Un’Istituzione-Titanic?
di Severino Saccardi

Sommario: La Scuola, che appare sempre più come un’istituzione in cerca d’autore e di identità, ha bisogno di trasformazioni incentrate non su un generico e superficiale “nuovismo” ma sull’assunzione di una visione culturale che congiunga specificità e carattere interdisciplinare del sapere, in un percorso di inquadramento critico del “mondo globale. C’è bisogno, anche, di riscoprire l’importanza  della spinta motivazionale nell’apprendimento, combattendo la rinascita di forme nuove di autoritarismo, senza cadere nell’assunzione acritica della tipologia “attimo fuggente”del modello di insegnamento.

La “grande disadattata”
E’ scottante, il tema-scuola. Scottante e controverso. Lo è nei fatti e nelle cose, al di là delle diversificate opinioni che legittimamente si possono avere sul pluriennale travaglio da cui è investito il mondo dell’istruzione e della formazione nel nostro Paese.
Possono, infatti,  differire le analisi, le diagnosi ed i rimedi ipotizzabili in relazione ai mali della grande disadattata (1), come un famoso maestro, geniale ed anticonformista, aveva denominato la nostra scuola. Ma difficile è negare il disagio, la sofferenza, la perdita di rilevanza, finanche, di un’istituzione, per così dire, affannosamente in cerca d’autore e di un’identità riconoscibile e significativa in un tempo che è, di per sé, difficile da vivere, investito com’è da vorticose e frastornanti trasformazioni.
La scuola, mentre il mondo le cambia precipitosamente attorno, è intenta – e altrimenti, forse, non potrebbe essere – a rimirare artisticamente e pietosamente le proprie interne lacerazioni e ferite ed a cercare, per porvi rimedio, un lenimento ed un balsamo (ma quale)?
Alla varietà dei mali, dei guasti  e delle oscure nubi che  si sono prodotti negli anni, ed ultimamente con un’accelerazione ed  un addensamento crescenti,  ci sia consentito per un attimo fare  qui riferimento: la disperante ed annosa situazione dei troppi insegnanti precari e lo sconfortante conflitto che, pervicacemente, si è voluto creare fra precariato “storico” e neo-docenti usciti dalle Scuole di formazione; la diminuzione consistente del numero delle cattedre disponibili in seguito al forzato completamento a diciotto ore settimanali di gran parte degli insegnamenti delle scuole medie superiori; la controversia sull’immissione in ruolo degli insegnanti di religione, con la conseguente creazione di inevitabili frizioni nel corpo insegnante; il taglio delle risorse disponibili per il finanziamento delle attività e dei progetti all’interno degli istituti scolastici; lo sconcertante stop and go sull’annunciato avvio delle misure di trasformazione dell’istituzione-scuola progettate e sostenute dall’attuale maggioranza di governo; la crisi, sempre più evidente, della progettualità condivisa, della spinta motivazionale alla ricerca dell’innovazione didattica e dell’aggiornamento in ampi settori del personale insegnante; la sfiducia, sempre più diffusa e via via meno rimediabile, nella capacità di rappresentanza della categoria da parte delle organizzazioni sindacali (quelle “tradizionali” di orientamento confederale, ma anche quelle “alternative”).
E’ bene chiudere, a questo punto, per motivi espositivi, un elenco già troppo lungo (e presente in tutta la sezione monotematica) e, tuttavia, evidentemente e fortemente incompleto e parziale. Parziale anche perché incentrato esclusivamente sul disagio presente nell’ottica e sul versante del comparto insegnanti.  Un disagio che dev’essere, comunque, forte e pervasivo se anche un settimanale a larga diffusione vi dedica addirittura la copertina con un titolo ad effetto: E’ scoppiato il prof. (2).

Sinonimo di apprendimento
Ma la scuola dovrebbe essere sinonimo di apprendimento, oltreché ed ancor più che di insegnamento.
Andiamo, dunque, per brevi cenni, a tratteggiare qualche aspetto del disagio sul versante della popolazione studentesca. Qui più che un elenco è opportuno far riferimento ad un dato unico e rivelatore: quello della cosiddetta dispersione scolastica. Nelle scuole superiori la “mortalità” (come metaforicamente è definita l’interruzione del percorso culturale di chi non termina gli studi) è molto alta. La nostra è ancora, assai più di quella di altri Paesi europei, La scuola degli studenti perduti (3) come titola un grande quotidiano riferendo del Convegno di S. Patrignano dei ministri europei della pubblica istruzione.  E molto alta la dispersione è anche all’università: dove solo il 42% degli immatricolati raggiunge il titolo di studio finale a fronte del 67% dell’Unione europea.
Oltre a quelli sul conseguimento o meno del titolo di studio (che dischiudono comunque ad un intero e sotteso universo di contraddizioni e di connesse riflessioni), di dati ed elementi su cui ragionare relativamente al disagio giovanile e studentesco ce ne sono molti altri, ovviamente: come quelli estremi a cui rimanda Marco Lodoli (4) intervenendo nel dibattito sui recenti indirizzi governativi finalizzati all’indistinta repressione delle sostanze stupefacenti. Scrive Lodoli, rifacendosi come altre volte alla sua diretta esperienza di educatore: “Io insegno in una scuola dell’estrema periferia romana, completamente diversa dal Virgilio, liceo della buona borghesia, quindi non pretendo di fornire un campione assoluto. Però, quando ad esempio domando: ‘Secondo voi, qual è la percentuale di ragazzi che si fanno le canne?’ e la risposta è ‘tutti’, rimango un po’ stupito. Allora vado avanti, so che i ragazzi si fidano di me e che sono sinceri nelle loro risposte: ‘Quanti invece si impasticcano?’ Risatine, gomitatine: ‘Almeno il sessanta per cento’. Domanda successiva col verbo in voga: ‘Quanti pippano cocaina?’. Silenzio, un attimo di esitazione (….) risposta: ‘un buon cinquanta per cento’.(…) Poi c’è il foltissimo gruppo di bevitori, qualche inalatore di strane schifezze, gli sporadici assaggiatori di chetamina e via così”. Sono cifre e dimensioni di un quadro, verrebbe da dire di primo acchito, da generazione perduta. Assai significative le considerazioni conclusive svolte in merito dall’autore dell’articolo citato, che vale la pena di riprendere: “La mia impressione è che i ragazzi vivano frustrazioni insopportabili e che cerchino in ogni modo di allentare quella sofferenza (….) Hanno sedici anni e già si sentono  dei falliti. Una felicità impossibile brilla oltre un vetro blindato. Per illudersi di partecipare alla Grande Festa possono comprarsi una maglietta firmata, un paio di scarpe pubblicizzate, ma è un’emozione che dura niente, un sogno che subito svanisce. Un tiro di coca dura un poco di più, ma la disperazione rischia di durare tutta la vita”(5).

