizionale»). Un Collettivo a cui si sarebbe legato anche don Auro Giubbolini, un prete «di frontiera», promotore di un piccolo doposcuola nella minuscola frazione di Borgatello, amico di Alex Langer e già compagno di seminario di don Milani. Una storia importante quanto dimenticata. Da Borgatello e dal doposcuola di don Auro già si vedevano svettare le torri di San Gimignano. Un favoloso «piccolo centro», oggi inaccessibile per l’affollamento prodotto dalle frotte di turisti che vi accorrono da tutte le parti del mondo. È il rischio dei borghi e dei centri storici, quello della trasformazione ineluttabile in «città Disneyland».

Walter Benjamin a San Gimignano
Eppure, qualcosa della bellezza incorrotta di San Gimignano si può ancora intuire. Quel silenzio (che doveva essere tipico dei borghi medievali) che vi trovai quando, nel lontanissimo 1958, vi fui portato in visita scolastica dalla mia maestra di allora. La stessa atmosfera, e lo stesso incanto, ho poi scoperto, che, all’inizio del ventesimo secolo, vi trovò, nel suo giro in Italia, il grande Walter Benjamin. Che scriveva di un borgo che «(…) sembra scivolato, come di soppiatto da una porta, nella campagna» e in cui «(…) le strade sono cortili e in tutte ci si sente al riparo»2. Scendendo, oltre San Gimignano, cui fa concorrenza per la bellezza del borgo che conserva e che sempre rinnova la memoria di Giovani Boccaccio, si incontra Certaldo. E, risalendo verso Barberino Val d’Elsa e proseguendo verso Firenze, ci si imbatte in Tavarnelle Val di Pesa (paese che un tempo era soprattutto località di passaggio, che ha acquistato rilevanza nel tempo) e poi San Casciano (nel cui territorio Niccolò Machiavelli scrisse Il principe). Luoghi su cui aleggiano memorie lontane di miti, leggende o storie, belle, o, com’è spesso nelle vicende umane, assai dolenti. Come quella, carica di suggestione, della medievale Semifonte. Una vera località-crocevia, Semifonte, a metà strada fra Firenze e Siena. Un centro in rapida crescita, tanto da rischiare di fare ombra alla stessa Firenze. Che decise di risolvere il problema (come talora si faceva nei tempi andati e come, ahimè, non si è disimparato a fare) in modo spiccio. Semifonte fu rasa al suolo e i suoi abitanti trucidati o dispersi. Solo un paio di secoli dopo fu consentita l’edificazione di una piccola chiesa a memoria di quel che era stato. Un edificio, peraltro, di bellezza struggente, con una piccola cupola costruita ad imitazione di quella del Brunelleschi che sorge, a sorpresa, su un piccolo rialzamento del terreno, in mezzo agli ulivi e alle colline toscane. Uno spaccato, il microcosmo qui fuggevolmente tratteggiato, di quell’Italia minore su cui svilupparono interessanti riflessioni, alcuni anni fa, in un loro studio, Paul Ginsborg e Francesco Ramella3.

