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Simone Weil: l’universo come bevanda di immortalita’
di Luciana Floris

La visione della Resurrezione proposta da Simon Weil si fonda sull’incontro fra elementi del pensiero d’Oriente e d’Occidente (dalla Bhagavad Gītā al Vangelo) in una ricerca che intreccia cultura classica, mitologia ed elementi della fede cristiana, interrogandosi sulle radici e sul senso dell’esistenza. Al centro, i temi eterni della vita e della morte e della possibilità di una rinascita che è possibile, oggi, «laicamente» ricondurre al ripensamento dell’esistenza individuale nel contesto di buone pratiche di attenzione nei confronti di tutti gli esseri viventi.

Sulla prima pagina di quel diario

«RESURREZIONE» – c’era scritto a grandi lettere in stampatello, di colore rosso, sulla prima pagina dell’agenda di mio padre, trovata dopo la sua morte, avvenuta in seguito a una malattia subdola e sconosciuta che l’aveva debilitato nel giro di pochi mesi. Parola a cui ancorarsi, trovando la forza di affrontare la sofferenza, promessa di riscatto, annuncio di una vita futura? E in un’ottica laica, che valenza può avere questo termine, quello di una rigenerazione mente-corpo, di una rinascita sia fisica che spirituale?

Un valido aiuto a comprendere il mistero della Resurrezione ci viene da una delle pensatrici più significative del 900, Simone Weil. Questa figura singolare, professoressa di filosofia e operaia in fabbrica, militante politica e mistica, anche dopo la svolta religiosa si è sempre mantenuta sulla «soglia della Chiesa», fortemente critica rispetto a un’istituzione dogmatica piegata alla logica della potenza e dell’oppressione. La sua è una visione originale in cui i testi sacri d’Oriente e d’Occidente si incontrano, «la Bhagavad Gītā e il Vangelo si completano» e che fornisce molteplici elementi per una rilettura non solo religiosa ma anche laica del concetto in questione.

Sono tante le immagini di Resurrezione che si delineano fra le pagine dei Cahiers, vera e propria miniera di materiali che consentono di ripercorrere in modo trasversale il pensiero della filosofa francese. Emergono dalla mitologia e dalla letteratura, dalla tragedia greca e dalle fiabe di culture diverse, nonché dalle sacre scritture. Nelle grandi narrazioni del passato, sullo sfondo di una natura rigogliosa e potente, sono le figure mitiche che, innanzitutto, Weil interroga. «Il fondamento della mitologia è che l’universo è una metafora delle verità divine»#. Testo dai molteplici significati, stratificati attraverso il tempo, il libro della natura rimanda a verità profonde che il mythos, racconto immaginifico, cerca di svelare.

Un «mito costruito in vista della palingenesi» è innanzitutto quello orfico di Dioniso, che narra la Resurrezione del dio ucciso. Soprannominato Trigonos, è nato tre volte: dal ventre della madre Semele, dalla coscia di Zeus di cui è figlio illegittimo, dalle sue stesse membra dilaniate dai Titani, alle cui ire cerca di sfuggire «trasformandosi in una moltitudine di forme»# – leone, cavallo, capretto, serpente o toro. È questo l’elemento che mette in luce Weil: il potere metamorfico che simboleggia l’energia primigenia del cosmo, la fecondità del grembo oscuro della terra, capace di far scorrere la linfa vitale delle piante o portare i frutti a piena maturazione. Questa divinità arcaica della vegetazione rappresenta il perenne e selvaggio fluire, l’irruzione della vita che si rinnova ogni anno, in un eterno ciclo morte-Resurrezione. Ma Dioniso, dio dell’ispirazione, dell’ebbrezza, è anche Lysios, colui che scioglie l’individuo dai vincoli dell’identità personale per ricongiungerlo alla realtà smisurata dell’universo.

Un altro mito legato alla fecondità della terra, quello di Attis, il dio frigio che in preda alla follia amorosa si recide i genitali sotto un pino e muore per la mutilazione, rivela una sorta di vita latente: il suo corpo non si corrompe, grazie a Cibele, madre degli dei, e dal sangue versato nascono le viole mammole. La sua morte e Resurrezione raffigura dunque il ciclo vegetativo della natura. Gli Attideia, i culti celebrati nella Roma antica e nelle sue colonie durante l’equinozio di primavera, onoravano il dio rappresentato con spighe di grano e frutti, pigne e melagrane che simboleggiavano il «potere moltiplicatore del seme». «Per la festa di Attis, veniva tagliato un pino in un bosco, lo si portava al santuario di Cibele, lo si ornava di ghirlande di violette, e al suo tronco veniva attaccata una sua immagine. Questo accadeva il 22 marzo. Il 25 marzo Attis resuscitava»#.