L’istituzione è come un cagnone
Sono riflessioni crude ed impietosamente (o realisticamente?) critiche che rimandano, ben oltre il comparto separato in cui vive l’istituzione-scuola, alla più generale crisi di motivazioni e di riferimenti etico-ideali che pare caratterizzare, in molti suoi aspetti, la società contemporanea.
Certo è che la Scuola, nella sua inadeguatezza e  nella sua strutturale incapacità a rispondere a domande di tale, drammatica, portata, vede confermata  ancor più la sua crescente perdita di rilevanza dal punto di  vista sociale e, in buona sostanza  (nel senso più profondo e meno “scolastico” del termine), anche dal punto di vista  “culturale”.  Ma non sono proprio la perdita di importanza, lo svuotamento di ruolo ed il calo di considerazione sociale che, secondo talune inchieste, sono alla base del disorientamento degli insegnanti e degli operatori del mondo dell’istruzione? L’istituzione-scuola non tiene più: sembra essere sempre più un guscio vuoto pur essendo contraddittoriamente un contenitore pieno di nozioni, di strutture e (secondo una terminologia corrente) di “progetti educativi”. E’ sotto accusa per non saper dare risposte al vissuto emozionale dei suoi giovani utenti in una fase delicata della vita e del processo di crescita. Chi non ha letto, almeno una volta, le  analisi, quasi delle invettive, taglienti al punto da apparire supponenti, di un commentatore come Umberto Galimberti? Gli insegnanti, chi più chi meno, chi con maggiore chi con minore sensibilità e competenza, questa contraddizione la vivono, la sperimentano e la sentono. Sentono, cioè, l’incapacità strutturale dell’istituzione, al di là dell’impegno o del disimpegno del singolo educatore, di dare risposte credibili ad un problema che ha altrove la sua origine e la sua consistenza. Vivono e soffrono dall’interno la contraddizione – esplosiva – e sono però spesso esposti al fuoco della critica. Il cerchio così sembra inesorabilmente chiuso.  E l’istituzione scolastica sembra, sempre più, metaforicamente, un grosso ed inquieto cagnone che continua instancabilmente a tormentarsi la coda.
Si ha l’impressione che questo abbia voluto dire ancora Marco Lodoli, con il suo libro I professori e altri professori (6). Un libro che più che dell’istituzione scolastica, al cui interno pure sono ambientati alcuni dei racconti proposti, parla, a seconda dei casi, con tenerezza e crudeltà, della difficoltà profonda di educare e di instaurare rapporti significativi all’interno di un’esistenza e di una società sempre più sfuggenti e dolorosamente contraddittorie. Emblematica, in uno dei racconti, la figura del professore di storia dell’arte, a cui “piace conquistare un’ammirazione, piegare quel ferro tenero, sentirsi originale senza doverlo essere” (7) finché non avverte la frustata del giudizio dell’alunna, ingenuamente di lui innamorata ed inevitabilmente disillusa, che lo accusa di credere “che con le parole si risolva tutto” mentre le “parole sono bugie, non dicono niente di quello che uno prova”(8). Drammatico il racconto Il rinoceronte, dedicato ad un’insegnante che tutto ha dedicato, o pensa di aver dedicato, alla scuola e che assume un atteggiamento meschino e vendicativo il giorno in cui si sente derisa, a causa della sua ingombrante corporatura, dagli studenti.  Sorprendente l’emersione di una scintilla dell’autentico rapporto umano che dovrebbe scattare all’interno della dimensione educativa, là dove forse meno te l’aspetteresti: nell’auto in cui si danno lezioni di scuola guida. Con l’istruttore che, si ferma a riflettere, ne ha “ascoltate tante di storie” senza muoversi dal suo sedile come “un prete in un confessionale a quattro ruote”. E che tante volte ha sentito ripetere che la “vita è uno schifo”; “questa è la frase  che è volata più spesso tra il cruscotto e il vetro, come quegli uccelli che entrano in casa e sbattono contro le pareti senza trovare l’uscita”(9). Ed è in questo inusuale contesto e da queste premesse che timidamente nasce
il delicato rapporto fra l’istruttore e l’allieva, assai poco portata per la guida, in verità, ma bisognosa di attenzione e di umana delicatezza. Il finale che vede l’uomo e la donna sul lungomare
a gustare un gelato assieme ad uno zingarello precedentemente investito in maniera non grave dalla maldestra guidatrice allude evidentemente al recupero, o all’inedita delineazione, di un’autenticità di rapporti umani di cui grande è il bisogno e raro l’inveramento.

L’illusione di essere sulla cresta dell’onda
Chiedere qualcosa del genere alla scuola, si dirà, è improprio e, più che mai, inattuale. Non solo perché spesso, a ragione o a torto  (talora, sia detto a discarico di molti insegnanti, assai a torto), gli insegnanti vengono vissuti proprio come diceva  don Milani: come i preti e le puttane. Che prima si innamorano delle creature loro affidate e poi le abbandonano, come recitava una sua espressione volutamente e crudamente irridente e provocatoria.  C’è, oggi, molto di più e di diverso: la Scuola non è più l’istituzione che campeggia (come riferimento sacrale dei “pierini”  di milaniana memoria o come Moloch trituratore degli esclusi) e fa da ineludibile riferimento formativo alla società.  La Scuola, diceva anni fa un amico pedagogista che ha collaborato anche a questa sezione monotematica, è come la strada. Vi si passa, quasi senza accorgersene. Altrove si cercano probabilmente, proprio come nel libro di Lodoli, “altri professori”, altri maestri. Buoni a volte, a volte cattivi.
