Viandanti del mondo nuovo
di Severino Saccardi

Sommario: Il binomio giovani-politica va inquadrato in maniera più articolata di quanto comunemente non si faccia: accanto a fenomeni estesi di disimpegno, di cui porta grande responsabilità un ceto politico sempre più chiuso in se stesso, va rilevata l’esistenza di un capitale di disponibilità umana, potenzialmente fecondo anche quando non trova uno sbocco diretto nei  movimenti new global o nelle esperienze politico-professionali del mondo della cooperazione

Giovani e politica: due termini problematici, oggi, da porre in relazione. Così almeno pare, stando al senso comune e ad una percezione largamente diffusa. I giovani, si dice, sono  apatici, poco inclini alla partecipazione civile, poco interessati al recupero della memoria storica, storditi dal dilagante consumismo, che tutto riduce all’effimero ed al superficiale appiattimento sulla fruizione dei beni materiali che il presente, come che sia, garantisce ed elargisce con munifica disponibilità.
Non c’è più  conoscenza del passato, ma non ci sarebbe, dunque, nemmeno più un minimo di slancio verso l’individuazione di un diverso profilo del futuro: è questa la sconsolata, e sconsolante, rappresentazione che molti adulti si fanno, e tendono a trasmettere, di larghi settori dell’universo giovanile.

Un figlio cretino?
Lo scrisse, tempo addietro, in uno dei suoi efficacissimi pezzi su “La Repubblica”, anche la brava Natalia Aspesi. L’articolo, che raccoglieva il grido di dolore trasmesso per lettera da una preoccupatissima madre, era intitolato, se ben ricordo, Aiuto, mio figlio è un cretino!
Un titolo diretto e brutale come un salutare cazzotto nello stomaco. Chi (come l’autore di queste righe) ha provato a discuterlo, a scuola, con i propri  studenti sconcertati (ma  non troppo, non del tutto: discorsi del genere li hanno già sentiti) vi ha trovato provocazioni e spunti utilissimi. D’altra parte, se la memoria mi dice il vero, la Aspesi, ovviamente, non è con i giovani genericamente intesi che se la prendeva. Se la prendeva, in primis, con una società, una comunicazione ed una politica-spettacolo, con un mondo degli adulti che tutto hanno fatto fuorché promuovere azioni tese a risvegliare il gusto della partecipazione civile e di un impegno culturale che non sia ridotto alla mera e competitiva corsa al successo scolastico. Forse è anche per questo che tanti ragazzi e tante ragazze appaiono (ma cosa c’è, in realtà, dietro tale apparenza?) superficiali, inespressivi e demotivati.
Ma sono davvero così i giovani di oggi? E in che misura lo sono?
Un approccio anche solo di tipo “impressionistico” alla questione induce molto a riconsiderare tante immagini e definizioni che, oggi, vanno per la maggiore. Chi ha fatto, o sta facendo tuttora, esperienza in campo educativo e formativo sa, sia detto senza alcuna retorica, quanto molti ragazzi siano disponibili a dare e quanto implicito ed insoddisfatto bisogno di profondità umana e culturale
si nasconda al di là dell’impressione superficiale di passivo adeguamento alle mode ed ai tic del momento che essi tendono, in prima battuta, a trasmettere.
Certo è che per dare (di più: per scoprire di essere capaci di dare) molti di loro hanno bisogno prima di ricevere; di ricevere tramite modalità diverse da  quelle cui erano, forse, più inclini altre generazioni, tendenti a costruirsi identità e sicurezze nei processi di identificazione garantiti dalle ideologie, dalle appartenenze politiche o da altri riferimenti di carattere generale. Per molti giovani della nostra frammentata età post-ideologica e post-moderna, quel che conta è, come dice un’esperienza pluriennale e consolidata, soprattutto il rapporto di carattere personale.

