Contro l’ipotesi delle due sinistre
Intervista a Marco Rizzo, a cura di Severino Saccardi
Sommario: In questa intervista, in cui vengono affrontati vari temi (dalla crisi della politica al conflitto di interessi, dalla memoria della posizione berlingueriana sulla “questione morale” al dibattito storico-politico sulle Foibe e su Cuba), il capogruppo alla Camera dei comunisti italiani ribadisce la propria contrarietà al processo di riaggregazione interno al centro-sinistra, che porterebbe alla costituzione di due aree politiche: una riformista-moderata (che sussumerebbe impropriamente anche una parte della sinistra), che rappresenterebbe la “cultura di governo”, ed una “radicale”, che dovrebbe limitarsi ad esprimere gli umori della “piazza”.
D. Partirei, in questa nostra conversazione, da una questione di fondo. Sembra attualmente che si sia determinato un certo distacco tra i problemi della società, che sono molto concreti e a volte drammatici (dal carovita alla crisi occupazionale, a una minaccia, addirittura, di possibile e temibile declino generale della società italiana), e quello che è il linguaggio del “ceto politico” (anche del “ceto politico” del centrosinistra), che discute di simboli, di schieramenti, di aggregazioni interne e riaggregazioni, in un modo che spesso sembra andare molto oltre la capacità di comprensione e di sopportazione del cittadino comune.
Secondo te questo distacco è reale ed eventualmente quali ne sono le cause e cosa si può fare, all’interno dell’attuale riflessione politica, per cercare una nuova saldatura tra politica e società?
R. E’ una sensazione, secondo me, molto diffusa, ed anche sensata, purtroppo. In questi giorni ho avuto anch’io la stessa impressione, anche stando da “questa” parte, dalla parte di quelli che qualcuno definisce come “politici di professione”.
Quando ci siamo trovati a discutere (anche animatamente) sul simbolo che avrebbe adottato la lista riformista, mi sono reso conto che, anche mentre proferivo io stesso parole di critica, mi dicevo: “ma chissà cosa diranno e cosa ne penseranno quelli (e sono tanti) che magari hanno una famiglia da mantenere, con mille euro al mese, e non ce la fanno ad andare avanti …”. Il che non vuol dire, al di là delle apparenze, che il problema (questo problema, ma anche tanti consimili) sia privo di sostanza.
La questione del simbolo, per capirci, è un po’ come se la Juventus, che è la squadra più grande e più forte, indossasse la maglia della nazionale. Il simbolo dell’Ulivo diventa il simbolo del partito riformista.
I motivi di critica c’erano ed erano importanti, ma alla fine noi Comunisti Italiani abbiamo rinunciato ad insistere ulteriormente in una difesa delle nostre ragioni, abbiamo desistito: se il partito riformista vuole mantenere il simbolo dell’Ulivo lo faccia: vorrà dire che poi la coalizione avrà un altro simbolo, ci metteremo d’accordo.
Non potevamo insomma continuare a litigare su questo. Nessuno avrebbe capito, pochi ci avrebbero seguito.
D. C’è anche un altro elemento che mi pare si riproponga in questi ultimi due anni.
Abbiamo assistito ad un protagonismo dei movimenti, di nuovi movimenti, e c’è stata anche una fase di positiva, seppur problematica, interazione tra forze politiche e movimenti.
Oggi mi pare che ci sia un nuovo momento di difficoltà, di dialogo fortemente in crisi e anche di frammentazione degli stessi movimenti. Sembra che i temi della crisi della politica e l’idea di un rinnovamento della società civile tornino ad avvitarsi su se stessi.
Pensi che per l’area del centrosinistra sia possibile uscire positivamente da questa difficoltà nel rapporto tra partiti e movimenti?
R. Non sono stupito di quello che accade. Tu hai descritto una situazione realistica.
C’è stato un sussulto di protagonismo, di voglia di partecipazione anche di persone comuni, in un certo senso prima contro i partiti, poi a fianco dei partiti.
Il passaggio successivo, che è quello di una strutturazione di questi movimenti in qualcosa di più stabile, si è di fatto articolato in parte tramite una confluenza nei partiti, in parte in un rifiuto ad entrare nei partiti.
Il problema è che le forme nuove della politica oggi sono i movimenti, ma poi, alla fine, nella rappresentanza istituzionale, nella politica “ufficiale”, ci sono i partiti.