La nostra vecchia scuola, dunque, è ormai un’istituzione-titanic? Un’istituzione, cioè, che si illude di essere ancora sulla cresta dell’onda ed invece è ormai in via di affondamento ed è forse in parte già affondata senza essersene nemmeno accorta?  In ogni caso al suo affondamento molti tendono, consapevolmente o meno, a contribuire. Che altro pensare quando si sente sempre più dire che, pur dando per scontato il ruolo grigiamente istituzionale della scuola, ormai la vera formazione e la vera strada per far nella vita le cose che contano, le cose concrete, si trovano altrove? Che altro dire quando la nostra scuola pubblica sempre più è presentata, anche nei casi in cui è ben lontana dall’esser tale, come un ingombrante, scassato ed arcaico baraccone?
Cercare qualche riferimento retrospettivo, dal punto di vista storico e culturale, ci aiuta anche a capire perché e come siamo giunti fin qui. E soprattutto ci può fornire degli spunti per reagire e per recuperare un senso ad un profilo di qualità ad una realtà, quella scolastica appunto, che ha profondamente bisogno di ritrovare una strada che valga la pena di essere battuta. E che possa dare un riferimento in un lavoro quotidiano,  faticoso, difficile, e, insieme, bisognoso di considerazione e di riscatto.
Inattualità ed attualità di Barbiana
Voltarsi addietro a volte aiuta. Aiuta se lo si fa in maniera non regressiva. Se si guarda a quel che si è stati per sapere dove deve volgere il nostro futuro percorso.
La scuola italiana di cammino ne ha fatto, molto.  A cominciare da quando il Paese si ritrovò unito alla fine del processo risorgimentale e si scoprì quasi totalmente analfabeta. Era, come si insegna per l’appunto a scuola, un paese a monarchia costituzionale, liberale ma non democratico. Chi non sapeva leggere e scrivere non votava. E leggere e scrivere non sapeva quasi nessuno.
L’alfabetizzazione partì di lì. Ebbe i suoi modi, sbrigativi e brutali, con scolaresche numerose e poche finezze pedagogiche. Ma ebbe, sicuramente, anche momenti fervidamente positivi e formativi, anche a voler ridere (come oggi vien sbrigativamente di fare) della retorica di sapore deamicisiano del tempo che fu. Ci furono anche figure e momenti eroici. Persone che pagarono con l’incomprensione ed il patimento di dolorose ostilità un lavoro che talora appariva finanche come “missione”. Emblematica  in tal senso la tragica vicenda della giovane maestra Italia Donati, ricostruita con fervore da Elena Gianini Belotti , (10) che pagò con il prezzo della vita, nell’atto estremo della scelta del suicidio, l’ostracismo patito per essere maestra  (di umili origini, per di più), giovane e donna.
Poi, con i decenni, si strutturò la scuola italiana. Prese, per così dire, a pensarsi e ad essere progettata in grande. Così è nel profilo, oggi possiamo dirlo dopo averla giustamente e convintamene contestata (e, in alcuni casi, patita sulla pelle), della Scuola gentiliana. Una scuola dai mille difetti, per la sua impostazione unilaterale, la sua sottovalutazione del lato tecnico e scientifico della formazione, il suo forte classismo, ma dalla forte impalcatura. Ce ne rendiamo conto di più oggi che viviamo in tempi di improvvisazioni e di “riforme” destinate a durare lo spazio di mezza legislatura.
La scuola gentiliana, elitaria e classista è, comunque, poi diventata scuola di massa, dagli anni sessanta in poi. Da un certo punto di vista, Barbiana e la sua denuncia sono abissalmente lontane.
Ma la scuola di massa (lo evidenziano proprio i dati sulla dispersione scolastica su cui prima ragionavamo, lo attesta un sentimento diffuso di inadeguatezza) riproduce al suo interno e proietta all’esterno meccanismi nuovi di selezione, discriminazione ed esclusione. Ha i suoi Pierini, ha i suoi Gianni. Barbiana e la sua denuncia sono, da un altro punto di vista, di sorprendente attualità.
Certo, la Scuola ha vissuto, anche, cambiamenti importanti. Ha cercato, in passaggi significativi, di aprirsi, rinnovarsi e democratizzarsi. Ho anzi l’impressione che vi sia stata, in questo, per certi aspetti, accanto a tanti elementi contestabili e ad aspetti sinceramente deprecabili, una positiva peculiarità “italiana” di taluni aspetti della nostra scuola. Si pensi all’enorme rinnovamento ed al processo di qualificazione interna di cui è stata protagonista la scuola primaria. “Protagonista” è il termine giusto. Esperienze come il tempo pieno alle elementari o il rinnovamento didattico della stessa scuola dell’infanzia hanno visto attivamente partecipi in maniera consapevole settori non piccoli del personale insegnante. C’ è stata, negli anni, una professionalità che è cresciuta. Che oggi tutto questo venga rimesso in discussione, che il tempo pieno divenga sempre più un fatto residuale e che si torni a puntare sull’unidimensionalità dell’“insegnante prevalente” è un triste e scoraggiante segno dei tempi.

Il “nuovismo”
Anche l’istituzione della scuola media unica ha rappresentato, a suo tempo, un cambiamento importante ed è stata un fattore di democratizzazione del sistema dell’istruzione nel nostro Paese.
La scuola media inferiore è talora bistrattata o, quanto meno sottostimata, considerata com’è né pesce né carne. Non ha avuto, credo, l’impennata di orgoglio innovativo che ha vissuto didatticamente la scuola elementare e non ha la percezione di sé che si vive(va) alle superiori di essere, tutto sommato, la “vera” scuola, quella per i grandi, dunque la più importante secondo un vecchio schema riferito soprattutto al settore liceale.
