di Cristina Simonelli
C’è una difficoltà della teologia ad affrontare il tema della sessualità e dell’identità di genere. Infatti, malgrado le aperture registrate ultimamente negli ambienti cattolici anche nell’ultimo documento del sinodo dei vescovi Instrumentum laboris, permane una grande ostilità nei confronti dell’«ideologia di genere», che sovvertirebbe l’ordine naturale. Il fenomeno, essenzialmente umano e relazionale, ha generato un ampio e complesso dibattito in ambito filosofico, che non si limita alla disamina della diversità femminile/maschile, ma affronta l’antico rapporto natura/cultura e la sistematizzazione della nuova, complessa, pluralità di generi.
Un fenomeno umano e relazionale
Quella della teologia è una posizione particolare rispetto al tema della sessualità e dell’identità di genere, e si corre il rischio, quando non voglia essere una teologia precettistica, che possa diventare un po’ fumosa, «concordista». Il tema, comunque, è stato interpretato anche nel pensiero teologico.
Inizierò con una poesia di Franco Marcoaldi: «Che dici? Se ti abbraccio forte forte, / ho qualche chance in più / di scampare alla morte?».
Non vorrei che questo incipit fosse inteso soltanto come una modalità per «sfuggire » nell’«ineffabile», in un messaggio poetico che potrebbe essere inteso come «evanescente » rispetto al diritto; è un modo per dire che una riflessione su sessualità e identità di genere è in primo luogo un fenomeno umano e relazionale. Provo allora ad articolare la questione in quattro punti, cercando di ipotizzare una sorta di moratoria rispetto ad alcune punte fortemente polemiche che si sono registrate ultimamente negli ambienti cattolici e che si possono trovare anche nell’Instrumentum laboris del sinodo straordinario dei vescovi, che si è appena svolto.
In alcuni punti chiave, chiave, cioè – anche fortemente innovativi, perché hanno raccolto una serie di input
dalla base che abitualmente non rientrano nel dibattito delle assisi sinodali – si dice «(…) purché stiamo lontani dall’ideologia di genere». Si è creata una sorta di anatema, in ambiente cattolico, rispetto alla teoria o ideologia di genere, che rappresenterebbe, in fondo, il sovvertimento della natura. Ecco perché occorre ricordare che parlare di sessualità e identità di genere significa parlare di un fenomeno umano e relazionale. «Se ti abbraccio forte forte, ho qualche chance in più di scampare alla morte?» è un modo per dire questo.
Parlo da un versante teologico e religioso in un contesto in cui tutti sarebbero d’accordo nel dire che il cibo (e, soprattutto, mangiare), oltre a nutrimento, molecole, energie, economia ecc, è un contesto simbolico,
profondamente umano, relazionale, e denso di significato culturale, storico, religioso. Provenendo dalla tradizione cristiana non posso non ricordare che proprio il pane spezzato è un contesto identitario centrale, e nessuno si sognerebbe – parlando di cibo – neanche nell’ambito teologico, di dire che sostenere che è simbolico e che può veicolare i più alti significati di un rapporto, voglia dire non tenere in conto che è fisico, biologico, economico ecc., dunque perché non dovrebbe essere così rispetto alle relazioni umane e alla sessualità? In fondo dobbiamo tenere in conto che c’è qualcosa che blocca la paura dell’ideologia di genere,
qualche cosa cioè che rischia di bloccare e di portare, o ad eliminare una dimensione culturale e relazionale e tornare a parlare di una natura rigida e fissa (il ché sarebbe una via di mezzo tra il biologismo, che non è la biologia, e la metafisica, che non è filosofia), o ad affermarla, forse. Questo è solo un esempio per dire come queste questioni interessino la biologia trasversalmente; non la interessano, cioè, soltanto dal punto di vista
della morale sessuale.