D. Quindi, c’è una crisi della rappresentanza….
R. E’ così… Non è che nascano forme nuove di rappresentanza, almeno per adesso.
Intendiamoci, i partiti non possono fare a meno di verificare il consenso dei movimenti. Ma alla fine gli stessi movimenti non possono fare a meno dei partiti, perché ancora purtroppo non si è creato un modo diverso di far politica. Anzi, quando i movimenti cercano di strutturarsi in partiti, fanno delle cose ed hanno delle pratiche “peggiori” di quelle dei partiti.
D. Si ricrea la stessa logica…
R. Sì, forse addirittura con meno democrazia… Sia chiaro, lo dico con grande rispetto sia per i movimenti che per i partiti.
D. Certo, perché è una difficoltà che si riscontra su entrambi i versanti, è una crisi che è comune.
R. In Italia ci sono elezioni ogni anno, ma se si votasse ogni cinque anni, si vedrebbe un addensarsi dell’attività politica solo in prossimità delle elezioni. Questo non accade in Italia perché le elezioni sono frantumate.
Stiamo andando verso un modello molto vicino a quello statunitense, anche dal punto di vista della caratterizzazione leaderistica, e questo sia nel centrodestra che nel centrosinistra (anche se forse il centrosinistra ha più personaggi politici). Ma se a destra non ci fosse più Berlusconi, Forza Italia non durerebbe; se non ci fosse più Fini, forse AN durerebbe? Se venisse meno Bertinotti, quanto durerebbe Rifondazione, così com’è?
C’è una crisi vera, perché ormai la rappresentanza è molto mediatica e molto schiacciata sui leaders.
D. Mi pare ci sia anche uno specifico problema di configurazione complessiva e di ripensamento del modo di essere dell’area del centrosinistra, non ti pare?
R. Mi pare però che il centrosinistra lo abbia un po’ voluto, anche questo leaderismo, dentro l’uragano dell’innovazione e del nuovismo a tutti i costi: abbiamo parlato male della forma partito per poi scoprire che dal punto di vista della democrazia il partito è ancora un anello forte della realtà democratica. Perché altrimenti cosa ci sarebbe? Ci sarebbe il solo dominio dell’economia dei media…
E non è un caso che il potere in una moderna società (che sui libri si legge ancora che sia costituito dal potere legislativo, dal potere esecutivo e da quello giudiziario) oggi è sempre più potere economico e mediatico, oltreché politico. Ma ci rendiamo conto che in Italia questi ultimi tre poteri sono nelle mani di un’unica persona?
Oggi basta avere i soldi, puoi costruirti un’immagine, fondare un partito ed impossessarti della politica. Lo puoi fare in via diretta. L’economia ha progressivamente contato sempre più sulla politica, oggi l’economia può addirittura “mangiare” la politica, perché con i media la conquista e la sussume.
D. Insistendo sul problema della configurazione complessiva e dell’assestamento interno del centrosinistra, mi pare che si vada definendo una grande area riformista e poi, accanto, una sinistra che possiamo chiamare “alternativa”.
Ora, mentre nell’area riformista c’è un processo, in qualche modo e comunque lo si voglia giudicare, di unificazione e di tendenziale aggregazione, mi pare che l’area della sinistra alternativa permanga molto frammentata. Quali sono le cause di fondo di questa frammentazione ed è possibile un’inversione di tendenza in questo ambito?
R. Io sono contrario a questo tipo di semplificazione. Ad una semplificazione di questo tipo, ad una articolazione tra riformisti moderati e sinistra alternativa con un rapporto quantitativo di 3 o forse 4 a 1, avrei preferito molto di più una sintesi diversa, basata su sinistra e centro, strategicamente alleati nell’Ulivo, con la sinistra, tutta la sinistra, unita.
In questo modo, sulle motivazioni concrete (le idee, la pace, le gabbie salariali, le pensioni, il lavoro), la sinistra dentro la lista unica si annacqua molto.
Se la sinistra deve essere rappresentata solo da Diliberto, Rizzo, Bertinotti, Pecorario Scanio, è poca cosa: potremmo anche essere contenti, prenderemmo qualche voto in più. Ma io preferirei star dentro una grande confederazione della sinistra, assieme ai DS, allo SDI, a Rifondazione e ai Verdi, perché sono convinto che la sinistra dentro il centrosinistra sia maggioritaria.
Invece in questo modo regaliamo alla parte moderata dei voti che essi non hanno. E il mazzo delle politiche della nuova lista riformista chi l’avrà? La Bindi? Mussi? Ne dubito. L’avrà Rutelli, con le sue idee sulle pensioni, l’avrà Fassino, con l’idea di astenersi sull’Iraq, e via di questo passo.