La fiducia in una persona
E’ la fiducia in una persona (un adulto, educatore e formatore, o un coetaneo più informato e maturo) che può, casomai, veicolare l’interesse per i cosiddetti “grandi temi”. Il veicolo ed il mezzo, rappresentato in questo caso da una persona e dalla fiducia nel suo operato, contano assai più del messaggio che essi trasmettono. Ma, fatto questo passo, l’insensibilità ai messaggi relativi alle tematiche di impegno civile e di riflessione politico-culturale, si rivela per quello che, probabilmente, in gran parte è: una sorta di pervasiva leggenda metropolitana. E’ una riflessione che ritorna anche nella nostra sezione monotematica (v. Fabio Dei) che assume, in maniera critica e costruttiva, tutta la problematicità del rapporto insito nello “strano” ( come appare, oggi, ad una superficiale disamina) binomio giovani-politica. Certo è che la percezione diffusa di tale stranezza e dell’ estraneità  scambievole che paiono, ai nostri giorni, strutturalmente e quasi “naturalmente”, insite in tale binomio rappresentano storicamente una novità di non poco conto. Nei due secoli e nei passaggi che hanno scandito il cammino dalla rivoluzione francese fino alla fine del secolo “politico” per eccellenza (il “breve” secolo XX, delle passioni e dei furori ideologici), infatti, impegno civile (di diverso segno e coloritura) e giovinezza si sono, assai spesso, uniti in una stretta ed evidentissima combinazione.
Ed i giovani, a lungo, sono stati gli interlocutori privilegiati di partiti, movimenti, animatori di passioni ed evocatori di pulsioni di carattere politico-sociali. I giovani erano, d’altra parte, l’immagine stessa del cambiamento, della tensione verso il nuovo ed il superamento storico dello
status quo, della spontanea adesione al fuoco rivoluzionario. Così almeno in una frettolosa ricostruzione ed in una rapida ricognizione delle linee portanti e delle suggestioni di un immaginario collettivo che ha avuto largo corso; un immaginario che deve essersi nutrito, oltreché di stereotipi esattamente opposti a quelli oggi dominanti, anche del robusto rimando ad elementi storici e fattuali di evidente corposità. In questo, per quanto le generalizzazioni possano essere ingiuste e sbagliate, per quanto le leggende metropolitane sull’assolutizzazione del disimpegno possano rivelarsi stoltamente unilaterali, per quanto la disponibilità  e la generosità di segno nuovo delle ultime generazioni meritino di essere più ampiamente conosciute e valorizzate, qualcosa di profondo è veramente mutato.
Non è mai bene e non è serio dare un colpo al cerchio ed uno alla botte; ma è anche vero che, dopo la  sacrosanta  relativizzazione delle critiche semplicistiche al mondo giovanile, che riteniamo con forza di dover ribadire, bisogna pur dire che sintomi, manifestazioni, comportamenti, di primo acchito, sconcertanti e (per noi adulti) incomprensibili non mancano. A tutti, o quasi, è capitato di incontrare giovani, magari umanamente splendidi, e tutt’altro che confinati nell’orizzonte egoistico in cui li si vorrebbe appiattiti, che comunque ignorano i più banali rudimenti e le più banali nozioni di quel che un tempo veniva definita come “educazione civica”.  Giovani per cui non sembra più di nessuna importanza essere politicamente di destra e di sinistra e che, soprattutto, non hanno più la minima idea di che cosa destra e sinistra significhino o di cosa  questi termini e questi riferimenti abbiano storicamente rappresentato; giovani per  cui pare che non abbia alcuna importanza provare a costruirsi qualche categoria concettuale di lettura generale e di interpretazione delle contraddizioni del mondo; giovani, infine, come prima dicevamo, per cui poco conta il passato storico e niente la coltivazione di una qualche idea di futuro. Ma, anche qui, qualche controdeduzione si impone:
il dibattito, in sé legittimo ma confuso e talora  strumentale, sul superamento e sul conseguente stravolgimento del senso di appartenenza e dei riferimenti politici (che senso hanno ormai, ad es., nel continuo scambio di significati e di connotazione semantica, concetti come “conservazione” o come “riformismo”?) ha seminato non pochi frutti avvelenati. Una politica sempre più autoreferenziale e sempre più pragmaticamente (ma, peraltro, non efficientemente) “professionale” e sempre più legata alle esigenze di un particolare ceto, rintanato nelle istituzioni e nelle sedi di partiti sempre più esangui, ha provveduto, più in generale, a diradare e prosciugare entusiasmi anche nelle generazioni più adulte , e provenienti da altre stagioni di impegno, senza riuscire a trasmettere ai giovani, se non in limitati settori, nemmeno un frammento dell’antica, e desueta, istanza milaniana della ricerca di una via comune alla ricerca di rimedi per i guai di origine storico-sociale.

