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Un “male oscuro”?
di Severino Saccardi

E’ davvero un «male oscuro» quello riconducibile allo sfaccettato «prisma dell’illegalità» (dalle caratteristiche fosche, ma apparentemente tutt’altro che sconosciute) nel nostro «sistema Paese»?

Un principio sembra valere, comunque, per la sofferenza individuale come per le patologie sociali: senza un’analisi delle radici storiche dei problemi e senza l’individuazione di adeguate strategie, ardua appare la via del risanamento. Sul terreno della lotta per la legalità (che può richiamarsi a nobili esempi di impegno civile), la partenza non è certo dal livello zero. Un’attenzione particolare è da riservare alle combinazione di «buona politica» e istanze di rinnovamento della «società civile», che potrebbe singolarmente sbocciare proprio nel duro tempo della crisi.

Benefica la meta, faticoso il tragitto

Il male oscuro. E’ un’immagine che ben si addice all’intreccio di comportamenti illegali, di commistione indebita fra politica e mondo degli affari, di relazioni (nei casi di più grave, e non rara, patologia sociale) fra ambienti di potere e gruppi malavitosi che contribuiscono a configurare lo sfaccettato «prisma dell’illegalità» nel «sistema Paese». E’ da discutere, ovviamente, se si tratti di un’immagine, o di una rappresentazione, convincente e appropriata.

Si potrebbe, infatti, ragionevolmente obiettare che si tratta di un male dalle caratteristiche fosche e torbide ma tutt’altro che sconosciute o (appunto) «oscure»[1]. Obiezione sensata, ma fondata su un’argomentazione tutt’altro che esaustiva. Della degenerazione corruttiva che, da troppo tempo, interessa il nostro Paese sono note molte delle manifestazioni fatte oggetto di analisi e inchieste oltreché, non di rado, di indagini giudiziarie. Molti sono i fatti (o, per meglio dire, i misfatti) su cui, al riguardo, meritoriamente si è fatta luce.

Ma vale per le patologie collettive quel che spesso viene fatto di osservare a proposito del disagio e della sofferenza individuale. Di cui, generalmente, sono evidenti i sintomi, le alterazioni che si producono nell’organismo o (se si tratta di disturbi mentali o psichici) nell’interiorità della persona sofferente e incapace di trovare la via per il risanamento. Ricostruirne le radici, tratteggiare un’adeguata anamnesi, scavare al di là del sintomo e, individuate le cause, indicare un’adeguata terapia è già un altro discorso. Eccola, dunque, l’«oscurità» del male: un male che conosciamo (e che soffriamo) da vicino, che lacera, scava e corrode e di cui, pur tuttavia, tardiamo ad afferrare la sostanza per poterlo, alfine, sradicare. Giuseppe Berto, in un fortunato e avvincente romanzo [2] degli ormai lontani anni 60 , il cui titolo rimanda alla metafora qui adoprata, è esattamente di questo che parla. Della difficoltà di andare, superando resistenze e infingimenti, a fondo nella comprensione e nell’analisi di un tormento che radicalmente insidia la serenità e l’ordinato andamento della vita e del percorso non scontato da affrontare, conseguentemente, per riconquistare un equilibrato rapporto con se stessi ed un costruttivo rapporto con il mondo. Non è scontato, il percorso da fare: benefica è la meta, quanto faticoso il tragitto.

Al centro c’è il tema di un’identità da riconoscere e/o da ricostruire. Si tratta di riflessioni e di suggestioni molto «moderne» (come un tempo si sarebbe detto) e di grande attualità. Riflessioni e suggestioni che sembrano valere non solo per la dimensione individuale (fatta spesso di «luce» e di «ombra»[3] e composta di multiformi aspetti con cui non sempre è semplice venire a patti) ma, in un certo qual modo, anche per quella collettiva. Come è nel caso, ci sembra, dei temi che siamo qui ad affrontare e che sono al centro di questa sezione monotematica. C’è un corpo sociale che, in ampi ed estesi strati del suo tessuto, è in condizioni di profonda sofferenza. La malattia, nelle sue manifestazioni già conosciute e nelle tante che è dato supporre, è nota e conclamata. Ma bisogna tornare a riflettere a fondo (come, certo, in non poche e qualificate sedi è stato fatto e con contributi, spesso, di grande valore) sulle ragioni storiche di un antico e così ramificato male nostrum. Ed è necessario continuare a lavorare (come in tanti ambiti associativi ed istituzionali con coraggio e cognizione di causa si continua a fare) per percorrere con decisione le vie della decontaminazione, della bonifica e del rinnovamento.