Sono molto preoccupato per la scomparsa della Quercia, anche se dal punto di vista elettorale questo ci può premiare. Tu mi hai sottoposto, certo, un binomio che risponde alla realtà…
D. Non è forse un fatto che esistono “due sinistre”, come avrebbe detto Marco Revelli?
R. Io sono contrario a questa soluzione, perché se esistono due sinistre, ove la sinistra moderata viene sussunta nel moderatismo e la sinistra alternativa non conta più nulla, si va verso una prospettiva molto negativa per la politica italiana
D. Tu propendi, mi pare, per un modello “confederale” fra istanze e sensibilità diverse, simile a quello delle grandi socialdemocrazie europee, in qualche modo. E’ così?
R. Anche per qualcosa di più, perché la differenza con le grandi socialdemocrazie europee è che in Italia c’è stato il più grande partito comunista dell’Occidente, non scordiamolo. Non rimuoviamo questo lascito e questa pagina della nostra storia.
Vado oltre e voglio essere malizioso: non mi interessa un quadro in cui si dica “a noi del riformismo moderato il governo, a voi della sinistra alternativa le piazze”, perché avere una sinistra del genere non mi serve. Io voglio che la mia sinistra sia dentro il processo della decisione delle questioni concrete.
A me non interessa andare in piazza con la bandiera rossa. A Bertinotti forse basta quello, ma io voglio cimentarmi giorno per giorno con le questioni concrete, e quindi non mi basta stare dentro una coalizione dove la sinistra può soltanto fare piazza. Io voglio capire, voglio entrare nel merito, voglio decidere, voglio contribuire, anche con il compromesso, alle decisioni, non stare fuori.
E’ una posizione più difficile, come capirai. Perché a chi è moderato serve a questo punto di più il rapporto con Bertinotti. Noi diamo più fastidio perché vogliamo costruire da dentro l’ipotesi di governo.
Se invece c’è solo una forma di alleanza, che può essere anche disgiunta ad un certo punto, e cioè c’è l’Ulivo vero, rappresentato dai “riformisti” e poi ci sono dei satelliti, c’è la sinistra alternativa da prendere solo come alleanza elettorale, beh, tutto questo è molto riduttivo e poco fecondo in direzione di una politica del cambiamento.
Voglio stare dentro il processo programmatico, ma certo che se i DS ormai sono ingoiati là dentro, nell’amalgama riformista moderato, avrò grandi difficoltà a farmi valere, perché tra Verdi, Comunisti Italiani, Rifondazione ed anche sinistra dei DS, arriviamo al massimo al 10%.
Invece in una confederazione della sinistra ci starebbe tutto il popolo che stava al Circo Massimo dietro Cofferati. Quanto valeva quella sinistra lì? Non il 10%, ma il 20, il 25%. Gareggiava non alla pari, ma maggioritariamente, nella competizione interna al centrosinistra.
D. In quello che dici sento in qualche modo un rimando, una memoria di quella che era un po’ la posizione berlingueriana di “una sinistra di lotta e di governo”, come veniva detto allora.
R. E’ esattamente questo; ma è anche l’idea della diversità, che andrebbe ricercata e riproposta. Certo, c’è stata Mani Pulite, ma la questione morale, come questione politica, venne messa anche in termini di diversità da Berlinguer già nel 1981, non è emersa per la prima volta nel ’92 . L’esperienza berlingueriana è stata non secondariamente connotata da un’istanza di moralizzazione della politica: istanza in cui vi era qualcosa di preveggente, che allora non era compreso o che, addirittura, veniva irriso. Tornare a meditare, oggi, su tutto questo, mentre la società italiana vive una nuova crisi ed un colossale conflitto di interessi è al centro della crisi che oggi vive la politica, non sarebbe male.
D. Dal momento che si parla di diversità, di proposte politiche, di programma, ma anche di identità, e visto che c’è stato questo richiamo storico alla memoria berlingueriana, è molto chiaro quello che dici sull’essere in qualche modo “forza di lotta e forza di governo”. Ma Berlinguer si distingueva anche per altre questioni relative, per esempio, alle sue posizioni di principio sulla politica internazionale e sulla ridefinizione di un certo orizzonte della sinistra, allora comunista, quando ad esempio parlava dell’acquisizione della democrazia come valore storicamente universale e della fine della spinta propulsiva dei “socialismi reali”.
Ecco alla luce di questo, ti chiederei una parola chiara su alcune questioni su cui i Comunisti Italiani mi pare si distinguano per le loro particolari posizioni. Penso per esempio al vostro atteggiamento in merito a Cuba o a quanto avete detto nel dibattito recente di carattere storico su un dramma come quello delle Foibe.