Cercare più a fondo
Ma è più a fondo che bisogna cercare per comprendere i motivi dell’apparente (e, in qualche caso, anche disperatamente reale) afasia politica dei giovani e dell’apparente (ma, ahimè, talora assai reale) mancanza di appeal comunicativo del mondo politico tradizionale ed istituzionale: anche se poi, come sollecitano riflessioni come quelle di Mete e di Nardella, non è poi vero che tutti i canali di comunicazione,  tra mondi rappresentati come irrimediabilmente distanti, sono chiusi. Proviamo ad andare più a fondo, dunque: a quello spaesamento ed a quella mancanza di riferimenti che post-modernità, caduta delle ideologie, dinamiche complesse della mondializzazione inducono in tutti. Nei giovani che, pur hanno evidentemente più strumenti e più opportunità di un tempo (non viaggiano, forse, molto, molto di più dei ragazzi di una volta? non studiano le lingue? non maneggiano disinvoltamente tecnologie e modernissime modalità della comunicazione?).  Negli adulti, che hanno avuta, quando l’hanno avuta, una “classica”, storica ed imponente formazione di carattere politico-civile, con tutti gli strumenti ed il patrimonio di apprendimenti che essa ha contribuito a sedimentare. Eppure, non cadiamo in equivoco: anche troppi adulti seriosi e compresi del peso della storia, individuale e collettiva, che è alle loro spalle, non hanno di fatto più strumenti adeguati per leggere il tempo della complessità in cui siamo immersi. Guardano il mondo con occhi che sono più venati della nostalgia per un passato di nobili trascorsi di quanto non siano illuminati dalla curiosità di chi si accinge a scrutare, senza lenti e senza fuorvianti timori, l’incertezza che è insita nel domani. I giovani, molti giovani, d’altra parte, di indagare il futuro, e di comprendere concettualmente il loro stesso presente, sembrano non curarsi nemmeno. Che siano, atteggiamenti  pur così diversi, espressioni di un comune ed ineludibile senso di sperdimento? E’ un’ipotesi che va presa in considerazione, a costo di provocare qualche risentito, e un po’ moraleggiante, moto di perplessità. Le sfide di un mondo che è, insieme, sempre più intercomunicante ed omologato e sempre più inafferrabile, frammentato e sfuggente, richiedono a tutti, senza presunzione, di ridefinirsi e di ripensare il senso ed il modo del cammino.

Ventenni contro?
Siamo tutti viandanti di un mondo nuovo. Tutti: adulti politicizzati e giovani (realmente o apparentemente) estranei ed allergici alla dimensione dell’analisi e dell’iniziativa politica. E tutti abbiamo molto da ripensare, per cercare un modo nuovo, e credibile, di rappresentazione e di trasformazione della realtà, sfaccettata, imprevedibile e sfuggente in cui ci troviamo, comunemente, immersi.  Per andare in questa direzione, un prerequisito essenziale è legato alla disponibilità a capire, fuori da schemi consolidati, quel che si muove attorno a noi.
Questo vale anche per lo specifico “tema giovani”. Prendiamo la nostra, particolarissima, situazione italiana. Quante volte è stato ripetuto che i giovani sono le prime vittime dell’uso dell’“antipolitica” in cui il berlusconismo è maestro! I ventenni, si dice, abboccano con istintiva immediatezza alle rappresentazioni qualunquistiche e populistiche che stanno all’origine della ventata di destra che è alla base dell’assetto politico attuale del Paese.  Ma le cose, a guardarle con più calma e con strumenti un po’ più raffinati, stanno proprio così?  Non è questa, ad es., l’opinione degli autori (Roberto Cartocci e Piergiorgio Corbetta) di un impegnato saggio, apparso tempo addietro sulla Rivista “Il Mulino”, significativamente intitolato: Ventenni contro (1).
L’articolo si sofferma, con il supporto di grafici e tabelle, sugli orientamenti di voto e sulle tendenze politiche dei giovani. Ne risulta un quadro interessante, ed assai più mosso del previsto. La tesi sostenuta, con convincenti argomentazioni, è che ci sono giovani e giovani. Ci sono, ad es., quelli che erano molto giovani negli anni Novanta e che oggi sono venticinque-trentenni; e questi sono sì maggioritariamente contagiati dall’ “antipolitica”  ed hanno simpatie  apertamente di destra. Non così i diciotto-ventiquattrenni che, pur in un quadro di “generale ostilità verso i partiti” tradizionali, con una minore prevenzione verso Rifondazione comunista che “riceve il doppio dei suffragi rispetto alla media di tutto il campione” e, parzialmente, verso “una formazione politica meno strutturata (la Margherita) rispetto a quella più strutturata (i DS) (2) sono comunque prevalentemente orientati a sinistra : e lo sono “un poco di più della media nazionale” (3).