 

La piovra globale

Va considerato, certamente, il contesto complessivo in cui il «caso Italia » è oggi inserito. Il mondo, in tutti i sensi, è divenuto davvero irreversibilmente «globale». Nel bene ma anche, evidentemente, nel male. C’è un carattere esteso, similare e, talora, interdipendente e interconnesso, a livello davvero «planetario», dei fenomeni di corruzione, illegalità, interazione fra gruppi di potere e ambienti malavitosi, gestione malavitosa e mafiosa di affari e settori tutt’altro che irrilevanti dell’economia e della finanza[4].

Una «piovra globale» che, diffusamente e disinvoltamente, gestisce relazioni, infiltra ambienti insospettabili e veste panni rispettabili, elaborando strategie nell’occupazione di «posti chiave» per il controllo di flussi di denaro, appalti e traffici illeciti di cose e di persone.

Il nostro «sistema Paese» dal collegamento con tali perverse reti di relazioni è, evidentemente, tutt’altro che esente. Ma mantiene, è bene non scordarlo, una sua specificità, soprattutto di carattere storico, su cui non è male tornare a riflettere. Ha qualche ragione, in questo senso, Roberta De Monticelli, nel libro cui (in nota) è stato fatto riferimento, a cercare in mentalità ancestrali e in radicate abitudini sociali e culturali, l’origine e la spiegazione del carattere persistente ed esteso del sistema corruttivo nel nostro Paese. Un Paese, fondato certamente anche su impulsi generosi e su caratteristiche non comuni di inventiva e creatività, che ha però visto prosperare, nel tempo, la pianta dei particolarisimi, del «familismo amorale» e del clientelismo. Elementi che sono rimasti, e per certi aspetti, si sono confermati e consolidati, come elementi-base del consenso politico anche nell’Italia approdata (nella sua storia più recente) ad un assetto politico democratico e repubblicano. Intendiamoci: esasperazione del tornaconto individuale e particolarismo non si identificano, immediatamente, di per sé con l’illegalità o con la corruzione. Ma costituiscono una tentazione, sotterranea e scivolosa, ad approdarvi come per una «naturale» inclinazione. E’il peso dell’antico sistema del patronage, di cui scrive Fabio Dei. «Così fan tutti», come talvolta si è portati frettolosamente a concludere. Il nostro Paese, dopo tutto, non è stato la culla ed ha prodotto la coltivazione sistematica del «trasformismo»? Ed uno dei più grandi statisti della sua storia non era anche considerato il «ministro della malavita»? Ed , in tempi più recenti, dopo aver vissuto lo choc di «Tangentopoli» e la speranza di rigenerazione (delusa) di «Mani pulite», non si trova, oggi, a fare i conti con una proliferazione del sistema corruttivo, forse, ancora più estesa? L’infezione, questo è vero, è diffusa e ramificata: in settori significativi degli apparati pubblici, nel mondo politico e nella medesima società genericamente intesa.

E’ pur vero che l’oggetto del discorso andrebbe forse più attentamente circoscritto e delimitato, riconducendolo ad un’analisi specifica e dettagliata per ambiti e specifici fenomeni di riferimento: distinguendo la «generica» gestione clientelare del consenso politico dalla più stringente commistione affari-politica e dalla, ancor più preoccupante, relazione conclamata fra ambienti di potere (politico ed affaristico) e settori della malavita organizzata e delle mafie. Certo, non è molto incoraggiante che, a vent’anni dal cosiddetto crollo della «prima Repubblica», dagli scandali e dalle inchieste giudiziarie che ne scandirono l’agonia, il quadro si presenti talora più scoraggiante che mai. Sono stati, d’altra parte, quelli immediatamente alle nostre spalle (lo sottolinea Mauro Sbordoni) anni in cui non sono mancati messaggi equivoci in tema di legalità, rapporti fra cittadino e stato (v. elusione ed evasione fiscale), rispetto delle regole. Viviamo in un contesto, per molti aspetti, contraddittorio e sconcertante: sconcertanti sono il degrado della vita pubblica e dell’immagine (oltreché, spesso, della sostanza) della politica e la speculare e conseguente virulenza dell’antipolitica; le inchieste giudiziarie mettono a nudo una ripetitiva proliferazione dell’ antica, e sempre nuova, dinamica concussione-corruzione; le mafie (combattute peraltro, con efficacia, da coraggiosi servitori della legalità e delle istituzioni) spostano sempre più a Nord il raggio della loro azione.

Sarebbe, comunque, fuorviante dare della situazione attuale una rappresentazione univoca.