Da Altopascio a Zugliano
Viviamo, bisogna sempre ricordarlo (ed è la finalità anche di questo volume), nell’«Italia delle città», ma anche in quella, estesissima, della rete capillare dei borghi, dei villaggi e dei paesi, in cui risiede gran parte della nostra popolazione. In questa sezione monotematica, alcune realtà, del Centro, del Nord e del Sud, sono descritte e assunte come una sorta di «casi studio» o sono, comunque, ricordate o citate. Da Altopascio (Nannipieri) a Zugliano (Di Piazza). Realtà diverse, naturalmente e talora profondamente, l’una dall’altra. Eppure, con delle costanti che si ripresentano (e che certamente sarebbero risaltate prendendo in considerazione anche altri paesi, diversi da quelli qui descritti). In primis (come è da sempre, per i borghi e per i paesi), un forte senso della propria identità e del valore dell’appartenenza ad una certa comunità locale. Un tema, quello dell’identità che rimane centrale (come sottolineano anche i nostri autori) anche quando di essa sembra rimanere poco più che un simulacro. Ogni paese è, per così dire, pur nella somiglianza profonda con la moltitudine di realtà similari, un piccolo mondo a parte. E così vuole, perfino nell’età di Internet e della comunicazione «globale», continuare a considerarsi. Nello stesso tempo, quel piccolo universo, con le sue vicende, i suoi avanzamenti, i suoi travagli, non è che lo specchio di quel che succede nel più vasto mondo che c’è intorno. Ormai, di questo siamo edotti: non c’è nulla di meglio della microstoria, intrisa delle gioie, degli affanni, delle speranze e delle delusioni della quotidianità, per restituirci il senso della grande storia. Così è per Campobello, in Sicilia (di cui parla Commare) come per S. Pierino (denominazione familiare di S. Pietro in Campiano), di cui scrive Luisa Montanari, idealmente «a quattro mani» con Diana (De Lorenzi) che, con la sua capacità di affabulazione, sapeva presentarne la realtà come una sorta di piccola Macondo romagnola, caratterizzata dalla schiettezza dei rapporti umani, dalla convivialità e dalla memoria delle lotte sociali.
Naturalmente, un tema intrigante e sfaccettato come quello dell’Italia dei piccoli centri si presta ad essere inquadrato e studiato da una grande quantità di punti di vista. È un argomento di per sé inesauribile, tanto si presta ad essere, per più versi, sviscerato. A partire dalla consapevolezza della complessità del compito che ci siamo assunti, il nostro lavoro, avvalendosi di una pluralità di voci, si è proposto di dar spazio, com’è nostra tradizione, a diversificate sensibilità e competenze: da quelle di tipo socio-antropologico (rispetto alle quali fondamentali sono state le indicazioni di Fabio Dei, che è tra i curatori, oltre che tra gli autori del volume) a quelle di carattere urbanistico o politico-istituzionale a quelle di genere letterario fino a quelle di chi ha presentato, a partire dalla propria conoscenza o esperienza di vita, i diversi «casi-paese». È un mondo, quello della «provincia» italiana (come in genere lo si definisce, con un’intonazione vagamente svalutativa ed un po’ di supponenza) su cui molte considerazioni (al di là di quelle dei nostri autori, che ringraziamo, scusandoci se non riusciamo a ricordarli, tutti, per esteso) si potrebbero sviluppare.

Ernesto Balducci, girovago dell’impegno culturale nei piccoli centri
«È incredibile il patrimonio di esperienze culturali che si trova in giro per la provincia italiana» disse, una volta, Ernesto Balducci che, come girovago instancabile dell’impegno culturale e civile, di quella variegata realtà aveva un’ampia conoscenza. È quanto anche a chi scrive, raccogliendo inviti a tenere conferenze e incontri, è capitato, in tante occasioni, di constatare. Resiste, soprattutto, nella realtà di paese, la capacità di stupirsi, di appassionarsi, di arrabbiarsi, di accogliere con disponibilità l’ospite e il nuovo arrivato che, in altri contesti, sembra smarrita. In paese, non poche volte, anche nel tempo della multimedialità e della connessione globale, ogni presenza nuova su piazza, ogni incontro e ogni nuovo arrivo sono davvero vissuti come un’occasione e (non nel senso in cui, in genere, si è banalizzato il significato del termine) un «evento». La curiosità per il nuovo e per ciò che arriva dall’esterno e che viene a rompere il ripetersi sempre uguale a se stesso delle giornate, d’altra parte, si accompagna, non di rado, all’autoconsapevolezza del valore di una vita senza scosse e dai ritmi lenti, com’è spesso, nei piccoli paesi, immersi nel cuore della natura. Come fa rilevare Lucio Niccolai, parlando di Santa Fiora (un luogosimbolo, incantevole, e una volta poverissimo, paese natale di Ernesto Balducci) e dei paesi della Maremma, come Manciano, dai quali la vista può spaziare verso ampi orizzonti. Non bisogna, sia ben chiaro, e non è questo l’intendimento di questo nostro lavoro, cadere (o scadere) in un’immagine oleografica della vita di paese, che sarebbe quanto di più anacronistico potrebbe essere proposto. I piccoli centri e l’Italia minore hanno sempre avuto la loro ambivalenza, le loro contraddizioni, una qualità della vita e un tessuto di solidarietà umana cui spesso hanno fatto da contrappeso una certa angustia della mentalità e un forte controllo sociale sulla vita delle persone. Non a caso, nello snodarsi delle vicende storiche, si è talora affermato che l’aria della città (anche quando non salubre) «rende liberi». E ci sarà pure un motivo (anche se questo sarebbe in realtà un altro tema) se, in questi anni, il numero degli abitanti delle città, nel mondo, ha superato quello degli abitanti delle campagna. Con tutte le contraddizioni, gli elementi di complessità e le tensioni che questo comporta. È anche sotto gli occhi di tutti che i paesi, per dirlo quasi in battuta, non sono più quelli di una volta. Se non nelle immagini da cartolina e nelle rivisitazioni del folklore (che ora è, talora, come nota Fabio Dei, cyberfolklore).