Similitudini con la morte e la Resurrezione di Cristo

Nella tradizione biblica, Simone Weil scorge «la storia di un dio morto e resuscitato» nella vicenda di Giobbe, il saggio che conduceva una vita ricca e felice, ma su volere divino viene tentato dal diavolo, per provare la sua fede anche nella cattiva sorte. Colpito dalla sventura, vittima di un dolore inspiegabile, perderà tutto, ma rifiuterà sempre di maledire Dio, accettando con sottomissione le prove che gli vengono inflitte. Alla fine sarà ricompensato da Jahvè che gli renderà ciò che ha perso, enormemente moltiplicato: c’è dunque un redentore che riscatta il male subito.

Così come c’è un «Salvatore» nell’Elettra di Sofocle: l’Oreste che vendicherà la morte del padre ucciso da Clitennestra e dal suo amante per usurparne il trono. Anche lui minacciato, in quanto erede del potere, e salvato dalla sorella, cresce lontano dagli intrighi di palazzo. Quando torna a Micene, diffonde la falsa notizia della propria morte; mentre la madre gioisce, Elettra si dispera e lo piange: «la lamentazione seguita dal riconoscimento somiglia ai riti di dèi morti e resuscitati»#. Il suo ritorno in vita gli consentirà di compiere la vendetta che Apollo gli ha ordinato.

Anche nelle fiabe dei fratelli Grimm il mistero della rinascita è fortemente presente. Dalla più popolare Biancaneve, colpita da morte apparente a causa della mela avvelenata, fino al bambino maltrattato, ucciso e cucinato dalla matrigna nel meno noto Il ginepro, ritroviamo «il tema della morte e della Resurrezione di un essere perfettamente puro, “bianco come la neve, rosso come il sangue”»#. Infatti le ossa raccolte dalla sorella e seppellite sotto l’albero, nella terra dove riposa la madre, gli consentiranno di rinascere.

Le storie di animali mangiati che resuscitano a partire dalle loro ossa sono molto frequenti, nota Weil, nel folklore degli indiani d’America. Le «pratiche per la Resurrezione» prevedono che le ossa vengano poste nella terra, o gettate nell’acqua, spesso di un fiume. Da qui l’usanza degli allevatori di non spezzare lo scheletro degli animali o il rito dei cacciatori di «spargere in terra il sangue delle bestie uccise (ordine di Dio a Noè)» a seconda che, nelle diverse civiltà, il principio vitale sia considerato il midollo o il sangue. «Anche il sangue di Abele è colato in terra. Anche il sangue di Cristo». E nel libro dell’Esodo si ritrova la prescrizione: «Non spezzare neppure un osso dell’agnello pasquale». Dunque, «coloro che sotterrano preparano una Resurrezione futura»#.

Tutte queste immagini sono ricche di elementi primordiali – terra, acqua, fuoco (sangue) – che hanno il potere di ricostituire la vita. Una capacità rigenerante appartiene soprattutto all’acqua, vero e proprio «fattore di Resurrezione». Nei Vangeli che Simone legge e rilegge instancabilmente, dono divino è «l’acqua che vive», la «fonte d’acqua che sgorga nella vita eterna». Perciò riconosce questo elemento come presenza essenziale nei sacramenti – eppure anche dopo la conversione religiosa, rifiuterà sempre di farsi battezzare. «L’acqua che resuscita somiglia all’acqua del battesimo. In questa operazione c’è un’analogia con il grano che viene sotterrato»#. Questo rito permette simbolicamente una nuova venuta al mondo, più pura, non condizionata dall’unione dei corpi, dalla mescolanza del fluido maschile e femminile. «Per porre rimedio all’impurità di questa nascita, bisogna sparire e risorgere a partire da un’acqua pura»#.

Sono immagini che presentano, secondo Weil, una profonda similitudine con la morte e Resurrezione di Cristo, il quale è stato, anche lui, «per un momento privato di Dio». Queste narrazioni sembrano dirci che il male è «inevitabile, sperare di sfuggirvi è proibito. Per questo il Cristo non è disceso dalla croce e neppure si è ricordato, nel momento più doloroso, che sarebbe resuscitato»#. Occorre dunque accettare la perdita, assumerla su di sé, senza restituire il male, senza lasciarlo risuonare fuori dall’io. «La resurrezione è il perdono del Cristo a coloro che l’hanno ucciso, la testimonianza che facendogli tutto il male possibile non gli è stato fatto alcun male». Perché in fondo «il sentimento del male non è un male». Così come «il male è la radice del mistero, il dolore è la radice della conoscenza»#. Azzeramento del male, la Resurrezione apre una possibilità di riscatto, offre una redenzione possibile anche davanti alle fantasie apocalittiche del tempo, alla fine del mondo vissuta come imminente.

