balducci «TESTIMONIANZE», NOVEMBRE 1966
di Ernesto Balducci *

Nell’editoriale di «Testimonianze» del novembre 1966 viene proposta un’analisi, a caldo, degli effetti dell’alluvione che aveva travolto Firenze pochi giorni prima. La città, ferita nel profondo da un’impietosa onda di piena, aveva perso vite umane, aveva visto sfigurato il suo volto e compromesso il suo tessuto artistico ed economico, ma aveva anche assistito ad uno straordinario moto di solidarietà. Non dello Stato, le cui colpe vengono puntualmente enunciate, ma da parte di una schiera di giovani volontari, da «una fitta rete di gruppi d’ogni colore ideologico», che si erano prodigati nell’opera di soccorso, rendendo, con la loro vitalità ed energia, meno grigio e spettrale il volto della città post-diluvio.

«Nec ullus est in universa Italia qui non duplicem patriam se habere arbitretur: privatim, propriam
unusquisque suam, publice autem florentinam urbem». (Leonardo Bruni)

«Firenze c’è, ma poteva non esserci più»
La nostra rivista è nata nel momento in cui la vicenda politica e culturale fiorentina si apriva alla complessa realtà del mondo nuovo che stava per nascere. Sebbene quel momento sia ormai passato e forse superato, Firenze resta per noi e, pensiamo, per molti dei nostri lettori, qualcosa di più che il nostro domicilio redazionale e amministrativo. I mutamenti di questi ultimi anni non sono riusciti a soffocare la forza e la suggestione di questa città, la cui funzione è stata quella di sperimentare in anticipo gli slanci creativi e perfino le degenerazioni della vita nazionale. Sebbene estranea alle grandi correnti della civiltà tecnologica (Firenze manca persino di un aeroporto!) essa ha conservato in questi anni la capacità di elaborare all’interno della sua tradizione più antica le più realistiche intuizioni del futuro, forse perché la sua singolarità fu ed è nella fusione feconda tra il passato e il presente, tra le sue architetture e le sue idee, tra la grazia umanistica e la passione sociale. Essa non è soltanto il più ricco archivio della civiltà moderna, è, ancora, per moltissimi uomini d’oggi, una seconda patria. Ebbene, Firenze c’è ma poteva non esserci più: bastava che la parete di una diga cedesse. La porta del Paradiso, che per tutta la notte del 4 novembre ha sbattuto con gran fragore, si sarebbe spalancata sul caos: il campanile di Giotto attorno a cui per un giorno l’acqua ha fatto mulinello, sarebbe stato divelto come un fiore. Invece la diga a monte della città ha retto: lode ai tecnici e vergogna allo Stato che a suo tempo li lasciò indisturbati in un gioco dal cui esito la morte di Firenze non era esclusa. Non sarebbe pietoso, anzi non sarebbe giusto dimenticare che la sciagura che ha sommerso la nostra città rientra nel più vasto bilancio che riguarda l’Italia intera e in cui ogni vita persa, ogni ricchezza distrutta meritano lo stesso rimpianto e le stesse premure. Ma Firenze si misura con Firenze: le perizie e le statistiche possono e devono collocare la sua sventura nel parametro generale, ma non possono rilevarne la terribile singolarità.
Fin dalle prime ore avvertimmo che l’opinione pubblica nazionale non si rendeva conto di quel che era avvenuto: solo più tardi il mondo ha capito che il nostro lutto era anche il suo. Il contesto architettonico più armonioso era diventato come un intreccio di fogne scoperchiate, la rete artigianale più antica del mondo è stata distrutta in poche ore, il patrimonio culturale in cui la cultura moderna rinnova la coscienza delle proprie origini è stato irrimediabilmente menomato.

* Editoriale, a firma Testimonianze, e attribuibile, quasi senza ombra di dubbio, a Ernesto Balducci. In «Testimonianze», Quaderni mensili, anno IX, novembre 1966, n. 89.

