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Se l’acqua e’ un bene finito, anche la vita lo e’?
di Giorgio Valentino Federici

E’ una domanda dalle implicazioni economiche, ma anche filosofiche e sociali, inquietanti, che si impone e che pone all’ordine del giorno la ricerca di vie percorribili e «sostenibili» verso un’«economia ecologica» su scala globale. Perché sarebbe irresponsabile continuare ad ignorare gli enormi danni di un sistema le cui contraddizioni (nell’età dell’interdipendenza) postulerebbero verosimilmente un «governo mondiale» del pianeta.

Come cresce il nostro “debito ecologico”

L’acqua è un bene comune nelle intenzioni di molti, ma è ancora lontano dall’esserlo in molte aree del pianeta e la situazione difficilmente migliorerà in senso complessivo, a causa della crescita demografica e dello sviluppo delle attività antropiche.

Sicuramente, invece, l’acqua è un bene finito. L’acqua è un bene fisicamente finito: la quantità rinnovabile (fresh water) resa disponibile al pianeta dal ciclo idrologico annuale (portata dei fiumi e ricarica delle falde) è stimata pari a circa 40.000 Km3 (miliardi di metri cubi). Di questi solo circa 9.000 Km3 sono teoricamente disponibili per le attività antropiche: si tratta dei deflussi sufficientemente stabili che possono soddisfare il fabbisogno umano, relativamente poco variabile durante l’anno. La distribuzione geografica di questi 9.000 Km3 indica che, nelle regioni abitate, la quantità di risorsa rinnovabile effettivamente utilizzabile senza il depauperamento delle risorse (cioè in modo sostenibile) è pari a circa 4.200 Km3 (2030 Water Resources Group, 2010). La restante disponibilità idrica (circa 4.800 Km3) è localizzata in aree disabitate e il suo sfruttamento richiederà spostamenti di popolazioni e di attività o trasferimenti della risorsa su grandi distanze.

L’acqua è un bene finito anche in termini di utilizzazione perché nei territori abitati si prelevano dai fiumi e dalle falde circa 4.500 Km3 (dati del 2010). Questo significa che in vaste aree del pianeta stiamo prelevando acqua non rinnovabile, ci stiamo cioè sviluppando in modo insostenibile. Questo sta accadendo da almeno un quarto di secolo (dagli anni 80 del secolo scorso) ed era stato ampiamente previsto già alla fine degli anni sessanta da studi dell’ONU (M. I. L’vovitch, 1974). Il prelievo insostenibile ha provocato catastrofi ambientali spaventose: la scomparsa del Mare d’Aral è emblematica, ma tutti i grandi laghi del pianeta soffrono di gravi problemi.

La non sostenibilità dello sviluppo è confermata dalle stime della nostra impronta ecologica (http://www.footprintnetwork.org/it/index.php/GFN/), della quale l’impronta idrica è ovviamente parte determinante. L‘Earth Overshoot Day (http://www.footprintnetwork.org/en/index.php/GFN/ page/earth_overshoot_day/), nel 2010, è stato stimato al 21 agosto. In quella data avevamo già consumato, mediamente, le risorse rinnovabili del pianeta: dal 22 agosto alla fine dell’anno abbiamo utilizzato risorse non rinnovabili. Nel 1987 l‘Earth Overshoot Day era il 19 dicembre, nel 1990 il 7 dicembre, nel 2000 l’1 novembre, nel 2005 il 26 ottobre. Il processo di sfruttamento delle risorse idriche non rinnovabili, insieme alle altre risorse del pianeta, è iniziato da alcuni decenni e sta accelerando. La popolazione mondiale del 1987 era di 5.039 milioni e il «credito ecologico» con il pianeta era di 12 giorni. Nel 2010 la popolazione era di 6.896 milioni e il nostro credito ecologico è stato di 132 giorni. Nel 2050 la stima media delle Nazioni Unite (dati 2011) prevede una popolazione di 9,3 miliardi: è da ipotizzare che, anche con significative politiche di controllo della fertilità, peraltro sempre meno popolari, il nostro debito ecologico crescerà fortemente e che la catastrofe ecologica sarà inevitabile in molti paesi (Sartori, 2011).

Antropocene

La società globale, in particolare nei paesi sviluppati, è strangolata da un doppio debito, che potrebbe portarla a una doppia bancarotta, economico/finanziaria ed ecologica.