Eppure anche la scuola media, soprattutto in certe situazioni, si è rinnovata molto; e svolge, su questo non c’è dubbio, un compito delicato ed è gravata di forti responsabilità, rivolgendosi, per l’appunto, a ragazzi che hanno bisogno di forti punti di riferimento e di motivazioni proprio perché non sono “né pesce né carne” ed hanno bisogno di capire e cercare la loro strada. Non aver capito la peculiare importanza della scuola media è stato, ritengo, uno degli errori del tentativo berlingueriano di riforma dell’architettura della nostra pubblica istruzione. L’idea di accorparla nei  sette anni di una nuova scuola primaria – va detto, a futura memoria, a costo di apparire politicamente scorretti – partiva sì da un’esigenza giusta (quella dell’unitarietà dell’obbligo), ma disconosceva la particolarità e la delicata configurazione di una particolare fascia dell’età evolutiva e del processo di apprendimento. E sacrificava, soprattutto, sull’altare di un “nuovismo” desunto un po’ meccanicamente da modelli europei (ma essere convinti europeisti non vuol dire riprendere senza mediazioni schemi altrui) e da qualche importante esperienza di carattere sperimentale(11), il particolare patrimonio di esperienze storiche legato alla battaglia per l’affermazione della scuola dell’obbligo. All’esperienza berlingueriana alla pubblica istruzione, intendiamoci, da un certo punto di vista, andrebbe reso l’onore delle armi. C’è stato, allora, un tentativo importante di sottolineare nuovamente la centralità del fattore scuola-istruzione-cultura e di puntare sulla sua innovazione.
Questo è stato importante e, per certi versi, anche coraggioso. Si è puntato sull’innalzamento reale dell’obbligo (istanza oggi nuovamente e sostanzialmente denegata) ed anche questo è stato, pur nella modestia dei risultati conseguiti, un obiettivo giusto e condivisibile. Quando, tuttavia, sento insegnanti “progressisti”, amici dei DS, o dell’Ulivo o, comunque, dell’area di centrosinistra dire che è da quell’impostazione che bisognerebbe ripartire, avverto qualcosa che non convince, che non va.
Non credo, infatti (anche se, ha ragione Daniela Colturali in questo, non serve rivangare più di tanto in quel che è stato) che la sollevazione e l’ostilità di settori numerosi della categoria insegnante contro l’impostazione delle linee berlingueriane di riforma della scuola fosse dovuta solo a chiusura mentale; o ad  ottusità; o a ad un’emersione collettiva di pulsioni corporative. C’era anche questo, certo. C’erano resistenze sbagliate e non condivisibili. Ma non c’era solo questo. Quando il consenso non c’è o non si crea, ci sono sempre motivi più seri e più di fondo.
Prendiamo il tema dell’autonomia scolastica. “Autonomia” è un’espressione ed un’istanza bellissima. Chi può non essere d’accordo nel valorizzarla o promuoverla? Ma qui si ha, per l’appunto, l’esempio di come, a partire da una bella istanza, si possa poi giungere a darne una concretizzazione discutibile e fuorviante.  “Autonomia” nella scuola italiana rischia di essere sinonimo di “feudalizzazione”, di diversificazione inaccettabile delle varie realtà, di competizione mortificante fra istituti scolastici, di sostanziale definizione di situazioni di sere A e di situazioni di serie B. Consideriamo anche, a costo di finire sul banale (ma banale la posta in gioco non era), il famoso “concorsone”. L’istanza di partenza era fondamentalmente corretta: uscire da un’“egualitarismo” appiattente, dequalificante, un po’ veterodemocristiano e un po’ da “socialismo reale”, e valutare la qualità del lavoro. Ma le modalità individuate, scopertamente “americaneggianti” ed estranee alla nostra mentalità ed alla nostra cultura, offesero la categoria (non solo nella sua parte più demotivata, tutt’altro) ed offrirono a COBAS e GILDA, su un piatto d’argento, la possibilità di fruire di un occasionale ed insperato consenso di massa, di cui sarebbe stato saggio valutare per tempo la portata. E’ bene fare retrospettivamente questi rilievi, credo, perché è anche da una riflessione su quel che è stato che bisognerà ripartire una volta usciti dalla penosa situazione, sia detto senza mezzi termini, in cui gli indirizzi dell’attuale governo di centrodestra hanno confinato la scuola italiana.  Non mi pare opportuno ripetere qui quanto sta scritto in tanti interventi di questa nostra sezione tematica su Scuola e Formazione: sulla negatività di un’impostazione che vuole l’istruzione (non più “pubblica” nella denominazione stessa del Ministero) divisa brutalmente fra formazione professionale e formazione liceale; sull’arretramento secco sulla questione dell’obbligo scolastico; sullo stesso impoverimento dei riferimenti culturali che si vogliono mettere a fondamento del processo educativo e formativo.  Su tutto questo avremo modo, ahimè, più volte di tornare.
Voglio limitarmi qui ad un riferimento, e ad una discriminante, di fondo. Al fondo dell’idea morattiana di cambiamento dell’istituzione-scuola , anche se vogliamo limitarci agli intendimenti soggettivamente esibiti come “positivi” e propulsivi, c’è un proponimento che val la pena di esaminare e discutere. E’ anzi un proponimento, ovviamente, di tutto il centrodestra.
Quello che Silvio Berlusconi, da buon “comunicatore”, ed il suo partito, Forza Italia, sintetizzano nelle famosissime tre i: internet, inglese, impresa. C’è, insomma, l’idea che rinnovare l’istruzione e rinnovare, insieme, il Paese, significhi dare non tanto più contenuti ed opportunità quanto più “tecniche”.