I danni alla sede
L’acqua e il fango sono arrivati anche nella nostra sede, provocando danni e paralizzando l’attività redazionale.Trasformati i nostri locali in centro di organizzazione di soccorsi di ogni tipo oltre che di raccolta e di distribuzione di viveri e di vestiario, ci siamo immersi, ciascuno a modo suo, nello sfacelo generale. Abbiamo lavorato in mezzo ai tanti giovani, fiorentini, italiani e stranieri, che hanno soccorso la nostra città annientata, mentre i responsabili del potere pubblico discettavano, contendendosi competenze e rinfacciandosi responsabilità, come eredi discordi nella stanza di un moribondo. Mescolati alla gente, con quello spirito di fraternità che solo le grandi sventure sanno creare, abbiamo avvertito che riprendevamo contatto con l’anima profonda di Firenze. E così, per una via imprevista e deprecabile, abbiamo ricevuto dalla nostra città una lezione nuova.
È quasi incredibile come siano risultati assenti o lontani, soprattutto nella prima settimana dopo il disastro, lo Stato con i suoi organi, i suoi uomini, i suoi massimi rappresentanti. E non solo perché, quando un popolo soffre, lo Stato, anche il più democratico, è per sua natura inidoneo a comprenderlo e a soccorrerlo in modo puntuale e persuasivo, ma perché lo Stato, in questo caso, aveva il marchio di una imputazione che lo rendeva impacciato e infido. La valanga d’acqua arrivata all’improvviso su Firenze e il grave ritardo dei primi soccorsi avevano sollevato il problema della responsabilità e dell’inefficienza degli organi politici ed amministrativi: responsabilità per la situazione di abbandono in cui si trovano le campagne e i monti toscani, per i mancati interventi nel bacino imbrifero dell’Arno, per i danni arrecati al regime idraulico e all’alveo del fiume dall’indiscriminata speculazione dei privati.

Le responsabilità dello Stato
È fuori dubbio, in ogni caso, che lo Stato non ha saputo tenere al sicuro la vita dei suoi uomini e quella della sua città più preziosa, almeno nella misura delle sue possibilità, prevedendo con saggezza, provvedendo con larghezza di mezzi, impedendo le prevaricazioni dell’economia del profitto. L’accusa non colpisce soltanto il nostro Stato, colpisce la civiltà da cui è nato e di cui si vanta, la stessa civiltà che spende in armi nucleari e convenzionali una ricchezza destinata dalla natura a sollevare la fame e la miseria di più che mezzo genere umano. D’altronde l’inefficienza dello Stato ci è apparsa in tutto l’arco delle sue competenze. Uno Stato ancora deciso a riservare un’enorme porzione del bilancio per tenere in vita un esercito di fanti per una guerra che non si farà mai e nella quale, in ogni caso, esso sarebbe poco più che uno spettatore inerme: uno Stato ancora ostinato – a differenza di quasi tutti i paesi del mondo – a rinchiudere in carcere i giovani che si offrono per un servizio civile al posto di quello militare: questo stesso Stato si rivela talmente incapace di scelte economiche programmate secondo precise finalità pubbliche, da non aver niente o quasi a sua disposizione per un servizio che sia pronto ad intervenire in modo tempestivo ed efficace, in difesa della popolazione civile nei casi delle pubbliche calamità che invece ci sono sempre, almeno in Italia, dal Polesine al Vajont, da Agrigento a Firenze. Si pensi che la sola città di Londra ha un numero di Vigili del Fuoco pari a quello dell’intero nostro paese.
Ancora: lo Stato italiano è privo di strumenti giuridico-amministrativi – e rifiuta quelli che pure sarebbero a disposizione, come l’Ente regione – capaci di prevedere e di programmare in modo organico e di dirimere con pronta chiarezza la questione delle competenze tra i poteri di vario livello e di vario ordine, anche quando da quella chiarezza dipende l’efficacia dei suoi interventi nei disastri collettivi. Il popolo di Firenze ha saputo che durante le prime ore, anzi le prime giornate dopo l’alluvione, i titolari del potere pubblico, del governo centrale, della prefettura, dell’esercito e dell’Ente locale si immobilizzavano a vicenda, protetti in parte dai mezzi di informazione governativi che somministravano anestetici alla opinione nazionale.