Lo sviluppo dalla seconda metà del secolo scorso si è basato su questo doppio debito, che abbiamo contratto e che non potremo presumibilmente onorare. Il combinato disposto fra la società del consumismo e del credito facile con la disponibilità di risorse naturali a basso costo e ancora non sfruttate ha consentito la crescita economica impressionante della metà del secolo scorso. Secondo Bauman (Barman, 2009) il capitalismo è, in sostanza, un sistema parassitario. Può prosperare solo in nuovi terreni di pascolo non ancora sfruttati. I debiti finanziari che hanno contratto molti paesi e molte persone si stanno rivelando non restituibili. Erano stati fatti in periodi e con modelli di sviluppo ormai superati anche per l’esaurimento di molte risorse naturali a basso costo.

La nostra impronta ecologica, già ricordata, è una misura impressionate del nostro debito nei confronti del pianeta. Il Premio Nobel P. J. Crutzen, geologo, ha introdotto una nuova era geologica, l’Antropocene, che sarebbe la prima era geologica in cui una sola specie governa l’evoluzione e modifica in modo radicale il ciclo dell’acqua come quello del carbonio, la concentrazione dell’ozono come quella del piombo (Crutzen, 2005). Fino a oggi l’impatto delle attività antropiche sul pianeta sta mettendo a rischio interi ecosistemi e la vita stessa del genere umano. Per essere protagonisti positivi di questa nuova era geologica abbiamo bisogno di una nuova cultura, di un nuovo rapporto fra le scienze della natura e le scienze della cultura, per invertire un percorso che ci sta portando alla catastrofe.

Non era mai accaduto al genere umano

Per quantificare in termini essenziali la crisi dei sistemi idrici del pianeta consideriamo la Figura1, che illustra l’andamento dei prelievi e dei consumi a partire dal 1900. Inoltre, sono incluse le previsioni al 2050, espresse pro-capite, in modo, cioè, da tener conto dello sviluppo demografico.


Si evidenzia come, dagli anni 80, la dotazione idrica pro-capite dell’abitante «medio» del pianeta stia diminuendo, una tendenza che non sembra proprio possibile invertire. Questo non era mai accaduto nella storia del genere umano. Un quarto di secolo di trend negativo si è concretamente espresso in numerose catastrofi ambientali dovute sostanzialmente al sovrafruttamento della risorsa, un fatto peraltro confermato dalla già citata variazione dell’Earth Overshoot Day nell’ultimo quarto di secolo.

Fig. 1. Evoluzione dei prelievi e dei consumi totali e pro-capite (Federici, 2011)

L’obiettivo di garantire la Water security diventa perciò difficilmente perseguibile in molte aree del pianeta. Non avere un adeguato accesso all’acqua diventa una condizione essenziale per non poter garantire agli abitanti del pianeta quella che Ulrich Beck chiama The ultimate security, definita come una ragionevole (accettabile) probabilità (garanzia) di poter accedere allo sviluppo sostenibile per una persona e per i suoi discendenti (Beck, 2000, 2008). Questa condizione è evidentemente essenziale per poter sperare in un controllo dei conflitti fra stati e popoli del pianeta. Per Beck, inoltre, la produzione di ricchezza è ormai intimamente legata alla produzione di rischi, come dimostra l’esempio dell’energia nucleare. La società del rischio è una società globale: infatti, le diverse categorie del rischio sono spesso nuove e transnazionali, in particolare le catastrofi naturali, come il cambiamento climatico, e le loro conseguenze riguardano tutto il pianeta.

Colori dell’acqua

Acqua blu, acqua verde, acqua grigia. La distinzione fra acqua blu (blu water) e acqua verde (green water) distingue fra la porzione delle acque precipitate che si trasformano in risorsa (dunque i deflussi superficiali e sotterranei costituiscono l’acqua blu) e la porzione direttamente utilizzata dagli ecosistemi terrestri (l’agricoltura non irrigua, i pascoli, le foreste); quest’ultima (acqua verde) ritorna attraverso il processo di evapotraspirazione all’atmosfera.

L’acqua grigia (grey water) l’acqua che viene inquinata nel corso del processo produttivo e nei vari usi.

Il contenuto di acqua virtuale (virtual water) di un prodotto (di un bene o un servizio) è costituito dal volume d’acqua dolce consumata per produrlo, sommando tutte le fasi della catena di produzione. Può essere costituito da tre componenti: l’acqua virtuale verde, volume di acqua piovana evaporata durante il processo produttivo; l’acqua virtuale blu, volume d’acqua, di superficie o di falda, evaporata durante il processo produttivo; l’acqua virtuale grigia, volume d’acqua inquinata nel corso del processo produttivo.

Il confronto del contenuto d’acqua virtuale di alcuni prodotti agricoli in alcuni Paesi del mondo rivela differenze notevoli sia confrontando i diversi prodotti tra loro, sia prendendo in considerazione il luogo di produzione.