Tali posizioni, se posso essere franco, non ti sembrano anacronistiche?
R. Ci distinguiamo in questo anche da Rifondazione, che ha una posizione, sia su Cuba che sulle Foibe, più “ammorbidita”.
Noi partiamo da questo presupposto: c’è un dibattito storiografico, che in realtà è assolutamente politico in Italia, sul revisionismo e fatto dal revisionismo storico.
Si tende a cancellare la storia nazionale non in termini di pacificazione, né in termini di età. I morti sono morti e son tutti uguali (e meritano, certo, tutti, pietà) ma le ragioni per cui sono morti sono diverse.
Non possiamo equiparare la Resistenza ad una sorta di episodio di una guerra civile, con le due parti in lotta, delle quali una aveva un po’ più ragione e l’altra un po’ meno.
C’era una battaglia di una parte per la libertà, contro l’altra parte che si era alleata con chi aveva invaso il Paese. E’ stata una lotta di liberazione e una lotta tra chi aveva ragione e chi aveva torto. Non si possono equiparare le due cose. Le ragioni per cui questi morti sono deceduti sono ben diverse. Che Italia avremmo se ci fosse stato ancora Mussolini? Che Europa avremmo se avesse vinto Hitler? Dobbiamo rendercene conto.
I Comunisti Italiani, nella loro originalità, ripercorrono le lotte del Partito Comunista Italiano dalla nascita della Repubblica, sorta dalla lotta di liberazione, alle lotte per la dignità ed i diritti del lavoro nei decenni difficili del secondo dopoguerra. Non c’è revisionismo storiografico che possa cancellare gli aspetti positivi di quella fondamentale esperienza. Il ruolo dei comunisti, d’altra parte, era stato centrale nella lotta contro il fascismo.
Non vi è una sola battaglia di libertà che non abbia visto i comunisti italiani in prima fila. E questo anche quando essere antifascisti costava moltissimo. Basta leggere le sentenze del tribunale speciale per la sicurezza dello Stato per convincersi che, tra le forze politiche, chi andava di più al confino erano i comunisti, e parlo del 70-80 per cento; chi veniva condannato a morte erano più di tutti i comunisti, chi veniva espulso dall’Italia, chi doveva farsi gli anni di galera, più di tutti erano i comunisti. E poi quando ci fu la Resistenza per l’Italia, le bande partigiane erano composte per lo meno per la metà da comunisti.
E poi la storia successiva del Paese: la Costituzione repubblicana, la battaglia contro la famosa “Legge truffa”, la lotta alla mafia, al terrorismo. Non c’è un singolo episodio delle battaglie per la libertà in Italia che non vede i comunisti in prima fila.
Per quale motivo i comunisti dovrebbero pentirsi? Qual è l’origine del pentimento, della revisione? Non abbiamo nulla di cui pentirci nella storia italiana.
Le Foibe sono un atto terribile, ma non si possono decontestualizzare storicamente, non si può cancellare l’“italianizzazione” di quelle parti della Jugoslavia, non si possono cancellare gli eccidi degli invasori, come non si possono cancellare gli eccidi dei fascisti e dei loro alleati tedeschi, perché altrimenti non si capisce la storia e non si capisce nemmeno l’origine della tragedia delle Foibe.
D. Nessuna contestualizzazione storica, però, può essere usato come giustificazione di quanto di orribile è stato fatto sull’altro versante rispetto a quello che tu descrivi. O no?
R. Assolutamente, nella maniera più assoluta. Concordo.
Ma bisogna ricordare che il Partito Comunista Italiano di Togliatti era su posizioni antitetiche rispetto alla Lega dei partiti comunisti jugoslavi, tanto è vero che la zona di Trieste è rimasta italiana anche se Mosca voleva darla a Tito. Poi, appena Tito nel ’48 si sgancia dai Sovietici, entra nell’area di protezione della NATO, non succede più nulla. E il Partito Comunista non è nei governi italiani. Le Foibe furono tenute nascoste principalmente dai governanti italiani per non disturbare Tito, tant’è che Vidali, grande comunista triestino, in rottura con Tito, non racconta solo le Foibe, ma comincia anche a raccontare quel che era successo in Kosovo. Non giustifico, dunque, nessun orrore né nessuna violazione della dignità umana, da qualunque parte provenga.
Sono contro chi usa la storia come clava anticomunista. Intendiamoci, che lo facciano Berlusconi e la destra non mi stupisce. Ma che lo facciano pezzi importanti della sinistra, beh, per lo meno mi amareggia.
