SE L’EUROPA RINUNCIA ALL’UNIVERSALISMO
di Nadia Urbinati (intervista a cura di Simone Siliani)
L’Europa, di fronte alla crisi economica e all’emergenza umanitaria, risponde in ordine sparso. La mancata formazione di uno Stato federale che imponga a tutti i paesi membri il rispetto delle regole, delle leggi e prima ancora dei diritti è il nodo alla base dei tanti problemi che affliggono l’UE, che si dibatte nell’alternativa fra interessi particolari e nazionali e rispetto delle scelte comuni. Questa contraddizione si manifesta sia in campo economico che in campo politico, determinando il proliferare dei nazionalismi e la vergogna dei razzismi e della xenofobia.
D. Presidente della Commissione Europea, Jean-Claude Juncker, ha tuonato recentemente contro l’Europa dei muri, ma incarna l’idea di un’Europa delle banche e della finanza. Che legame o quale contraddizione fra le due idee?
R. L’Europa che nel 1957 siglò il Trattato di Roma volle riconoscere solennemente il diritto individuale al libero movimento, pensato per gli europei che volevano cercare lavoro o residenza altrove in Europa. Tanto l’affermazione del diritto di movimento quando la consapevolezza della sua relazione con il bisogno di trovare lavoro (e d’altra parte di offrirlo a costi concorrenziali) costituiscono il nodo contraddittorio alla base dell’Unione Europea. Certo, si trattava allora di norme concepite per cittadini degli Stati membri, tuttavia – e questo aspetto non viene mai abbastanza sottolineato — proprio per il suo legame con il mercato del lavoro quelle norme segnalavano il bisogno di trovare una soluzione all’esigenza economica di superare i confini politici degli Stati. Il «mercato» come spazio di diritti individuali (le doux commerce come si diceva nel Settecento) sta alla base dell’Europa ed è strumentalmente attento ai confini: questo rende il rapporto con il diritto di movimento e l’emigrazione doppio. Ora, se il diritto fondamentale di movimento è così direttamente connesso a ragioni di tipo economico – la circolazione di una forza lavoro competitiva — ciò significa che i confini nazionali sono interpretati e usati come meccanismo funzionale a una divisione internazionale del lavoro, più o meno porosi a seconda del bisogno interno di manodopera economica. Il diritto di movimento si fa immancabilmente luogo di conflitti tra opposti interessi dunque, perché mentre aprire le frontiere può comportare che l’accettazione di mano d’opera straniera a basso costo e senza protezione sociale metta a serio rischio l’impiego e le condizioni lavorative dei lavoratori nazionali, chiuderle può compromettere gli interessi di quei settori economici che per rafforzarsi (e quindi essere occasioni di impiego per i lavoratori nazionali) hanno bisogno di essere più competitivi e quindi di poter contare su lavoro a basso costo. James Hollifiel ha parlato dunque di «paradosso liberale» – il fatto che una società democratica basata su un’economica di mercato e la libertà di movimento non possa non regolare i confini nazionali in modo da regolare il rapporto tra capitale e lavoro. Per questo l’ampliamento nel 1957 dei confini del mercato del lavoro oltre le singole nazioni era un modo per risolvere la tensione capitale/lavoro mantenendo un livello sostenibile di welfare – insomma spostando e ampliando il territorio del mercato. Una traccia del «paradosso liberale» la si trova anche nel discorso del Presidente della Commissione europea, Jean-Claude Juncker sulla crisi dei rifugiati. Il discorso, nel quale è stata presentata la proposta di un piano europeo di redistribuzione dei rifugiati, contiene un importante richiamo alla legalità, ma quel richiamo è fatto non tanto in relazione ai rifugiati (che fuggono e sono ostaggio degli scafisti), ma prima di tutto al fine di soddisfare le esigenze del mercato del lavoro dei paesi che accolgono e che deve poter contare su «canali protetti e legali» di flusso migratorio.
D. La vicenda greca ha messo in evidenza un contrasto non solo fra l’autonomia statuale e i limiti imposti dalla stabilità finanziaria, ma anche fra l’espressione della volontà popolare democratica (il referendum e le elezioni greche) e la volontà di istituzioni europee non democratiche. Quali problemi nuovi pone (o evidenzia) questa situazione alla democrazia?