Il destino dei paesi «abbandonati»
La «paesologia», di cui scrive Franco Arminio4, non può non tenere conto delle molte cose che, con i decenni, sono cambiate e di tutto quello che, nel frattempo, la storia ha macinato e portato con sé. Soprattutto in certe parti dell’Italia centromeridionale, potremmo quasi dire che «c’erano una volta», i paesi. Ora ci sono, e sono talora, bellissimi. Ma sono, a volte, paesi abbandonati o semi-abbandonati (Teti), la cui vista stringe il cuore e spinge alla malinconia, invitando però talvolta anche ad un consapevole recupero o ritorno. Abbandonati, o poco curati, sono anche tanti luoghi d’arte, chiese, edifici, rocche, castelli, dipinti sacri, patrimonio inestimabile del nostro Paese (Montanari, Nannipieri), il cui recupero dovrebbe essere inserito d’urgenza nell’agenda politica. L’Italia, oltre ad aver fornito moltitudini di povera gente all’emigrazione versol’estero (non c’è quasi località, in tanti nostri territori, in cui non potrebbe non essere aperto un museo dell’emigrazione, altro capitolo che sarebbe da mettere all’ordine del giorno), è stata terra di forti migrazioni interne. Dalla montagna (un mondo del cui smottamento a valle don Milani, vicino agli «ultimi degli ultimi», i montanari, appunto, fu diretto e consapevole testimone) alla pianura, dalla campagna alla città e, soprattutto, quasi con un esodo, da Sud a Nord. Tantissimi, i paesi del Sud, che via via si sono dissanguati di giovani, che avrebbero cercato altrove il loro destino. Ma lasciare il luogo natio, si sa, non è indolore. Il tema del paese fa tutt’uno con il tema delle radici. Le radici sono preziose e la consapevolezza del loro valore ognuno porta con sé e la deve intimamente custodire. Ma sono anche un legame, un rovello, una domanda che, inopportuna, torna periodicamente, e involontariamente a porsi. Il tema dell’andare e del lasciare implica, spesso, l’assillo dell’interrogativo sull’eventualità del ritorno. Cos’è il ritorno? Una chimera? Una possibilità remota? Una regressione? Non si sa. Come diceva la canzone di un tempo, «risposta non c’è». Ma l’inquietudine rimane. Ed è l’inquietudine che ha accompagnato, e ha roso dall’interno, migliaia di meridionali (e non solo) che con quel che, di loro, è rimasto al paese d’origine hanno dovuto fare molto spesso i conti.

Il figlio del figlio
È un rovello che è reso in maniera efficace, e a tratti toccante, da un piccolo (come lo sono i libri Sellerio) e, a mio parere, bellissimo libro dal titolo Il figlio del figlio5. È una storia che ha al centro il rapporto fra generazioni (come rappresenta, in maniera evidente, il titolo) e quello con l’immagine (e la realtà materiale) della terra d’origine. La terra d’origine è Barletta e la vicenda è tutta incentrata sul lungo viaggio che viene intrapreso da padre e figlio, insieme al nonno (che più di tutti sente il legame con quel che è stato e non è più) per decidere se vendere la casa al mare in cui un tempo erano stati felici e che adesso sta andando in malora perché, da anni e anni, nessuno vi si reca più. Viene il momento in cui ci si deve confrontare con quel che è rimosso. E il rimosso, non solo nella psiche e nella coscienza individuale, è talora di notevole rilevanza. Chi si ricorda più, per toccare solo di striscio una questione che qualche relazione (sia pure non diretta) con la materia qui trattata ce l’ha, che, in Toscana, il 65% della popolazione era costituita di mezzadri? Un mondo scomparso e di cui non c’è più memoria se non in qualche interessante casa e museo della civiltà contadina. Certo, non bisogna vivere di recriminazioni. Il mondo va guardato per quello che è. E allora va pur detto che il modo e il modello di vita dei piccoli paesi, se ha conservato i tratti di umanità e di buona qualità della vita che lo contraddistingue e ha saputo, nei tempi nuovi, a volte, coniugare tradizione e innovazione (Parenti), imponendo anche a chi viene ad abitarvi da fuori di avvicinarvisi in punta di piedi (Meucci), è anche, per altri versi, irreversibilmente cambiato. Il cambiamento ha portato, oltre a travagli e disagi, indubbi miglioramenti (guai a cadere nel proverbiale «si stava meglio quando si stava peggio»), anche se è stato a volte feroce con chi cercava di contrastarne il segno o di leggerlo in maniera critica. La vicenda di Mastronardi (bistrattato autore de Il maestro di Vigevano) raccontata da de Filippis è, in questo senso, esemplare. A discarico dei piccoli centri, si potrebbe forse dire che Vigevano un centro tanto piccolo non è. Ma la sostanza cambia di poco.