Per quanto riguarda Cuba. Cuba è il sogno, è la rivoluzione di un piccolo paese a 150 miglia dagli Stati Uniti, un paese che è in guerra da sempre, dalla nascita.
Noi siamo contrari alla pena di morte, figuriamoci. Ma proviamo ad ipotizzare se la situazione di Cuba l’avesse l’Italia, se cioè fossimo dal ’45 accerchiati da tutti i paesi europei, e questi avessero tentato di invaderci più di una volta, avessero tentato 190 volte di uccidere il nostro Presidente della Repubblica o il nostro Presidente del Consiglio, se ci fossero stati diecimila morti per terrorismo interno, ci avessero falcidiato tutti i raccolti anche utilizzando defoglianti, bombe chimiche, eccetera…
Quale sarebbe il livello dei nostri diritti individuali nel nostro Paese? Questa è una domanda importante.
Perché quando l’Italia subì l’offensiva di un terrorismo interno mille volte meno forte di quello che Cuba fronteggia da sempre, frutto delle scelte e degli atti degli Stati Uniti contro Cuba, dicevo, non appena si presentò il problema del terrorismo autoctono in Italia, in un importante discorso in Parlamento un democratico ed antifascista come La Malfa chiese lo stato d’emergenza e la pena di morte.
Dico questo perché bisogna fare dei paragoni. Le opposizioni, nella vicenda cubana, sono sicuramente “maltrattate”, ma negli altri paesi dell’America Latina le opposizioni vengono letteralmente fatte scomparire, ci sono gli squadroni della morte. Quello è il contesto storico e geopolitico cui far riferimento, non quello della democrazia europea.
In questo sta la nostra solidarietà a Cuba.
D. Opposti torti però non fanno una ragione. Altrimenti si ricade in un discorso giustificazionista, come quello che, in grande, il comunismo internazionale faceva riguardo all’ Unione Sovietica “accerchiata”.
R. Per carità. Noi non vogliamo fare nessun discorso giustificazionista. Vedi, noi abbiamo consigliato, ma un conto è consigliare, e un conto è, in una battaglia difficilissima di un gigante contro un’isola minuscola, stare dalla parte del gigante.
A noi, per coerenza e per convinzione, non va di farlo.
D. A proposito di collocazione internazionale, idealmente una piccola forza come i Comunisti Italiani e, in generale, quella che prima chiamavamo l’area della sinistra alternativa e radicale italiana, dove la vedi collocata? Quali possono essere, attualmente, i suoi riferimenti internazionali?
R. I riferimenti internazionali sono innanzitutto quelli dell’Europa.
Essere rivoluzionari oggi significa stare dalla parte dell’Europa, dalla parte della costruzione di un’Europa politica. L’Europa è l’unica speranza per ridare multipolarità al mondo, altrimenti il mondo resta unipolare ed governato integralmente dalle lobbies che attualmente governano gli Stati Uniti. L’Europa è l’unica speranza.
Quindi, prima di tutto europeisti e poi, dentro l’europeismo, bisogna far contare le idee della sinistra, e quindi l’idea di qualcosa che aggreghi tutte le forze che sono a sinistra nel panorama politico europeo, in un grande dibattito unitario.
Non mi pare ci siano le condizioni per una nuova internazionale comunista, ma per una unione dei partiti comunisti, dei partiti rosso-verdi, dei partiti che si rifanno alla sinistra ambientalista: tutto quello che oggi in Europa può costruire un’ipotesi di rafforzamento della sinistra.
Bertinotti fa il partito della sinistra europea. Ma non credo che ci serva una “Bolognina” europea, perché qui non abbiamo nulla da rinnegare rispetto ai comunisti.
Non siamo ancora in grado di arrivare a un partito della sinistra europea, dobbiamo unire le forze progettualmente.
Noi stiamo lavorando ad un manifesto elettorale dei partiti della sinistra europea, e crediamo che sia possibile. La domanda che facciamo a Bertinotti è: “perché cambiare il nome? Perché togliere il riferimento al comunismo?”. E poi, un partito europeo a cosa serve? Serve poi a un nuovo splendido isolamento? Stiamo con Zapatero, con Schroeder, oppure ci isoliamo di nuovo come fece Bertinotti quando c’era Prodi?
Io voglio che i comunisti stiano dentro i processi di governo, per cercare di dare un’alternativa, certo anche in ipotesi di compromesso, ma voglio che i nostri voti e la nostra militanza si spendano, perché stare isolati non serve a niente.
Come si può dire? Forse così:“Più forti ideologicamente, più pragmatici politicamente”.
* Ha collaborato Davide De Grazia.