A partire dal problema del male

Ma la Resurrezione non è solo un «evento storico» di cui parlano le sacre scritture: non appartiene solo alla teologia cristiana, esito finale di una sequenza che, dal peccato originale ha portato alla cacciata dal Paradiso terrestre e alla passione necessaria a redimersi. Questi accadimenti possono verificarsi «in ogni istante» nelle nostre vite: non costituiscono solo delle verità celesti, ma riguardano la nostra esistenza concreta di esseri che abitano la terra. Anche noi dobbiamo di continuo lottare contro il male, il negativo, e imparare a rigenerarci, a rivivere.

Per capire come è possibile simile rinascita, bisogna partire dal problema del male: da quel peccato, quell’ingiustizia che pare segnare, come una macchia indelebile, l’inizio della vita. Non è solo la tradizione cristiana a dirlo; c’è la mitologia greca, ci sono le religioni misteriche a sostenerlo, quelle «intuizioni pre-cristiane» delle quali Simone è attenta indagatrice. Del resto, il primo frammento della filosofia che ci sia pervenuto, uno dei più indecifrabili, il celebre testo di Anassimandro, non parla che di questo: dell’ingiustizia di essersi separati dal grembo originario, l’ápeiron, l’infinito, quell’indeterminato matrice di tutte le opposizioni.

La vita è stata possibile solo mediante la separazione dell’Uno dal Tutto, dell’umano dalla Materia; solo tramite la perdita della fusionalità tra figlio e Madre, la «dissoluzione del legame creatura-creatore». Dobbiamo quindi riparare la colpa di esserci, separati e divisi, nient’altro che frammenti staccati dalla totalità; «l’ordine del tempo», la necessità cosmica del divenire, aiuterà a porre rimedio a questa ingiustizia. Per usare le parole di Weil, «il nostro peccato introduce una dissonanza nell’armonia perfetta»#: si tratta dunque di tornare a risuonare in sintonia con l’universo, di «ristabilire l’armonia».

Il dolore, la «passione» riparano la colpa della separazione, svolgono una «azione armonizzatrice», salvifica, imprimendo una tensione verso «l’unità trascendente»; ci ricordano che siamo solo una parte del tutto, esseri segnati dalla finitezza. Ciò che si è differenziato dovrà tornare a fondersi nell’unità del Tutto, è solo questione di tempo, quel tempo che «conduce dove non si vuole andare», verso una dimensione trascendente o nell’indifferenziato della Materia. In fondo, «ciò che gli uomini chiamano morte»#, non è altro che la fusione col tutto originario, la ricostituzione dell’armonia perduta.

I contrari saranno ricomposti: poiché l’essere rimanda al non essere, la creazione alla decreazione, così «la morte precede la Resurrezione». «La gioia di Pasqua non è quella che segue il dolore, la libertà dopo le catene, la sazietà dopo la fame, la riunione dopo la separazione. Essa è la gioia che si libra sul dolore e lo compie (…). Il dolore e la gioia sono in equilibrio perfetto»#. La felicità di rinascere nasce dunque dall’aver attraversato il dolore, superandolo sì, dialetticamente, ma al tempo stesso conservandolo al suo interno, mettendo in atto quella potenzialità conoscitiva di cui era portatore, il suo essere «radice di conoscenza» e di redenzione.

La sofferenza provocata dai legami e dalle «affezioni terrestri», porta a smascherare la realtà illusoria: caduta ogni fantasia di onnipotenza, si riapre la «ferita» di essere mortali; ma proprio questo patire, del corpo e dell’anima, dischiude una porta, consente di attraversare una soglia. «Bisogna morire – scrive Weil – sentire nelle cose esterne il freddo della morte»#. Ma subito dopo apre verso un’altra prospettiva, delinea la possibilità di un oltrepassamento. «Mediante il sapere ci si nutre di immortalità», trascrive dalle Upanishad. E aggiunge: «Resurrezione. Quando si è sentito il freddo della morte – a meno di affrettarsi a dimenticarlo, o di esserne agghiacciati – si passa al di là, e l’universo stesso diventa una bevanda di immortalità»#. Bisogna quindi cessare di essere individui separati, divisi, dimenticare il proprio ego, accettare la morte, per oltrepassarla e arrivare a sentirsi parte dell’universo, a sorbire la pozione che regala l’immortalità.