Le problematiche connesse al concetto di acqua virtuale, nell’ambito nel nesso fra acqua cibo ed energia, stanno assumendo una grande attualità.

La verifica empirica è evidenziata dall’interesse delle multinazionali della finanza, dell’alimentazione e dell’acqua unite a sostenere le ricerche sulle crisi idriche.

Il 2030 Water Resource Group già citato è costituito da McKinsey & Company e da World Bank Group (International Finance Corporation, IFC) in collaborazione con un consorzio fra Barilla Group, Coca-Cola Company, Nestlé, New Holland Agriculture, SABMiller, Standard Chartered Bank and Syngenta, International, Veolia Environnement.

Il recente rapporto Global Risk 2011 Report del World Economic Forum (WEF, 2011) è un punto di riferimento nell’analisi delle problematiche della sicurezza idrica, energetica e alimentare. Le ragioni di questo interesse sono evidenti: circa l’80% delle risorse idriche consumate nel mondo sono utilizzate per la produzione di cibo. La crisi delle risorse idriche incide, perciò, prima di tutto sulla produzione di alimenti.

L’interesse della ricerca si sta indirizzando sugli effetti che su queste crisi può avere la globalizzazione virtuale dell’acqua. I ricercatori, sulla base del concetto di acqua virtuale, hanno evidenziato la necessità di superare la dimensione della pianificazione, anche a livello dei grandi bacini idrografici, inserendola in un processo più ampio a scala globale. Si pone, cioè, un problema di Global Virtual Water Trade Network al fine di definire politiche per governare la globalizzazione virtuale dell’acqua. Gli effetti del processo di globalizzazione possono, infatti, essere diversi e non sempre positivi: il potere derivante dal «controllo dell’acqua virtuale» da parte di pochi grandi paesi sarebbe enorme perché connesso al controllo alimentare. Il punto centrale dell’acqua come bene comune non sembra quindi collegato soltanto ai servizi idrici a carattere civile o industriale quanto soprattutto alla produzione di cibo. Ciò suggerisce uno scenario in cui ai paesi poveri di risorse idriche convenga intensificare i rapporti e aumentare il numero di paesi da cui importare «acqua virtuale» attraverso il cibo.

Di parere diverso sono altri ricercatori, che segnalano la pericolosità di una globalizzazione virtuale dell’acqua ottenuta attraverso la quantità incorporata nelle risorse alimentari per i paesi «deboli» dal punto di vista idrico e sociale. In assenza d’importazione di prodotti alimentari, la crescita demografica è limitata dalla disponibilità di risorse locali, acqua compresa, oltre che da fattori culturali e sanitari. Il commercio mondiale di grandi quantità di cibo rende disponibili, nei paesi con meno risorse idriche endogene, risorse alimentari anche a basso costo, permettendo ad alcune popolazioni di superare i limiti posti dal loro bilancio idrico locale. Questo conduce a non utilizzare le risorse locali, rendendo i sistemi locali più fragili e sensibili alle crisi idriche e ai mutamenti climatici. Gli autori sottolineano che, sebbene si riconosca che nel breve termine la globalizzazione (virtuale) di acqua possa prevenire la malnutrizione, la fame e i conflitti, i suoi effetti a lungo termine andrebbero studiati con attenzione. L’effetto del commercio incontrollato di prodotti alimentari sulla resilienza delle società umane rispetto alla siccità e alle carestie potrebbe essere, nel lungo periodo, molto negativo.

Economia verde e «land grabbing»

Le risorse idriche ed energetiche sono direttamente collegate al problema più grave che gli abitanti del pianeta dovranno affrontare nei prossimi anni: la produzione alimentare.

La soluzione proposta da più parti per il problema posto dal Water-Energy-Food Nexus è quello della cosiddetta Green Economy. Si tratta di una economia «verde», basata su un modello di sviluppo più rispettoso dell’ambiente e che vede nel risparmio energetico, nell’uso delle energie rinnovabili, nell’uso sostenibile delle risorse del pianeta, l’unica via per evitare da un lato la catastrofe ecologica e, dall’altro, generare «lavoro verde», nuove professioni e mestieri.

A partire dal Presidente Obama, oggi tutti sembrano puntare sull’economia ecologica. In questa sede, come riferimenti, ci limitiamo a citare il lavoro dell’Wuppental Institut (Sachs et al, 2011) che propone numerose idee nuove e concrete per lo sviluppo sostenibile, in riferimento specifico alla società europea.