R. La vicenda greca, nella sua complessità (poiché non si deve dimenticare che quel Paese ha sofferto anche a causa di governi che hanno abusato delle risorse e sono stati poco attenti ai conti pubblici e alla repressione dell’evasione fiscale), ha mostrato che senza un centro politico – un governo dotato di poteri sovrani e che risponde ai cittadini europei, operando all’interno di una cornice costituzionale di controllo e divisione dei poteri come in uno Stato federale – nessun Paese ha la forza di contrattare le condizioni del debito. La vicenda greca ha mostrato insomma che senza una dimensione politica sovrana la logica del debito rientra a tutti gli effetti in una cornice privata di diritti e obblighi, la stessa che vale per i singoli o i soggetti economici. Ma occorre vedere il problema anche dal lato opposto: ovvero, la vicenda greca ha anche dimostrato che fino a quando non c’è una cornice politica europea sovrana un Paese può mettere a referendum un accordo con l’Europa – che insomma l’interesse nazionale preceda e anzi annulli quello europeo. La volontà popolare dovrebbe essere della federazione europea – fin quando questo non è possibile noi siamo dipendenti da volontà particolari, che sono non solo economiche ma anche quelle di una parte rispetto al tutto. Solo un’Europa federale può risolvere questo problema.
D. Dopo Juncker sembra prendere corpo in Europa una maggiore consapevolezza da parte anche di leader moderati della inevitabilità dell’accoglienza, dell’apertura e forse dell’utilità (e non solo della problematicità) delle migrazioni. Una concezione che però si contrappone a un’altra che immagina di poter bloccare, impedire questo fenomeno globale (dall’Ungheria all’Inghilterra, fino alla Slovacchia e in certa misura anche la Polonia): un’Europa divisa, dunque. È il portato della trasformazione del sogno cosmopolita dell’unità europea nell’incubo degli egoismi nazionalisti?
R. Come ha scritto Jan Gross recentemente, il modo con il quale i rifugiati sono recepiti, confrontati e attaccati nei paesi dell’Est Europa mette in luce una differenza notevole rispetto alla parte occidentale del continente. Vi è da dubitare che la entusiastica marcia verso l’inclusione, cominciata dopo la caduta del Muro di Berlino e in reazione alla Guerra fredda che aveva diviso l’Europa, sia stata saggia, poiché il processo che ha portato all’unione nella parte occidentale è stato prima di tutto autonomo o determinato e voluto dai protagonisti; e soprattutto è stato abbastanza lungo da consentire una stabilizzazione del senso di un diritto comunitario e di una cultura dei diritti. Sarebbe sbagliato pensare che i paesi a Est siano per natura xenofobi mentre quelli a Ovest non lo siano. Il fatto è invece imputabile al modo e ai tempi dell’inclusione dei paesi ex-comunisti. In qualche modo, che la solidità all’appartenenza all’Europa sia un fattore da non sottovalutare può essere dimostrato dall’Inghilterra (egualmente ostile ai rifugiati) la quale non è a tutti gli effetti parte dell’UE e non ha nella sua presente tradizione un legame forte con il diritto comunitario come i paesi che hanno creato originariamente l’Unione. Gross associa la xenofobia dei paesi dell’Est a decenni di comunismo, giunto dopo la pulizia etnica perpetrata con violenza e sistematicità dai nazisti che ha, se così si può dire, reso quelle popolazioni nazionali molto più omogenee di quanto lo fossero prima. L’eliminazione degli ebrei e l’etnicizzazione forzata delle nazioni a Est della Germania prima e il comunismo dopo hanno contribuito sia nella demografia sia nella mentalità a favorire visioni xenofobe dell’appartenenza nazionale che ora pesano gravemente nella costruzione dell’Unione Europea. I muri, il filo spinato, i respingimenti forzati contro, si badi bene, non immigranti per ragioni economiche ma rifugiati dalle guerre civili (in violazione delle convenzioni internazionali firmate dai paesi europei) è una vergogna. Non vi è giustificazione e, anche in questo caso come nel caso del debito, vi è da lamentare l’assenza di uno Stato federale europeo che imponga a tutti gli Stati membri il rispetto delle regole, delle leggi e prima ancora dei diritti.