Intendiamoci: se nel nostro Paese un po’ provinciale si imparano di più le lingue (cosa di cui il sistema scolastico tradizionale si è preoccupato pochissimo) non è certo un male, anzi! Se studenti (e insegnanti) si muovono bene sul terreno dell’informatica ed hanno nozioni di economia non c’è che da guadagnarne. Ma è l’impostazione di fondo del discorso che è contestabile ed arretrata nella sua apparente modernità. Il “nuovismo”, il “tecnicismo”, la (apparentemente sensata) finalizzazione “concreta” degli insegnamenti non sono affatto le medicine più adatte per una scuola italiana che di novità (ma di quelle correttamente impostate) avrebbe, comunque, molto bisogno.

Una “testa ben fatta”
Il “nuovismo “ e la finalizzazione “tecnicistica” corrodevano dall’interno, in realtà, anche alcuni aspetti dell’impostazione del centrosinistra  sopra richiamati (e forse lì era il tarlo culturale che ha finito per corrompere dall’interno l’intero progetto), anche se vi era stato, ad un certo punto, un tentativo serio di costruire un nuovo discorso attorno ai “saperi” da porre al centro del processo educativo. Il problema non è insomma, solo di carattere quantitativo e metodologico: di insegnare più cose, insomma, e di insegnarle con metodologie più moderne; anche se quanto si insegna e con che metodo lo si insegna è, certo, un problema non trascurabile. A parte la banale considerazione che, per insegnare  più tecniche e per poter mettere in condizione di insegnare meglio, ci vorrebbero investimenti e risorse. Che è proprio ciò che oggi manca o che l’attuale maggioranza governativa si guarda bene dal mettere a disposizione. Ma lasciamo perdere la polemica politica contingente ed andiamo a questioni di fondo. Come quelle relative a che cosa significhi, oggi, parlare di organizzazione del sapere, discipline e competenze(14). Si chiede  in merito Franco Cambi (15): “(…) dove formare una mente ‘a più dimensioni’ e abituarla ad usare tutte queste dimensioni? Ciò può avvenire solo a contatto della cultura nel suo insieme e colà dove si attua la trasmissione culturale in senso specifico (formale e integrale) di generazione in generazione: nella scuola. E in una scuola che agisca relativamente separata  dai mezzi di informazione corrente (dalla radio alla televisione, alla pubblicità a Internet). Che ne cancelli l’unidimensionalità e l’autoritarismo implicito, per attuare – invece – un uso della mente che ne rispetti il polimorfismo e la ricchezza/complessità, come pure il suo statuto integrale squisitamente dialettico e pertanto critico  poiché capace di attivare ‘uno sguardo da lontano’ (…) su ogni processo conoscitivo (…) su ogni modello di cultura, su ogni forma di società…”.
Ecco, dunque, il punto centrale da cui partire nella discussione su come reimpostare, a partire da ciò che di buono negli anni si è prodotto e che, in tempi recenti, avventatamente, si tende a scompaginare, i criteri-base del processo educativo e formativo: a partire dalla cultura nel suo insieme.  Il riferimento è appropriato ed efficace. E’ lo stesso a cui continuamente rimanda un grande studioso europeo come Edgar Morin (16).  Affrontare criticamente e consapevolmente il “mondo globale” comporta non solo l’acquisizione, pur necessaria e sempre più specifica, di competenze particolari e specialistiche, ma l’inserimento dei singoli settori disciplinari in un contesto culturale che sia, per l’appunto, “globale”, stratificato e polidimensionale.
L’interdisciplinarietà e la pluridisciplinarietà, la cura della trasversalità e dell’interconnessione dei “saperi” rappresentano, per adesso, il vero appuntamento mancato ed il terreno vergine ed inesplorato di troppi ambiti del nostro sistema educativo e formativo. Ci sono, certo, in merito, lodevoli eccezioni a livello personale o di singole esperienze. E ci sono interessanti proposte nel campo dell’editoria scolastica (17). Ma, molto spesso, la scuola italiana, soprattutto la scuola superiore, quella che ha più bisogno di rinnovamento, funziona a comparti, per binari paralleli e per percorsi separati. Ci sono, anche qui, lodevoli eccezioni.Ci sono insegnanti che hanno la percezione sempre più accentuata del carattere pluridisciplinare delle stesse materie che insegnano. Ma nell’insieme c’è un gigantesco problema di ri-aggiornamento, di formazione, di riorganizzazione del modo di lavorare (e di concepire lavoro educativo e sapere) che richiederebbe una riforma, certo.
Ma non una riforma disordinatamente “innovativa”, fondata su una percezione superficiale del credo modernizzante e tecnicistico in ambito formativo, bensì un progetto di cambiamento che puntasse al cuore della sfida: più competenze specifiche, certo, ma anche più globalità ed interconnessione del processo formativo. Bisognerebbe avere il coraggio di rivedere i curricoli prima di incidere esternamente sull’architettura della scuola. Certo, per far questo ci vorrebbe lungimiranza culturale, volontà politica, ci vorrebbero risorse.
Non è quanto oggi – per ripiombare sull’attualità – può garantire la compagine di centrodestra che governa il Paese; ma anche il centrosinistra dovrà fare attenzione a non ripartire con il piede sbagliato ed a scambiare obiettivi di poco conto con i grandi traguardi di cambiamento che gli orizzonti mutati del “mondo globale” ci pongono di fronte, postulando una nuova paideia ed una nuova cultura critica e non l’assunzione di un generico “nuovismo”.
Bisognerà, anche, fare attenzione a non ricadere nei luoghi comuni del progressismo generico, che rischiano di alimentare il demagogico quanto infruttuoso moralismo delle mode culturali “alternative” e degli schemi troppo facili del “didatticamente corretto”. Anche qui, intendiamoci: le esigenze di partenza, non di rado, sono valide e, talora, sacrosante. Ma le scorciatoie producono, in non pochi casi,  risultati pasticciati e rimedi che sono peggiori del male. Prendiamo uno dei (più encomiabili, in sé) cavalli di battaglia della cultura e della pedagogia “progressiste”: bisogna insegnare e studiare la storia del Novecento. Giusto: si può non essere d’accordo? I giovani non conoscono cronologia, eventi, fenomeni culturali, ideologie, volti del travagliato “secolo breve”.