Tuttavia, malgrado tale strategia sia stata assunta, almeno nelle intenzioni, da molti paesi, nei fatti è in corso una competizione accesissima per l’accaparramento delle risorse idriche, energetiche e di suolo fertile, indispensabili alla produzione di cibo per una popolazione che si stima crescerà almeno fino al 2050. Il fenomeno del Land Grabbing, cioè l’«appropriazione di terreni», si sta sviluppando in modo molto veloce. Negli ultimi 10 anni, 227 milioni di ettari (7 volte l’Italia) hanno cambiato padrone (il 50% in Africa) (OXFAM, 2011). Questo ad opera non solo di paesi ricchi, che hanno esaurito e inquinato il pianeta, ma anche a causa delle economie emergenti, che lo stanno inquinando ed esaurendo con le stesse modalità. Da tempo Stati Uniti, Cina, Arabia Saudita, India stanno comprando estesissime aree fertili nel continente Africano, in Sud America, in Pakistan, ecc.: è un fenomeno che realizza quella tendenza alle migrazioni di produzioni e inevitabilmente di popolazioni, alla quale è stato fatto cenno in precedenza. A queste nazioni si aggiungono le multinazionali, in particolare dell’alimentazione, con investimenti diretti sempre più significativi nella aree ancora «vergini» del pianeta, o rilevando aree già coltivate in paesi in crisi economica, costretti a svendere spesso le loro risorse insieme ai diritti delle popolazioni residenti in quelle aree.

Non potrà essere assente, la politica

Se l’acqua è un bene finito e se l’acqua è vita, allora, la vita è un bene finito?

Questo si sta rivelando vero in aree e per frazioni sempre maggiori della popolazione del pianeta. Provoca e provocherà conflitti, interni e internazionali. E’ causa di migrazioni che, è da ritenere, si intensificheranno nei decenni futuri. Sono questi gli scenari già al 2030, catastrofici per grandi aree del pianeta molto popolate, che appaiono significativamente, e ormai sostanzialmente condivisi, da due mondi apparentemente contrapposti: quello ambientalista e quello delle multinazionali del cibo e dell’energia. Le soluzioni proposte dai due mondi sono a volte diverse, ma la gravità della crisi emergente rende sempre più evidente la debolezza di un approccio basato sul mercato privatistico delle risorse, che negli scorsi anni era presentato da alcuni come soluzione.

Che fare? Gli indirizzi su cui puntare per affrontare le crisi idriche sono abbastanza delineati.

Anzitutto quelli che vanno nella direzione di implementare soluzioni tecnologicamente avanzate e di svilupparne di nuove attraverso la ricerca. Le parole d’ordine sono quindi: desalinizzazione, trattamento, riuso, trasferimento di acqua fisica da regioni ricche di risorsa rinnovabile a regioni carenti, trasferimento di acqua virtuale, miglioramento delle tecniche d’irrigazione, risparmio su prelievi e consumi, sviluppo di fonti energetiche alternative, gestione integrata del sistema acqua-energia-alimenti e, infine, analisi degli impatti potenziali dei cambiamenti climatici sulle crisi idriche.

E la politica non potrà essere assente: dovrà ricercare migliori politiche di gestione delle risorse, risolvere i grandi conflitti interni agli stati e fra gli stessi, sostenere la ricerca di strumenti e di soluzioni innovative.

La sicurezza idrica, energetica e alimentare nella società del rischio globale richiederebbe un «governo mondiale» del pianeta. Un obiettivo indubbiamente molto ambizioso, a cui ci si potrà tuttavia avvicinare istituendo, almeno, degli organismi internazionali (vere e proprie Authorities) predisposti alla gestione delle scarse risorse comuni e alla composizione dei conflitti inevitabili nel complesso rapporto fra uomo e ambiente.

Bibliografia

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U. Beck, Conditio Humana – Il rischio nell’età globale, Laterza, Bari 2008

P. J. Crutzen, Benvenuti nell’Antropocene, Mondadori, Milano 2005

E. D’Angelis, A. Irace, Il valore per l’acqua, Dalai Editore, 2011

M. I. L’vovitch, World Water Resources and Their Future, traduzione a cura di R. L. Nace, American Geophysical Union, Washington DC 1974

OXFAM, Land and Power, OXFAM. http://www.oxfam.org/sites/www.oxfam.org/ files/bp151-land-power-rights-acquisitions-220911-en.pdf, 2011

G. Federici, Acqua ed energia: conflitti e sinergie, Accademia dei Lincei, 2011

W. Sachs, M. Morosini, Futuro sostenibile. Le risposte eco-sociali alla crisi dell’Europa, Edizioni Ambiente, Milano 2011

G. Sartori, Il paese degli struzzi, Edizioni Ambiente, Milano 2011

V. Shiva, Le guerre dell’acqua. Feltrinelli, Milano 2003

World Economic Forum, Global Risks 2011. Sixth Edition, An initiative of the Risk Response Network, The World Economic Forum 2011