D. Il paradosso a cui assistiamo sulla vicenda dei profughi e dei migranti è che la destra estrema (Salvini, Le Pen & co.) si erge a difesa della «civiltà» europea, che in verità rinnegano e tradiscono nel momento in cui negano la sostanza universalistica, fondata sui diritti umani quale diritto internazionale positivo, dell’idea europeista. Dall’altro lato l’Europa delle istituzioni di Bruxelles ha mostrato incapacità nell’affrontare questo problema poggiando, appunto, su quell’assunto universalista (ad esempio pretendendo di distinguere, nel mondo globalizzato di oggi, fra immigrati «economici» e profughi).
R. La cittadinanza europea, come abbiamo visto, si fonda anche sulla possibilità di uno spazio aperto, di potersi muovere liberamente, di poter provvisoriamente vivere o andare a studiare in un Paese o in un altro. Però, se ci fermiamo a questo, i problemi relativi a confini e a unione fiscale e, quindi, alla giustizia nella distribuzione dei costi e benefici, rimarranno temi aperti e irrisolti. È questione di volontà politica a questo punto: o i popoli europei esprimono questa volontà, oppure se non la esprimono noi ci troveremo perennemente a fare i conti con le crisi che derivano dall’esistenza di confini nazionali. I confini nazionali possono innescare forme di nazionalismo: la lotta dei greci contro l’austerity e la campagna anti Germania hanno in qualche modo rafforzato l’orgoglio nazionale e il nazionalismo greco. Dunque, anche in quel caso, seppure per ragioni giustificabili, si innesca un fenomeno di ritorno nazionalista. Il paradosso è che non si può sconfiggere il nazionalismo cattivo e xenofobo stimolando la crescita del nazionalismo buono. Il nazionalismo è sempre negativo: anche se Juncker si scandalizza del nazionalismo ungherese, il nazionalismo buono che la sua politica scellerata ha indotto in Grecia non è migliore.
D. Nel tuo ultimo libro Democrazia sfigurata. Il popolo fra opinione e volontà ti sei soffermata ad indagare l’evoluzione recente del rapporto fra l’autorità formale della legge e la dialettica e il giudizio dei cittadini. Tu parlavi ora della necessità di trasformare una volontà in norme e leggi. Forse a livello europeo, questo giudizio dei cittadini, cioè la dialettica, il dibattito pubblico, invece è rimasto sullo sfondo. Questo, nella diarchia democratica di cui parli nel libro produce un pericoloso squilibrio. Che ruolo i cittadini potrebbero avere in una evoluzione auspicabile delle istituzioni europee?
R. Questo è un problema molto importante che meriterebbe da solo una riflessione autonoma. Innanzitutto, ci sono diverse cittadinanze in Europa. Per esempio alcuni paesi hanno adottato il metodo del referendum per accettare o meno l’integrazione europea oppure l’introduzione della moneta unica. È il caso della Danimarca e della Francia. Ricordiamo il referendum d’Oltralpe che portò a bloccare momentaneamente il processo di adozione della Costituzione europea. Quindi, alcune cittadinanze più di altre hanno potere di veto sulla cittadinanza futura europea, ammesso che possa nascere. Non tutte le cittadinanze europee gestiscono nello stesso modo il rapporto con l’Europa. Il secondo problema è: esiste o no una sfera pubblica europea in discussione. Secondo Habermas esiste, anche se è debole perché manca di partiti europei e di una stampa europea: insomma, è ancora strutturata per vie nazionali. Ma egli dice che le discussioni nazionali delle questioni relative all’Unione sono ormai quotidiane e ordinarie e questo in ogni caso produce, pur filtrata dalle sfere pubbliche nazionali, un orizzonte di giudizio europeo. È vero che è così, ma è sempre un giudizio filtrato e condizionato dal punto di vista dell’interesse nazionale; non è mai un giudizio europeo, dei cittadini europei. Il cittadino europeo, anche se dichiarato in tanti trattati, l’ultimo dei quali quello di Lisbona, non ha ancora tutte e due le gambe. Ha certamente quella dell’opinione, benché molto filtrata attraverso l’interesse nazionale; può avere una capacità di voto, infatti eleggiamo il Parlamento europeo; però si tratta di un voto debole perché il potere sovrano che esprime è debole. Questa sovranità politica debole che produce regole e accordi non in forma di leggi autorevoli (senza dunque forza di sanzione diretta), si riflette nell’altra debolezza,quella di un’opinione pubblica che, più che europea, è di fatto ancora nazionale. Occorre arrivare ad un punto oltre il quale non è più possibile tentennare: o l’Europa si dà una struttura federale e quindi diventa gli Stati Uniti d’Europa, uno Stato a tutti gli effetti, oppure saremo sempre dipendenti o dall’interesse del momento sul fatto di stare o meno in Europa o dall’opinione delle convenienze nazionali. Manca questo livello di completezza della cittadinanza europea.