La frattura fra la Firenze reale e la città legale
Quando finalmente il Comune è sembrato prendere in mano la situazione, era già nata la frattura fra il popolo e gli organi dello Stato, fra la Firenze reale e la città legale.
Nei quartieri popolari lo spettacolo della comune sciagura e lo sforzo della ripresa hanno promosso forme di solidarietà capaci di preoccupare non solo i benpensanti, ma anche il centrosinistra di Palazzo Vecchio. A Santa Croce, a Gavinana, all’Isolotto, a San Frediano, al Mercato Vecchio, a Brozzi e altrove sono nati organismi di solidarietà e di soccorso, i «comitati di quartiere», eccezionali per slancio operativo e per competenza tecnica e politica, le cui matrici preminenti e i cui strumenti erano le case del popolo e le parrocchie, organismi che hanno completamente sostituito l’autorità pubblica, giungendo sino a provvedere alle centinaia di senza tetto mediante provvedimenti di requisizione e di occupazione, estesi talora a interi stabili. In queste zone, gesuiti, carmelitani, salesiani, seminaristi si sono trovati a far parte degli stessi gruppi, i cui animatori erano, assieme, parroci e dirigenti dal Partito Comunista, e a cui approdava l’ondata dei giovani volontari accorsi da ogni dove assieme al soccorso tempestivo e generosissimo dei Comuni democratici Italiani. Gli amministratori comunali non hanno nascosto la loro diffidenza per questa viva realtà democratica – una alluvione può esprimere più democrazia di cento consultazioni elettorali – che li metteva fuori gioco: la paura ha incrinato i loro sforzi e ha persino suggerito ad alcuni di loro qualche velleità di opporsi all’iniziativa popolare.
Proprio in quei giorni, ad esempio, si è tentato di sovrapporre al movimento popolare un progetto di «consigli di quartiere» nominati dall’alto e concepiti come organi di decentramento burocratico. I parroci hanno veduto nelle proprie stanze un popolo che era stato segregato per decenni nel campo opposto; i dirigenti del Partito Comunista si sono seduti accanto ai parroci nelle case del popolo. Così a Firenze, nonostante che dopo alcuni giorni i parroci siano stati sostituiti da gruppi di laici, hanno avuto vigore, hanno operato e operano con grande efficacia e in profondo collegamento con il popolo fiorentino, comitati civici di ben diversa natura che quelli partoriti di tanto in tanto dalle paure elettorali. I fatti della storia sono di tal natura da togliere ogni validità alle vecchie risposte e bastano a dare il senso che i movimenti storici – specie quelli delle ore più tragiche – hanno una forza innovatrice che nessuna astuzia può frenare.

Una città in mano ai giovani
Questo timbro di novità delle angosciose giornate vissute da Firenze è reso più schietto dall’altro fatto che abbiamo sottolineato: prima che arrivassero i soldati la città era già in mano ai giovani: è stato come se la fitta rete dei gruppi d’ogni colore ideologico, che sono in tempi normali la vita segreta di Firenze, si fosse tesa, emergendo dall’acqua e dal fango, per attenuare la tristezza del post-diluvio. Non sembri irriverente: nella memoria di tutti noi queste giornate conserveranno quasi una traccia di letizia, tanto straordinario è stato il fervore giovanile che le ha riempite, trasformandole in una civile liturgia di fraternità umana e di solidarietà civica.
Firenze risorgerà. Quando queste note saranno sotto gli occhi dei lettori, il suo volto visibile sarà forse meno squallido, anche se enormi problemi – vecchi e nuovi – resteranno aperti, a cominciare da quello relativo al pericolo di nuove alluvioni e da quello del risanamento e della ristrutturazione urbanistica della città intera; anche se mancano alcune migliaia di alloggi per i senza tetto (né si vede come si intenda provvedere), mentre la situazione economica della città è destinata a peggiorare progressivamente nei prossimi mesi invernali. Firenze, lo sappiamo, non sarà più come prima: l’ora più terribile della sua lunga storia, con il suo carattere repentino e lucido, le ha fatto scoprire la propria precarietà. La sua bellezza avrà d’ora in poi un’ombra, come persona che abbia rasentato la morte.
Per questo da oggi saremo più gelosi e fervidi custodi non solo dei suoi monumenti ma anche della sua anima, che, cadute per un momento le barriere ideologiche, si è rivelata molto migliore dello Stato di cui fa parte e di quei partiti che l’hanno lacerata.
(«Testimonianze», 20 novembre 1966)