Certo, questo vale per gli studenti e per i giovani colti e secolarizzati, mentre tra i giovani della stessa fascia di età “i non studenti sono di destra (il gruppo più a destra di tutti)” (4). E’ un dato su cui molto ci sarebbe da dire e che molto fa riflettere. Resta il fatto che se nel “1992 i ventenni erano meno a sinistra dei (quasi) trentenni; nel 1996 erano sulle stesse posizioni politiche; nel 2000 i ventenni sono più a sinistra di coloro che sono più vicini ai trent’anni”(5).
Se questo è vero e se tale realtà risultasse confermata, non solo l’inversione di tendenza sarebbe di notevole interesse (con i ventenni  del 2000  più interessati alla politica dei ventenni degli anni novanta e con un orientamento di sinistra che andrebbe vistosamente riemergendo):  andrebbe anche rilevato che i “nostri studenti ventenni manifestano orientamenti di sinistra non solo perché sono giovani, ma perché sono giovani di una specifica generazione” (6).
Si tratta, beninteso, di orientamenti di carattere elettorale e di opinione che niente ci dicono sulla eventuale propensione a riscoprire ed a battere, sia pure in forme rinnovate, i terreni dell’impegno politico attivo, rispetto al quale i giovani delle diverse fasce d’età sembrano comunque mantenersi, per lo più, ad una rispettabile distanza di sicurezza. Scuole di partito e di formazione politica, federazioni giovanili di partito e forme varie di associazionismo (cui rimandano anche alcuni interventi della sezione monotematica) riguardano ed interessano solo una minoranza, per quanto non insignificante, del mondo giovanile.

Ma c’è il volontariato
E’ vero che consistenti quote di giovani sono impegnate in varie attività, realtà e manifestazioni del volontariato. Rappresentano un fenomeno interessante ed esprimono un patrimonio di energie e di esperienze vitali che meriterebbero di essere maggiormente valorizzate. Ma il volontariato non è la politica e non può porsi, rispetto ad essa, in una posizione di supplenza o di sostituzione. E’ stato fatto notare più volte, peraltro, che chi si impegna nel volontariato, non di rado, lo fa perché esso non è la politica e si colloca rispetto ad essa in un’altra dimensione, che predilige l’etica delle realizzazioni concrete a scapito della progettualità di carattere generale e delle logiche istituzionali, ritenute astruse, compromettenti e lontane dalla possibilità di promuovere operativamente la solidarietà nel “sociale”. Un discorso a parte andrebbe, però, fatto per alcune esperienze della cooperazione internazionale (v. Malavolti) e per certi ambiti del terzo settore. Essi non sono confinabili, o non lo sono soltanto, nella dimensione “pura” del  volontariato tradizionale: impegnano professionalità, formano competenze, forniscono occasioni di lavoro (sia pure all’insegna globale del no profit). Ma si tratta di competenze, di professionalità e di  tipologie di lavoro che entrano espressamente in contatto con temi fortemente politici; e la formazione e le esperienze all’interno delle Onlus impegnate nella cooperazione internazionale e nella cooperazione decentrata non possono non avere anche un segno evidentemente politico. Un segno talora implicito, talora assunto ed introiettato profondamente all’interno di un processo individuale e collettivo che rende  politicamente così interessante ed, insieme, così  atipico il mondo della cooperazione.
Un mondo con cui la politica tradizionale non sa, infatti, rapportarsi: preferisce rifugiarsi nella logica della delega (perché siano le ONG a mediare ed a svelenire contraddizioni che le istituzioni non sanno trattare in prima persona) e concedere finanziamenti, che sono certo ossigeno per le organizzazioni della cooperazione, senza però riuscire ad elaborare un’ottica realmente dialogica con chi è portare di istanze “altre” e diverse.