D. Riflettiamo sul caso ungherese: quale maggior contraddizione di quella di veder crescere e svilupparsi all’interno dell’Europa, che nasce nel sogno dell’affermazione dei valori universalistici della democrazia, un regime che ha crescenti caratteristiche autoritarie? Una «democratura» si direbbe oggi. Che problemi pone oltre a quelli dei concreti atteggiamenti del governo di questo Paese come nel recente caso della costruzione del muro anti-migranti alla frontiera con la Serbia? Se in questa Europa è possibile che si sviluppi un regime illiberale, allora forse questo mette in discussione i fondamenti stessi dell’Unione?
R. Sappiamo che l’Unione Europea, per decisione degli Stati, non interviene nelle decisioni costituzionali interne dei membri dell’Unione. Purché rimangano all’interno di alcuni principi fondamentali che sono la divisione dei poteri, lo Stato di diritto e quindi l’esistenza di un potere giudiziario separato dagli altri poteri, e che siano rispettati dei diritti fondamentali. Fatta salva questa base, i paesi sono liberi di darsi ordinamenti costituzionali autonomi. Il caso ungherese è esemplare perché la riforma della Costituzione che Orban ha voluto così caparbiamente e che ha ottenuto nel marzo del 2013, ridisegna uno Stato su un modello che è fondato su un esecutivo sostenuto da una forte maggioranza parlamentare, con sistemi di controllo molto più blandi sul potere decisionale delle maggioranze politiche le quali hanno più larga discrezionalità di intervenire sui diritti. Comunque sia, all’interno dei parametri stabiliti dall’Europa, è possibile avere una riforma costituzionale del tipo ungherese che è, dal punto di vista di un’analisi politologica, una riforma autoritaria. Ma lo è anche dal punto di vista tecnico perché una riforma che assegna un potere sovrabbondante al partito politico che conquista la maggioranza nel Parlamento comporta fatalmente a esaltare la funzione dell’esecutivo su quella del Parlamento. Certo che questo è possibile in Europa. Che dovrebbe anche per questa ragione mirare con determinazione a uno Stato federale. In questa fase a metà tra governance e «governo politico», ovvero tra regolamenti e leggi, non c’è posto per interventi sugli ordinamenti degli Stati membri. Ma anche se ci fosse, io ritengo che alcuni gradi di libertà di azione gli Stati li avranno sempre. Come negli Stati Uniti, è vero che i diversi Stati sono fondati sulla concezione federale, però hanno sistemi elettorali diversi, vi sono addirittura modi diversi di gestire il voto segreto, le primarie, il rapporto fra Governo e Parlamenti, tuttavia quando si tratta di diritti fondamentali lo Stato e la Corte Suprema federale hanno il potere di imporsi alle decisioni dei singoli Stati – in questo modo fu imposta la desegregazione negli Stati del Sud dell’Unione, per esempio. Ma un qualche livello di autonomia e che rende i singoli Stati non identici in tutto allo Stato Federale c’è ed è importante che ci sia. Sarebbe a mio parere desiderabile che questo succedesse anche in Europa. Anche se ho l’impressione che più si sposta in avanti il problema dell’unione politica meno convinzione ci sia a favore di questa unione.