Non mancano, rispetto a quanto sopra indicato (e a quanto recepito nel senso comune), elementi che vanno in direzione esattamente opposta. Il sistema malavitoso, se da una parte si è andato nutrendo di nuovi collegamenti e «relazioni internazionali» ed ha esteso il suo insediamento ben oltre le classiche «quattro regioni» dell’Italia meridionale, dall’altro ha subito sconfitte e duri colpi.

Indagini, arresti di boss e progressi dei metodi investigativi fanno da incontrovertibili riscontri alla validità di un impegno sul fronte della difesa della legalità che ha conseguito risultati significativi.

Ne danno evidenza simbolica (come nella nostra sezione non si manca di ricordare) le esperienze di giovani e cooperative nelle terre confiscate alla mafia. Ci sono associazioni (come «Libera») che di tali esperienze hanno fatto una bandiera. Ne ricorda esemplarmente la valenza e lo sottolinea Andrea Bigalli, facendo riferimento alla necessità di intraprendere un cammino di nuova consapevolezza.

Tale consapevolezza implica la messa a punto, pur nel riferimento alla centralità dell’impegno investigativo ed istituzionale nella lotta alla corruzione ed all’illegalità, di un impegno complessivo non riconducibile esclusivamente alla dimensione della «lotta tra guardie e ladri»[5]. Ha ragione Caselli: c’è un lavoro enorme di carattere educativo, culturale e sociale da impostare e da svolgere. Le istituzioni pubbliche, il sistema scolastico, le realtà dell’associazionismo (che, in molti casi, sono in campo da anni con esperienze di grande interesse, anche in ambito locale: v. in questo senso, Pasquale Iorio in «Società Civile») hanno un grande ruolo da svolgere.

L’invettiva di papa Wojtyla

Nell’ambito di loro pertinenza, una grande responsabilità compete anche alle comunità religiose e, in primis, in una realtà come quella italiana, alla Chiesa cattolica. La forza del messaggio morale e pastorale della Chiesa è di grande importanza (emblematico, in questo senso, il richiamo di Don Ciotti all’invettiva anti-mafiosa di papa Wojtyla in terra di Sicilia) nello smuovere dal loro torpore le coscienze individuali ed il comune sentire. Passi in avanti ne sono stati fatti: la rilevanza ed il carattere di vero e proprio «peccato sociale» attribuiti ad atti ed omissioni (come l’evasione fiscale), su cui raramente veniva calcata la mano, paiono indicare una nuova direzione di marcia. C’è, in merito, una sensibilità nuova in parti consistenti della comunità dei credenti. E’ augurabile che i segnali provenienti da esponenti e settori importanti dell’istituzione ecclesiastica siano indice di una sintonia nuova con tale sensibilità e con le istanze di pulizia morale della «base cattolica».

Società civile, mondo della formazione, comunità religiose e culturali: sono tanti gli ambiti in cui la partita sul tema vitale della cultura della legalità si va giocando. Ma c’è un ambito (attorno a cui il discorso fin qui affrontato sembra ruotare) a cui, in definitiva, finiscono per rimandare tutti gli interventi del volume (a partire da quello di Vannino Chiti sulla «nuova» questione morale). E’ quello del rapporto fra mondo politico e corruzione e della questione decisiva, che direttamente ne deriva, della centralità della «riforma» della politica medesima e della ricostruzione di un suo rinnovato rapporto con la dimensione etica. Qui è Rodi, davvero, e qui salta.

Come nel lavoro impietoso dell’analisi individuale, che deve alfine confrontarsi con la pesantezza e con il carattere decisivo del «rimosso», ci sono nodi di carattere storico che sembrano venire, tutti insieme, al pettine. Lunga ne sarebbe l’elencazione: dalla mentalità (e dalle consuetudini) di carattere «trasformistico» di parti importanti delle classi dirigenti nazionali, alla disinvoltura con cui da parte di tanti settori del ceto politico e della pubblica amministrazione si maneggiano materie delicate (come quella, ricordata da Vannucci, delle scelte in ambito urbanistico) al rapporto disinvolto con l’uso e la destinazione del denaro pubblico, ai conflitti di interesse (macroscopici quelli dei 20 anni che sono alle nostre spalle) che gravano irrisolti sulla dimensione pubblica.