Ma una trattazione affrettata e abborracciata, realizzata sotto la pressione di un incalzante ed apodittico “dover essere” rischia di ridurre drammi e passaggi significativi della storia contemporanea a mera narrazione o a didascaliche illustrazioni di istanze morali trasferite impropriamente sul terreno della ricostruzione storica. “Fare” efficacemente insegnamento della storia del Novecento non si può se non si è curata la formazione di categorie concettuali (classe sociale, ideologia, stato-nazione, colonialismo, imperialismo, riformismo e rivoluzione, ecc.) fondamentali che ne permettano la corretta comprensione: cioè, se non si è ben curata la storia del precedente, diciannovesimo, secolo.   Altrimenti si rischia di dare surrettiziamente ragione  a coloro che (sostenitori del “revisionismo” storico e detrattori, più o meno in buona fede, dell’“attualizzazione” della storia) sostiene che a scuola della storia più recente è meglio proprio non parlarne.
E’, questo del corretto inquadramento del problema dell’insegnamento della storia contemporanea (18), uno dei molti esempi che si potrebbero fare per dire che la scuola non è riformabile a base di  riduttive parole d’ordine o di istanze morali(stiche), ma con la costruzione di una seria, approfondita e meditata revisione dei contenuti, dei percorsi e dei curricoli che  un reale, non superficiale e  non “nuovistico”, svecchiamento ed aggiornamento dell’impianto cultural-pedagogico del nostro sistema educativo pone all’ordine del giorno.

Perché tanto smarrimento?
C’ è un’ultima questione, di portata generale e di carattere squisitamente culturale, se non addirittura di tipo “antropologico”, cui, in chiusura è opportuno rinviare: una questione tutt’altro che “ultima” per importanza tra le tematiche relative al complesso e travagliato mondo della scuola e della formazione. Un mondo che oggi è in forte crisi di identità (questo è, al fondo, il senso dell’intera, pluralistica, discussione che anima la nostra sezione monotematica e che risuona, ad es., nelle semplici e vibranti considerazioni con cui padre Perrone conclude l’intervista che gentilmente ci ha rilasciato).
E’ allo sconcertante e dolorante panorama dalla cui descrizione anche queste note hanno preso avvio che è forse opportuno ancora tornare a riflettere. Perché tanto smarrimento? Quale ne è la causa “principe”? E cosa è possibile fare per provare ad uscirne e ad individuare almeno un inizio di condivisa terapia?
Certo, lo abbiamo detto, i mali della scuola italiana sono tanti. Siamo in presenza di un sistema scolastico in cui, secondo recenti analisi (fondate sul secondo rapporto sullo stato di salute della nostra scuola), la “mediocrità (….) appare equamente diffusa” (19). Al suo interno i risultati delle attività sono deludenti; infatti, i “livelli di comprensione della lettura sono mediocri e questo fatto pregiudica anche (…) altre discipline. La grammatica e l’analisi logica danno problemi, la carenza nelle materie scientifiche è profonda e negli stessi licei scientifici esistono vistose lacune…” (20).  A fronte di  analisi di questo tipo, che avrebbero comunque  bisogno di essere fortemente ed accuratamente verificate e precisate e che rimandano implicitamente e verosimilmente a problemi generali di impoverimento culturale della nostra società oltreché alla necessaria rettifica e reimpostazione di strategie didattiche e culturali, suonano ancor più inquietanti alcuni degli accenti della filosofia sottesa agli indirizzi politici dominanti in materia scolastica. Caustico come sempre, Michele Serra dice di aver notato che “nel Piccolo dizionario della Riforma, diffuso dal Ministero dell’ Istruzione (…) la parola cultura non appare mai” facendo sorgere il sospetto “che l’attuale classe dirigente veda nella scuola italiana una specie di colossale corso di inserimento aziendale”(21).
Se così è, vi è in tale intendimento assai poco di moderno (contrariamente a quel che sembra pensare l’amico Renzo Foa, che, in modo misurato e piano, ha accettato di esporre sulla nostra Rivista il  suo “diverso parere” in merito). Gli stessi Paesi che prima di noi hanno sperimentato impostazioni del genere stanno facendo clamorosamente marcia indietro. La mancanza  o la carenza di una complessiva apertura culturale di carattere generale e la povertà di formazione civica ed umana impoveriscono anche il potenziale di competenze tecniche e strumentali che si pretende di far acquisire nel processo di apprendimento. Senza apertura mentale e culturale, sia detto in parole povere, e senza formazione dello spirito critico, la tecnica stessa e l’approccio moderno ai multiformi aspetti della società complessa non hanno gambe per camminare. Mancano, in radice, le premesse di fondo perché l’azione educativa e l’apprendimento possano produrre, insieme, corposa sostanza e duttile adattabilità delle conoscenze.

L’attimo fuggente: pro e contro
Si ripropone dunque, oggi, più che mai, la necessità di combattere un antico equivoco e di tornare a ribadire con nettezza un importante e dirimente elemento di fondo in merito alla questione “scuola e formazione”: far scuola non equivale soltanto, come erroneamente suggerisce il senso comune, a comunicare ed a cercare di far apprendere conoscenze di carattere strumentale; far scuola significa entrare, all’interno di una fondamentale e delicata relazione umana fra persone diverse e complementari per ruolo, posizione e competenze, nel cuore della motivazione per cui vale la pena
insegnare ed imparare.
E’, quello di carattere motivazionale, un discorso di fondo, a torto tralasciato dopo le primitive e generose intuizioni ed i successivi fraintendimenti estremizzanti di derivazione post-sessantottesca (che portavano, talora, a trascurare contenuti ed impostazione rigorosa degli insegnamenti da proporre); un discorso da riprendere e da porre di nuovo al centro e come perno della riqualificazione della vita della scuola. Non sempre, certo, possono esservi motivazioni forti: come erano, per fare il più ricorrente eppur dirompente degli esempi, per don Milani ed i suoi ragazzi,  quelle derivanti dalla spinta a costruire le premesse culturali per un futuro che portasse a fuoriuscire dal  letame delle stalle mugellane; o come quelle, per dire, del destrutturate ma entusiasmante fervore delle correnti democratiche dell’attivismo, del pragmatismo e dello sperimentalismo pedagogico; o come quelle, per citare ancora un bell’esempio della storia  pedagogica della cultura fiorentina, del laico fervore civile di un’esperienza, di grande valenza sociale, come Scuola-Città “Pestalozzi” di Codignola nell’immediato secondo dopoguerra.