D. Certo che c’è una bella contraddizione nel fatto che, mentre le istituzioni non riescono o non possono o non vogliono porre dei limiti nell’evoluzione autoritaria delle proprie istituzioni interne, invece pongono dei forti limiti sul piano finanziario ed economico agli stessi Stati. Basti pensare all’obbligo del pareggio di bilancio previsto nella nostra Costituzione. Non è che il paradigma finanziario ed economico abbia stravolto le basi del progetto europeista?
R. Questo è il nodo che abbiamo di fronte dal tempo del governo Monti, dopo che nel 2011 l’Europa ci chiese di cambiare il governo, cioè un’interferenza pesantissima sulla struttura e sulle forme interne di decisione. Formalmente non c’è questa possibilità per le istituzioni europee, ma di fatto esiste eccome: le pressioni vengono fatte e molte spesso hanno successo, soprattutto nei periodi di forte crisi e quando la crisi stabilisce dei rapporti privatistici fra Stati per cui vi sono Stati creditori e Stati debitori. Il rapporto fra gli Stati è ormai un rapporto di tipo bancario, come quello di clienti di istituti bancari che vanno a richiedere dei soldi e questi possono essere rifiutati o accordati a condizioni quasi esose o di strozzinaggio. Sono problemi serissimi. Fino a che non ci sarà un Tesoro Europeo, un sistema europeo di tassazione, ovvero fino a che dalla Finlandia all’Italia o alla Grecia non ci sarà una redistribuzione di costi e benefici attraverso l’uso di risorse economiche decise a livello comunitario, interventi di redistribuzione laddove non sono in grado di intervenire in modo soddisfacente gli Stati nazionali o le Regioni, è chiaro che l’Europa sarà sempre un’Europa di creditori e debitori, regolata da criteri privatistici. Ma, come sappiamo, i rapporti privati sono imposti perché il debitore deve pagare, pena il fallimento; il che significa uscire completamente dalla dimensione politica della gestione delle crisi economiche. Ecco perché, se non si fa questo famoso salto, e dubito a questo punto che lo si voglia fare, non è possibile neppure lamentarsi della situazione. O si esce da questa Europa o la si cambia; però se non la si cambia e si rimane dentro, le condizioni sono queste: non c’è via d’uscita. Per alcuni paesi, come la Grecia, può ad un certo punto profilarsi l’utilità di rimanere a queste condizioni. Perché, a mio parere, il livello di evasione, illegalità, illecito in quel Paese, come anche in Italia, è tale per cui forse gli esecutivi per imporre un certo ordine e una certa abitudine a rispettare le norme, hanno bisogno di avere l’argomento permanente dell’emergenza e appellarsi a «lo vuole l’Europa». Solo così riescono ad imporsi ai recalcitranti contribuenti. Paesi come l’Italia o la Grecia hanno interesse a restare perché solo in questo modo i governi possono avere il potere di imporre misure, anche draconiane, proprio perché sanno molto bene che il rapporto con la legge, soprattutto con l’onestà fiscale dei loro cittadini, è bassissimo. Tsipras sta facendo un lavoro che nei paesi del Nord Europa viene fatto dai conservatori e dai liberali – cioè quello di far pagare le tasse. Se un partito che si dice di sinistra, deve impegnare tutto se stesso per fare questo lavoro che altrove fanno i partiti di destra, non può fare il suo lavoro di sinistra: questa diventa una scelta obbligata, peraltro né di destra né di sinistra, si tratta dell’ABC del rispetto della legge.
D. Tu hai posto più volte l’attenzione sull’evoluzione (o involuzione) del concetto di cittadinanza proprio a livello europeo. Una doppia identità (cittadini degli Stati membri e cittadini dell’Unione), a cui forse si potrebbe aggiungere la cittadinanza locale-territoriale, che invece di essere vissuta come un ampliamento delle libertà, degli orizzonti culturali e dell’esercizio di poteri legati a quella cittadinanza, viene vissuta come contraddittoria, impossibile e, in alcuni casi, come fonte di conflitti. È il terreno su cui crescono populismi e plebiscitarismi e non più quello dell’espansione di diritti e libertà. Quali sono i possibili sviluppi e cosa e come possiamo contrapporre a questa deriva?