Ripulire le stalle di Augia del malcostume pubblico è, peraltro, impresa complessa: anche quando ci si trova ad affrontarne gli aspetti più scopertamente patologici, come in occasione del drammatico e catartico momento di «Mani pulite» (in cui è stato scoperchiato un sistema, quello delle tangenti, evidentemente debordato fuori da confini tacitamente accettati) tutt’altro che univoche sono le risonanze che ne sono derivate nella società italiana. Che sono state condizionate dalla dicotomia fra i richiami del «giustizialismo» e le istanze del «garantismo». Che hanno, entrambi, a ben guardare, elementi di «verità interna». La storia (politica) degli ultimi venti anni, e aspetti non trascurabili dello stesso successo elettorale del «berlusconismo», non riconducibile semplicemente al (rilevante) peso delle campagne mediatiche e del controllo di larga parte dell’apparato comunicativo, con le lacerazioni di tale «coscienza divisa» hanno evidentemente qualcosa a che vedere.

C’è, d’altra parte, da rilevare che, mentre l’«autoriforma» della politica si presenta verosimilmente come illusione e chimera, siamo entrati, comunque, in un tempo nuovo che sembra indurre tutti (politica e società civile) al confronto obbligato con un nuovo principio di realtà.

 

 

 

Nel tempo della crisi

E’ un tempo duro. Il tempo della crisi. Che distrugge prospettive, detta logiche condizionanti e provoca disagio e sofferenza. Ma è anche un contesto nuovo, in cui una pagina si è politicamente voltata. Il capitolo inedito del governo dei «tecnici», che si è aperto con l’imprevedibile licenziamento del (riluttante e sconcertato) premier eletto, si sta connotando per radicale novità nell’approccio ai problemi e nella definizione dei provvedimenti tempestivamente adottati.

Qualunque sia la valutazione che ne possa essere data[6], è certo che è una storia inedita quella che si va scrivendo. Una storia, certo, gravata da forti tensioni sociali e dal peso di sacrifici sentiti, da molti, come intollerabili o definiti secondo logiche inique e unilaterali; ma è vero anche (andando per accenni sommari, per non rischiare il «fuori tema») che su provvedimenti come quelli relativi alle liberalizzazioni si vanno facendo, in pochi mesi, tentativi mai sperimentati in modo così deciso nei decenni precedenti. E’ la prima volta, per dirne una, che taluni appannaggi e vantaggi del ceto politico (la disprezzata «casta») vengono messi in discussione. E’ vero, d’altra parte, che la politica, apparentemente o realmente, messa in quarantena ha un’occasione, indotta singolarmente dal clima di emergenza, di ripensare se stessa e di rigenerarsi.

E’ un’occasione che verrà sprecata? E’ possibile: non sarebbe la prima volta che opportunità di carattere storico, per insipienza e irresponsabilità, vengono lasciate cadere.

Come sempre, quel che sarà è riconducibile alle scelte ed alle responsabilità umane.

Di sicuro (anche e soprattutto in ordine ai temi qui affrontati) la spinta al cambiamento esiste ed è, forse, più potente di quanto non sia dato cogliere. Lo si è potuto vedere, in maniera imprevedibile, in passaggi di forte valenza simbolica come quelli delle manifestazioni relative ai 150 anni dell’Unità d’Italia. Lungi dall’essere, per lo più, momenti solo commemorativi e celebrativi, gli incontri sul tema hanno finito per dar voce ad un forte bisogno di identificazione in una dimensione di solidarietà e concordia e ad istanze di pulizia e rinnovamento morale. Istanze che, inserendosi nella valorizzazione non retorica della memoria, esprimono il bisogno incomprimibile di ridare una possibilità al domani.

Un’evidente spinta al cambiamento, in un ambito specifico, ma solo apparentemente settoriale, si è potuta avvertire anche nel movimento, e nella raccolta di firme, per il referendum, per il cambiamento della legge elettorale nazionale. La dichiarazione di inammissibilità del quesito referendario non cancella la sostanza del problema (che viene riconsegnata alla responsabilità ed alle dinamiche politico-istituzionali delle aule parlamentari) ed il significato, non meramente ed esclusivamente «tecnico- istituzionale», che la spinta di quel movimento ha, comunque, saputo esprimere. Emblematico, d’altra parte, in senso generale, era stato, al di là del riferimento alle singole questioni (molto importanti: come quelle dell’acqua e del nucleare) che erano al centro della consultazione, già il passaggio referendario dello scorso giugno.

Sprazzi luminescenti, si dirà, in un contesto in cui molto c’è da indagare ancora per gettar luce sui recessi in cui si annidano i fenomeni inquinanti ed in cui molto c’è da fare per individuare le vie per il risanamento collettivo .