Oggi  i tempi sono, insieme, complicati e complessi (per dirla con termini niente affatto tra loro equivalenti); la situazione è contorta ed ha tonalità che tendono, talora, verso colorazioni apparentemente smorte e grigie; l’istituzione-scuola (lo abbiamo detto fin qui) è in piena crisi.
Una crisi che è, insieme, strutturale e di identità. Eppure, senza uno scatto (certo, non tanto e non solo volontaristico) di tipo motivazionale non se ne esce. La scuola, insomma, non è solo un grosso congegno da riparare, con una politica ed una pedagogia di sapore sostanzialmente “ingegneristico”.
La scuola, sia detto ovviamente al fuori di ogni fraintendimento “spiritualistico” e di ogni sottolineatura di tipo pateticamente retorico, ha anche da ritrovare, da riscoprire o da reinventarsi un’“anima”.
Sottolineare, di nuovo, la centralità della riscoperta dell’elemento motivazionale nel rapporto educativo equivale, forse, a valorizzare o a recuperare, una dimensione di carattere “buonistico”, per dirla con un insopportabile termine alla moda?
Non credo, non necessariamente. Motivazione, autorevolezza e rigore dei contenuti e dei curricoli culturali non sono affatto in contraddizione fra loro. Anzi, si integrano e si sostengono fecondamente a vicenda. Mi pare troppo secca, d’altra parte, l’alternativa che, nel suo interessante articolo, propone il mio amico Maurizio Bassetti tra la figura dell’insegnante efficiente e un po’ manageriale e quella dell’insegnante-educatore. Non credo che la figura dell’insegnante, anche quella dell’insegnante più bravo, motivato e coinvolto, sia assimilabile (come conviene Maurizio stesso)  a quella del genitore. L’insegnante, pur nell’intima “com-passione” (intesa, ovviamente, nel più profondo senso etimologico del termine) e nell’affetto per i suoi ragazzi, ha da mantenere, programmaticamente, un distacco professionale che è funzionale alla feconda maturazione del processo educativo e che lo colloca in un ruolo strutturalmente diverso da quello genitoriale.
E’ del tutto discutibile, d’altra parte, che l’insegnante modello “attimo fuggente” sia il più adatto a favorire il processo autonomo di crescita e di maturazione critica di chi è nella posizione di dover apprendere. Posizione tipicamente “dipendente”: dipendente dalle figure adulte di tipo autoritario, certamente, ma anche da quelle che puntano, senza cautele e filtri adeguati, sulla forza seduttiva del messaggio anticonformistico e dell’invito catartico alla trasgressione culturale.
L’Attimo fuggente è un film bellissimo e commovente. Anche chi scrive ha rivisto (anche insieme ai propri studenti), meditato e goduto più volte delle scene,  della trama,  dell’incalzante susseguirsi dei passaggi di una vicenda didascalicamente drammatica.  Che riconducono, però, alla storia di una passione che è anche storia di un fallimento. Il professore intelligente, colto, innamorato dei giovani e del suo mestiere (tanto da vivere nella solitudine della sua camera presso il College pur di insegnare, come magnificamente sa fare) finisce per essere cacciato. Per colpa dell’ottusità e della durezza dell’istituzione, certo; ma anche per non aver saputo proporre il suo importante messaggio formativo, forse, con le dovute mediazioni e con le accortezze che potessero evitare, sul finire, di dover abbandonare i suoi studenti, esposti alla brutalità della repressione istituzionale. Passione, rigore culturale, cura attenta e cordiale delle relazioni umane e, insieme,  attento inquadramento professionale delle dinamiche che inevitabilmente si generano in un ambito che si fonda prima di tutto su un rapporto, ed un interscambio, fra persone come quello educativo: si tratta di una combinazione e di una miscela non facili da ottenere.
Eppure è proprio in questa direzione, e con questa ottica, che andrebbero formati i formatori, che andrebbero educati coloro che hanno il compito di educare le persone loro affidate.
Non è, questa, una digressione, come superficialmente potrebbe sembrare. E’, forse, anche se è in controtendenza e fuori moda dirlo, il cuore del problema.
Quello dell’insegnamento è un lavoro delicato e complesso: richiede attenzione e pazienza, ma può fornire anche importanti gratificazioni. Diceva una grande scrittrice come Natalia Ginzburg che i maestri andrebbero pagati bene perché fanno un lavoro importante. Ma nell’Italia di oggi investire risorse nella formazione è, come abbiamo detto, quanto di più improbabile possa essere dato di supporre.
E sì che di investimenti, non solo di ordine materiale, ma anche di natura culturale, politica e morale la scuola avrebbe un grande bisogno. Ma non è, questa, un’istanza di immediata e prioritaria evidenza. Anche se l’urgenza, in questa direzione, è grande.
Si racconta che un grandissimo umanista tardomedievale sostenesse che se un uomo si fosse mostrato particolarmente “duro di cervice” sarebbe stato adatto per fare il “pedagogo”.
Considerazione simpaticamente feroce, e quanto mai inattuale: complessità del mondo contemporaneo e “durezza di cervice” difficilmente possono essere compatibili in un contesto come  quello del settore della scuola e della formazione, che ha bisogno di attenzione, duttilità e profondità intellettuale per saper inquadrare con acume critico una realtà drammaticamente lacerata e contraddittoria, ma anche ricca di potenzialità inedite ed inesplorate.