R. La cittadinanza (nazionale o europea) è comunque uno stato relativo a un territorio legale e civile – nei casi delle nazioni a basi etniche assume una forte valenza identitaria. Storicamente la base nazionale e nazionalistica della cittadinanza è stata all’origine del problema della debolezza dei diritti civili e quindi della certezza delle minoranze di non vedersi assoggettate al volere della maggioranza. Non è che spostando i confini in avanti si stemperi la cultura nazionalistica che può essere coniugata anche a livello europeo. Per restare a casa nostra, fermiamoci a riflettere sulla politica della paura contro l’invasione dei rifugiati usata dalla Lega di Matteo Salvini, e ancora prima dal governo Berlusconi (che ha mietuto consensi con le politiche anti-immigrazione) e a come essa abbia ingrossato l’ideologia xenofoba. La strategia polemica di Salvini sfida direttamente le due più rappresentative organizzazioni internazionali: la Chiesa cattolica e l’ONU. In questo modo si posiziona ideologicamente contro l’etica universalistica della dignità e dei diritti umani (bollata come ipocrita) e a favore di una lettura delle libertà e delle tradizioni europee che è fortemente localistica ed esclusionista. Al linguaggio della norma la Lega oppone quello del possesso, rivendicando contro i pastori della religione e del diritto il bene primario della «nostra» terra, dei «nostri» diritti, del «nostro» benessere. Un universalismo per gli identici in qualcosa – similmente a quello coniato dai fondatori del pensiero reazionario moderno, quando attaccarono non i diritti di cittadinanza ma il loro universalismo proclamato dalla Rivoluzione francese (allora gli ebrei erano gli estranei da escludere). La nuova destra – di Salvini come di altri leader di partiti di destra estrema del Nord e dell’Est Europa – si riappropria di questa ideologia. Si erge a movimento autenticamente europeista, difensore della «nostra» civiltà contro chi la contamina. Il paradosso del quale è oggi urgente occuparsi e preoccupasi è dunque questo: da anti-europei che erano, i movimenti e le ideologie dei partiti di estrema destra sono diventati i più radicali europeisti. L’Europa che difendono (difendendo le frontiere dei loro paesi con le quali spesso quelle del continente coincidono) è esattamente opposta a quella della tradizione universalistica e cosmopolita sulla quale l’Unione Europea è nata. Ci può essere un euro-nazionalismo che traduce in chiave continentale quella cultura comunitaria e proprietaria che ha caratterizzato l’ideologia reazionaria dal tempo della Rivoluzione francese. Allora, la reazione contro l’universalismo dei diritti e l’ideale cosmopolita di cooperazione tra i popoli veniva fatta nel nome delle nazioni e le loro ataviche tradizioni, delle identità linguistiche e dei costumi morali e religiosi dei singoli paesi. Edmund Burke diceva in polemica con la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino di non aver mai incontrato «uomini» ma solo tedeschi, francesi, inglesi e italiani. Per la nuova destra, l’europeo si appresta a diventare l’alternativa all’uomo in generale. L’Europa unita nel nome del filo spinato è l’immagine che i nuovi reazionari stanno edificando. Non più italiani o francesi o ungheresi contro Bruxelles, dunque, ma tutti loro contro quella che essi rappresentano come un’espropriazione dell’Europa da parte dei migranti, con l’avvallo dalla cultura europea dei diritti, laica e religiosa. Alla quale questa Europa nazionalista dovrebbe opporre una politica sistematica di espulsione di tutti coloro che non sono cittadini. L’Europa di destra contro l’Europa che avevano proposto Spinelli e Schumann: è questa oggi la sfida culturale e politica più radicale. Destra e sinistra passano di qui, da due visioni di Europa e di cittadinanza, due visioni del di ritto, due visioni dello spazio politico continentale: una che è consapevole delle difficoltà che l’immigrazione pone al modello occidentale di vita e che tuttavia non rinuncia a cercare soluzioni (in Europa e nei paesi d’origine dei migranti) che siano coerenti con i principi del diritto e di quella che Habermas ha chiamato cultura democratica cosmopolita; e un’altra che adatta al continente il nazionalismo xenofobo praticato da generazioni nei singoli paesi.