Ma la partenza davvero non è dal livello zero. Ci sono alti esempi a cui far riferimento. Come il giudice Caponnetto, cui rende omaggio Salvatore Calleri. O come coloro che alla difesa della moralità e della legalità hanno sacrificato anche la vita: come l’ «eroe borghese» Giorgio Ambrosoli o come i servitori dello stato Falcone e Borsellino. Come il dirigente politico del Pci Pio La Torre. Di cui ricordo personalmente, non appena atterrato in Sicilia per un Convegno ed una manifestazione (era il tempo dei missili di Comiso e dei movimenti per la pace), con emozione l’annuncio dell’uccisione.

Il ricordo di tutte le vittime e gli uccisi dalle mafie (cui «Libera» dedica esemplarmente spazio e dà rilievo ogni anno in primavera) non è confinabile nella, pur nobile, dimensione della celebrazione rievocativa.

Serve a render il senso di un cammino e a dar forza a chi non si arrende. E’ funzionale a conferire un ancoraggio ideale alle tante esperienze positive che nel campo dell’educazione alla legalità e della denuncia del sistema corruttivo vanno allargando la loro influenza ed acquistando una nuova consistenza.

Gli attori, i protagonisti ed i soggetti del rinnovamento vanno, d’altra, parte, fatti conoscere e dialogare fra loro. Il mondo (e, quindi, anche la nostra società) non ha coloriture solo in bianco e nero.

E’ caricaturale l’immagine di una società civile, tutta e linearmente buona, e di una sfera politica, tutta e uniformemente, declinata al negativo ed incline, quasi naturalmente, all’affarismo ed alla corruzione. Va detto, a costo di andare contro il più diffuso senso comune: ci sono, come è evidente in tante realtà, amministratori e «politici» (come oggi si dice, con un termine di per sé repulsivo) onesti, dediti al bene comune e capaci di misurarsi con la sfida con cui anche la loro azione obbligatoriamente ha da riferirsi: quello di un rinnovamento a cui non c’è alternativa. A meno che per alternativa non si intenda la stagnazione, il declino ed l’intimo snaturamentodel modo di essere del consorzio civile.

«Buona politica» ed esperienze democratiche della società civile devono costruire, in tale direzione, momenti di comunicazione e di dialogo. Darsi la mano per approntare strategie comuni.

Può essere conosciuto nel profondo, affrontato, e vinto, il «male oscuro».

Le parole attribuite a Goethe morente possono, nel nostro caso, essere assunte come auspicio di rinascita, libertà e vita (civile) nuova per una «società aperta» in cui davvero ci sia e si faccia «più luce».

NOTE

1) Nel libro di Roberta De Monticelli, La questione morale (Raffaello Cortina editore, Milano 2011), di cui in questa sezione monotematica si occupa Mary Malucchi, il fenomeno dell’illegalità derivante dalla patologica, e degenerativa, predilezione del «particulare» rispetto all’interesse pubblico e al bene comune (secondo la secolare consuetudine di non pochi settori della società italiana e di un certo costume «nazionale») è definito, non a caso, come consolidato e conosciutissimo Male nostrum.

2) Il libro, assai noto, di Giuseppe Berto cui viene fatto riferimento è, appunto, Il male oscuro, Rizzoli ed., Milano 1964.

3) V. in merito le penetranti riflessioni di E. Balducci nel testo dedicato al tema de L’Altro, Edizioni Cultura della Pace, S. Domenico di Fiesole, 1996.

4)V. in prop. la sezione monotematica ( a cura di Severino Saccardi) dedicata a La piovra globale, in «Testimonianze» n. 445.

5) La «lotta fra guardie è ladri» è, peraltro, uno degli aspetti evidentemente non trascurabili dell’impegno per l’affermazione dei principi della legalità. Per quel che riguarda questo specifico ambito, viene in mente un’espressione del presidente emerito della Repubblica , Oscar Luigi Scalfaro (ricordata recentemente in occasione della sua scomparsa da G. Zagrebelsky nell’articolo intitolato Quella virtù di dire no che ha salvato il Paese dalle forzature autoritarie, «La Repubblica», 30 Gennaio 2012), che suona così: « Tra il ladro e il carabiniere non si può essere equidistanti: se qualcuno vuol esserlo ha già deciso di stare con il ladro.».

6) Nell’ambito delle valutazioni politico-culturali sulla «svolta» in corso, ha fatto discutere, tra l’altro, la posizione, tutt’altro che scontata, di Alberto Asor Rosa, «storico» rappresentante intellettuale di una certa sinistra «alternativa», che (in un suo scritto su «il Manifesto» del 19 Gennaio 2012) fa deterministicamente riferimento all’ inevitabilità (per non dire, alla sostanziale positività) della «svolta» incarnata dal «governo dei tecnici».