NOTE
1) Bruno Ciari, La grande disadattata, Editori Riuniti, Roma 1973
2) Il settimanale in questione è “L’Espresso” del 9 Ottobre 2003  che, sia pure con un servizio (a firma Fiamma Tinelli) di taglio “impressionistico” ed incentrato sulla sottolineatura di alcune situazioni pittoresche o drammaticamente estreme, fa riferimento a dati inquietanti che attesterebbero come disturbi dell’umore, dell’adattamento e della personalità siano assai più presenti fra gli insegnanti che non fra gli impiegati, gli operatori economici o i dipendenti delle strutture sanitarie.
3) La scuola degli studenti perduti è il titolo dell’articolo di Raffaello Masci su “La Stampa” del 4 Ottobre 2003, che così sintetizza la situazione relativamente alla Scuola media superiore: “(….) le fila si assottigliano sempre più, fino ad arrivare al 73% di diplomati su 100 allievi di partenza”.
4) Marco Lodoli, I miei studenti e gli spinelli, “la Repubblica”, 3 Ottobre 2003.
5) Marco Lodoli, cit.
6) Marco Lodoli, I professori e altri professori, Einaudi, Torino 2003.
7) Ivi, pag. 27.
8) Ivi, pag. 36.
9) Ivi, pag. 44
10) Elena Gianini .Belotti, Prima della quiete- Storia di Italia Donati, Ed. Rizzoli, Milano 2003.
11) Il riferimento è all’esperienza di Scuola-Città “Pestalozzi”, storica istituzione scolastica sperimentale voluta e realizzata da Ernesto Codignola nel secondo dopoguerra, oggi alle prese con gravi problemi  nel momento in cui ne viene pesantemente rimessa in discussione l’autonomia. Più volte l’ex ministro Berlinguer aveva sostenuto di aver ripreso da Scuola-Città l’idea di un’unica ed indistinta scuola dell’obbligo della durata di 7 anni.
Ma alla “Pestalozzi”, in verità, anche se vige l’unitarietà dell’obbligo (di otto anni, però),
la distinzione fra elementari e medie rimane (oggi, del resto, non potrebbe essere diversamente) e, in ogni caso, il mantenimento degli stessi alunni per così tanto tempo nella stessa unità-classe, accanto agli aspetti positivi, produce il consolidamento non poche dinamiche distorcenti sul piano interpersonale. Proprio perché rischia di negare la specificità di una fase della crescita  e la possibilità, raggiunta una certa età, di cambiare riferimenti e di sperimentare il senso della novità, anche sul piano interpersonale, in un’altra esperienza e in un altro ambiente scolastico.
12) V. in prop. alcuni passaggi  dell’interessante conversazione fra alcune insegnanti riportata da “Una Città” n.114 sotto il titolo Alunni così.
13) Un interessante contributo critico a quella discussione fu fornito, allora, tra l’altro dal testo  di Luigi Russo, Segmenti e bastoncini- Dove sta andando la scuola, ed. Feltrinelli, Milano 1998.
14) Organizzazione del sapere, discipline e competenze è una raccolta di saggi sui temi oggi al  centro del dibattito su cultura, educazione e formazione, a cura di Attilio Monista, edita da  Carocci (Roma 2002).
15) Franco Cambi, Conoscenza, scienza e sapienza, in: Organizzazione del sapere, discipline e  competenze, cit., pag. 109.
16) Di Edgar Morin, tra i tanti riferimenti proponibili, si veda, ad es., La testa ben fatta, ed. Raffaello Cortina, Milano 2000.
17) Mi piace citare un lodevole e particolare tentativo multidisciplinare promosso in proposito dall’ARPAT (Agenzia regionale per la protezione ambientale della Toscana) che ha  realizzato i due volumetti  dedicati a Natura e cultura: la Toscana, editi
da La Nuova Italia, Firenze-Milano 2001. In generale, vanno ricordati,  i noti testi,
di geografia di Giulio Mezzetti e di Gianni Sofri, diversi per impostazione, ma in entrambi  casi, di evidente ed originale connotazione pluridisciplinare.
18) Sulla grande e controversa questione dell’insegnamento della storia contemporanea, e della stessa disciplina storica in generale, molte sono le considerazioni che potrebbero essere   sviluppate (e che in questa sede è possibile accennare solo fuggevolmente) a partire dalla  constatazione del carattere pluridisciplinare che, qui forse più ancora che in altri settori, deve  necessariamente caratterizzare l’esposizione, la presentazione e lo studio di temi e problemi
presi in esame. Sempre più è giusto parlare di una molteplicità di “storie”, i cui fili ed i cui     piani interconnessi, compongono quel che solitamente e riduttivamente viene considerata, in maniera impropriamente unidimensionale, come “la storia”.
Il plurale, d’altra parte, si impone sempre in maniera crescente, nei titoli e nei contenuti ricavabili da rimandi bibliografici a testi e di lavori che hanno offerto, in questi anni, un contributo in tale direzione. Per non fare che un paio di esempi si pensi al libro  di Scipione Guarracino, Il Novecento e le sue storie  (ed. Bruno Mondadori, Milano 1997), un lavoro molto incentrato sulla storia “politica” del “secolo breve”, ma con una singolare attenzione ad una molteplicità di ottiche e di percorsi con cui guardare al cammino dei decenni trascorsi, ed al manuale scolastico I nuovi fili della memoria (ed. Laterza, Roma-Bari 2003). Un manuale redatto da tre donne (Anna Bravo, Anna Foa, Lucetta Scaraffia) che, parlando di uomini e donne nella storia, cerca, in maniera poco usuale, di rendere la compresenza del notevole intreccio di “fili” di riferimento di cui è intessuta la trama del cammino storico (elementi di storia delle donne, del costume, delle religioni…). Importante  ci pare  anche ricordare il lavoro di scavo, divulgazione ed approfondimento interdisciplinare che, da diversi anni, va facendo una rivista come “I viaggi di Erodoto” (ed. Bruno Mondadori).
19) Giorgio Chiosso, La scuola dei somari, “La Stampa”, 6 Ott. 2003.
20) Ivi.
21) Michele Serra, Il bimbo manager della Moratti, “la Repubblica”, 9 Ott. 2003.