Una novità new global
La diffidenza  e la reciproca estraneità fra la politica tradizionale (che sta anacronisticamente al centro della scena mediatica ed istituzionale mentre aumenta il suo distacco dalla società) e settori notevoli del mondo dell’associazionismo e delle nuove generazioni, d’altra parte, non produce solo rifiuto generico e pulsioni qualunquistiche. Stimola, anche, in maniera esponenziale, il bisogno di un’altra politica. Questo è, tra l’altro, quel che si esprime nella variegata realtà (7) del movimento no global  (più appropriatamente definito anche new global). E’ quanto, tra i contributi degli autori di questo numero della Rivista, esprimono interventi come quello di Valentina De Grazia e di Lucio Niccolai. Avvenimenti come quelli di Napoli e di Genova hanno veramente cambiato, in tanti giovani mai primi affacciatisi ai temi di impegno civile e sociale, il modo di percepire la politica, lo Stato, il rapporto cittadini-istituzioni.
Queste righe vengono scritte alla vigilia del Social Forum Europeo di Firenze: un evento che troppi, nel mondo dell’informazione  ed all’interno di talune grandi forze politiche (leggi: Forza Italia), hanno voluto leggere, in chiave demonizzante, solo sotto il profilo, pur importante e non sottovalutabile, dell’ordine pubblico e della sicurezza. Ora, dando per scontato che legalità e sicurezza vadano efficacemente tutelate, è tristemente indicativo proporre una lettura così riduttiva di eventi e di movimenti di tale rilevanza. Un altro mondo è possibile, la parola d’ordine new global esprime la sensibilità e l’orizzonte idealmente condiviso di un “movimento globale” che risulta dalla confluenza di una varietà di spunti che rimandano a temi centrali della nostra epoca: pace, sviluppo sostenibile, rapporto equilibrato fra “globale” e “locale”, equità planetaria e lotta alla povertà. Tali istanze, è vero, in taluni settori del movimento, sono espresse in forme scopertamente ideologiche ed ingenuamente manichee. Ma le questioni poste sul tappeto sono quelle che vitalmente, ed in modo interdipendente, coinvolgono l’umanità intera. Una più matura e convinta elaborazione sulla questione centrale della nonviolenza sembra, d’altra parte, di buon auspicio in direzione del prosciugamento delle sacche di velleitarismo che rischiano, talora, di inquinare la limpidezza di ispirazione di movimenti di questa natura. Con le istanze poste dai new global bisognerà imparare sempre più a dialogare e, sempre più, se si ha a cuore il rilancio di una strategia del cambiamento, ad interagire positivamente (8).
Certo, l’esperienza new global (che non è probabilmente, come qualcuno vorrebbe, l’ennesima riedizione del ’68: è piuttosto un inedito,  plurale e galattico “movimento dei movimenti”) investe solo una parte del mondo giovanile. Ci sono settori amplissimi di popolazione giovanile che non si occupano di problemi politico-sociali né negli ambiti più tradizionali di intervento né nei movimenti alternativi e nemmeno si occupano di volontariato e di attività nel Terzo settore.
Ma resta il fatto che la realtà è in ogni caso, più sfaccettata, variegata e complessa di come la si vuole indistintamente rappresentare. Le cose sono in movimento ed una consapevolezza nuova è forse alle porte. La disponibilità e la ricchezza umana che è patrimonio inestimabile di tanti ragazzi e ragazze, anche di quelli più apparentemente apatici e lontani dalla premura per il mondo circostante, può divenire un colossale investimento. Un risveglio, se sappiamo leggerne i segni, è forse alle porte. Senza addentrarsi nell’incauta e spesso fallace evocazione di scenari futuri, non è da  ipotizzare (e da sperare) che, in tempi non storici,  mondo giovanile ed impegno di trasformazione della realtà  tornino, con sempre maggiore evidenza, a combinarsi ed a camminare assieme?
Note
1) R. Cartocci e P. Corbetta, Ventenni contro,  “Il Mulino”, Settembre-Ottobre 2001.
2) Ivi, p. 864
3) Ivi, p. 863
4) Ivi, p. 863.
5) Ivi, p. 868
6) Ivi, p. 869.
7) In prop., vedi, tra l’altro: Paolo Ceri, Movimenti globali- La protesta nel XXI secolo, Editori Laterza, Bari 2002.
8) Vedi in prop. la sezione tematica dedicata a Quale futuro per i movimenti “antiglobalizzazione”  (a cura e con  un’introduzione di S. Saccardi e con interventi di Vannino Chiti, Giancarlo Malavolti, Luca Lenzini, Leonardo Savelli, Vanni Pettinà, Andrea Bigalli, Lucio Niccolai), in “Testimonianze” n.418.