Il dissolversi dell’Uno nel Tutto implica l’accettazione del divenire, la capacità di «attraversare» la morte, di viverla come passaggio che può condurre verso un’altra dimensione. Perciò, occorre essere consapevoli dell’impermanenza dell’individuo, accogliere la possibilità del trapassare in altre forme; il pensiero non deve restare prigioniero dell’io, ma dilatarsi per accogliere la realtà, diventando fluido per partecipare del divenire: questo è già «nutrimento immortale». Weil insiste a più riprese sul ciclo sofferenza-conoscenza dell’illusione-dissoluzione-divenire. Chi accoglie il perenne fluire, «vince la morte» e di conseguenza «mangia l’immortale»#.

Una rinascita «laica», nel segno della natura

Se si può parlare di Resurrezione, in un’ottica laica, è dunque in un senso non certo individuale, ma in una dimensione sovrapersonale, di appartenenza alla terra, di rigenerazione dell’intero cosmo. La capacità di rinascere parla il linguaggio della natura, si affida ad essa, ai suoi elementi primordiali, alla sua forza vitale: cerca di carpire il segreto di quell’oscuro dinamismo interno che la porta, ciclicamente, a rivivere.

Ma cosa mette in moto il processo di rigenerazione spirituale? «Non è un’azione – spiega Weil – non è un concatenamento di movimenti, non è alcunché su cui la volontà faccia presa», ma piuttosto «una modificazione subita da chiunque la desidera»#. L’accento posto sulla passività, invece che sull’attività, riconduce al concetto di «azione non-agente», espressione ripresa dal taoismo per indicare l’agire che scaturisce non dal soggetto, ma dalla situazione oggettiva, dall’entrare in sintonia con le circostanze. La «non-azione» fa parte di quelle «buone pratiche» guidate non dalla volontà, ma dominate dalla necessità, da una forza cui si può solo rispondere con l’obbedienza. La rinascita spirituale ha dunque a che fare con una «influenza esterna», se è vero che «il più perfetto non può derivare dal meno perfetto». È qualcosa che si riceve, se la si desidera, se si rimane in uno stato di apertura e disponibilità ad accogliere. Qualcosa che non deriva dall’io ma viene dal fuori: ha la leggerezza della «grazia» che lo visita.

«Ma da dove potrà venire a noi la rinascita – si chiede Weil – a noi che abbiamo svuotato e imbrattato tutto il globo terrestre?»#. Noi che stiamo esaurendo le risorse del pianeta, noi che esercitiamo una pressione antropica enorme (l’ultimo rapporto del WWF sostiene che è raddoppiata rispetto agli anni 60), noi che avremmo bisogno della capacità bioproduttiva di una volta e mezza il pianeta – e nel 2030, se manteniamo l’attuale tendenza, ci serviranno due pianeti. Noi che lasciamo le nostre tracce dappertutto, convinti ancora di essere signori dell’universo, di poterlo dominare, e dunque sporcare e deturpare a nostro piacimento.

La risposta è sorprendente: «Solo dal passato, se l’amiamo»#. Attenta a questa dimensione del tempo e della memoria, Weil sostiene che fra tutti i bisogni, quello «più importante», ma anche «più misconosciuto», sia il «radicamento»#. Le nostre radici sono molteplici, affondano nel luogo e si diramano nel tempo, nella duplice direzione del passato e del futuro. Dimensioni che sarebbe fuorviante contrapporre: perché «il futuro non ci porta nulla, non ci dà nulla; siamo noi che, per costruirlo, dobbiamo dargli tutto, persino la nostra vita. Ma per dare, bisogna possedere, e noi non possediamo altra vita, altra linfa, che tesori ereditati dal passato e digeriti, assimilati, ricreati da noi stessi. Fra tutti i bisogni dell’anima umana, nessuno è più vitale del passato»#. Un passato che dunque non sia in contrasto col futuro ma lo comprenda in potenza, lo porti in sé come un germe. Ne consegue che «la perdita del passato, collettiva o individuale, è la grande tragedia umana»#. Appare perciò fondamentale l’esigenza di ricostruire la propria storia, di non perdere la memoria e riscoprire le proprie radici, non tanto biologiche quanto simboliche, magari ibride e proliferanti.

La rinascita potrà venire, allora, dalle buone pratiche di attenzione e cura nei confronti di se stessi e degli esseri viventi che abitano la terra, tese non più al consumo incondizionato, alla violenza e alla sopraffazione, ma improntate al rispetto e alla salvaguardia delle risorse. Ciò significa anche lottare contro l’azzeramento della memoria, contro lo schiacciamento del tempo sul presente, per non perdere il proprio radicamento e custodire le cose. In un’epoca segnata dalla globalizzazione, è una sfida.