Se si ridefiniscono il «centro» e la «periferia»
Oggi, in ogni caso, i paesi, se inquadrati per quello che sono, in un tempo in cui tutte le categorie, anche quelle di «centro» e di «periferia» (Clemente), si ridefiniscono, sono un impasto di inveterate e consolidate modalità e di stili di vita, di rivisitazioni di tradizioni e usanze che ormai vivono solo nella dimensione del folklore (che ha comunque una sua funzione) e di impostazioni (nel modo di muoversi, di consumare, di arredare…) che recano anche l’impronta della vita di città. I sociologi, non a caso, hanno coniato anche il termine (non bello) di «rurbanizzazione»6. Nel mondo e nel tempo della complessità, come è evidente, tutto si mescola, si confonde e si trasforma e chiama a nuove sfide. La realtà dei piccoli centri che (come mi ha fatto notare il mio amico Pietro Bucciarelli, che di urbanistica si occupa con professionale competenza) è comunque un’alternativa allo sprawl, al consumo dissennato del suolo, alla crescita informe della città che sembra non avere più confini. È una dimensione che richiede visioni nuove (Biffoni, Casini Benvenuti), all’insegna di una buona urbanistica e di una di una pianificazione territoriale, fondata sul «policentrismo » e sulla tutela e valorizzazione della ricchezza e della varietà del paesaggio naturale e del patrimonio artistico (Viviani). È, questo, un banco di prova non da poco per la «buona politica». C’è anche, in questo senso, un retroterra di esperienze importanti, di gestione dei servizi e di rapporto con il welfare (Barbini) di cui tanti sindaci e amministratori di piccoli territori e paesi recano il merito, in un ruolo caratterizzato per la scarsa remunerazione e per il grande carico di responsabilità. In tempi di generale discredito della politica non è male, dopotutto, ricordarlo. Hanno molto da fare, sindaci e amministratori, in queste realtà: valorizzare il turismo sostenibile (Partilora), recuperare esperienze di carattere urbanistico di grande valore (come racconta Marcetti per Larderello), relazionarsi positivamente con il tessuto culturale e associativo del territorio (Fanelli).

Se il mondo ti arriva in casa
Certo è che tutto si ridefinisce. Non solo non c’è più, nemmeno nella più remota provincia, l’«allegrezza della povera gente» di cui poetava Betocchi (Giani), ma, in un certo senso, non c’è più nemmeno la «dimensione paese» (serena, nel suo isolamento) come la si rappresentava una volta. Microrstoria e macrostoria, lo dicevamo prima, più che mai, ora si toccano. Paradigmatica, in questo senso, la testimonianza di don Pierluigi di Piazza, che racconta la storia del Centro di accoglienza «Ernesto Balducci» di Zugliano (in provincia di Udine). Il mondo con i suoi drammi, le sue aspettative, la sua disperata ansia di nuovo, ti arriva direttamente a casa. Cambiano volto paesi e città. I paesi vivono nella loro specifica dimensione e, in un curioso intreccio di memoria del passato e di proiezione nel futuro, in un contesto che vive, comunque, ormai, sempre più di relazioni, sempre più intrecciate e sempre più interdipendenti, e in cui dimensione locale e dimensione globale, come mai era stato prima, si sovrappongono e si compenetrano. I paesi d’Italia7, nella varietà della loro configurazione e collocazione geografica, sono, indiscutibilmente, sempre più, e in modo inedito, anche paesi d’Europa e paesi del mondo.

1 V. in prop. F. Corsi, P. Peli, S. Santini, Utopia della base, Punto Rosso, Milano 2011.
2 È un passaggio di Walter Benjamin (in: Immagini di città, Einaudi, Torino 1980), cui chi scrive aveva già avuto occasione di far riferimento nell’introduzione al volume (a cura di S. Saccardi) di «Testimonianze» (nn. 345-346) dal titolo: Europa: un continente e le sue città.
3 P. Ginsborg e F. Ramella (a cura di), Un’Italia minore. Famiglia, istruzione e tradizioni civiche in Valdelsa, Giunti, Firenze 1999.
4 V. F. Arminio, Geografia commossa dell’Italia interna, Bruno Mondadori, Milano-Torino 2013.
5 M. Balzano, Il figlio del figlio, Sellerio, Palermo 2016.
6 V. in prop., tra l’altro, La città post-moderna (sez. monotematica a cura di S. Saccardi), in «Testimonianze » n.394.
7 A proposito di percorsi alla ricerca di significative e belle realtà locali, v. Appia, di P. Rumiz, Feltrinelli, Milano 2016.