Provo a fare un percorso sintetico di questioni abbastanza note, per dire che nei decenni che ci precedono ci sono stati di versi modi di affrontare la questione. Mi riferisco soprattutto all’emergere di un soggetto, prima marginale, che è il soggetto femminile. La donna. Noterei anche che queste modalità, uguaglianza, differenza e sistema sex gender (quest’ultimo più in discussione, adesso), sono successive le une alle altre, ma il fatto che vengano una dopo l’altra non significa che ci sia semplicemente un passaggio dal modello dell’uguaglianza al sistema sex gender come se, abbandonato uno, si passasse all’altro. È una precedenza cronologica, ma dal punto di vista del loro porsi sono anche in qualche misura sincronici. Io personalmente
non mi sento vincolata a una scuola. Faccio un’ipotesi: l’idea dell’uguaglianza – che nasce a partire dalla richiesta del diritto di voto delle donne – è molto criticata, perché equivarrebbe a dire «ma uguali a chi?», o «perché dovrebbero essere uguali le donne agli uomini?», veterofemminismo e via dicendo. Però, se a uguaglianza sostituiamo pari opportunità o rifiuto della discriminazione, allora la questione è diversa, e io stessa non sarei disposta ad abbandonare questo piano che chiede di eliminare la discriminazione, ad esempio. La prospettiva della differenza, che nasce francese e soprattutto italiana (c’è a Verona la Comunità Filosofica di Diotima) reagisce al modello un po’ troppo standard dell’uguaglianza, proponendo l’idea che non è necessario mostrarsi su una forma di uguaglianza le une verso gli altri, ma che la differenza ha una precedenza, che si fa asimmetrica. La parola «differenza» piace molto in ambito ecclesiastico, soprattutto perché – secondo me – non è sempre chiaro l’orizzonte da cui proviene, che è un orizzonte attento all’ordine simbolico del mondo, in cui si dice «più donne che uomini», cioè sofisticato dal punto di vista filosofico.
Spesso si dice «differenza» e alcuni capiscono «natura». Ci sono state, a riguardo, anche alleanze storiche. Ad esempio, la lettera del 2006 sulla collaborazione degli uomini e le donne nella Chiesa utilizzava il vocabolario della «differenza », però era come se dietro questa parola si dovesse leggere «natura». Più recentemente, in ambito anglosassone, l’idea del sex gender system. Nel testo di antropologia culturale di Mila Busoni si dice: «(…) difficilmente a una studiosa non anglofona sarebbe venuto in mente di definire
un concetto così rilevante con un termine che lascia tanto spazio all’indeterminatezza e all’ambiguità (gender) e che ha, nella lingua corrente, una pluralità di significati e mostra come il termine italiano “genere” corrisponda almeno a tre termini anglosassoni: genus, gen e gender». Di fatto, se vediamo una parte della
produzione più divulgativa non specificamente di settore, si passa da un uso del termine «genere» come questione grammaticale («tavolo» è maschile, «tavola» è femminile). Il sex gender system invece vede, in una forma binaria, sex rappresentare ciò che in biologia è la base fisico-corporea, e gender essere quest’uomo » o «questa donna», che di fatto siamo, che è una modalità storica, culturale, diversificata.
Nei diversi periodi in cui questa modalità si è data, a un certo punto si è rovesciata la questione. La posizione, ad esempio, di Judith Butler (filosofa del gender, prima da fare e poi da disfare) parte dall’idea che non è poi così vero che prima c’è un dato biologico chiaro che viene esistenzializzato con vari schemi (che vengono dalla cultura, dalla famiglia ecc.), ma che, in fondo, il sistema di regole, il sistema culturale e sociale all’interno del quale siamo gettati soltanto per il fatto di esistere, già configura. Dunque, verrebbe
prima il sistema «di pressione» culturale e sociale rispetto al dato biologico. Ciò che a mio avviso va mantenuto, di questo sex gender system, è soprattutto la reciproca indipendenza. Aldilà della forma binaria
o dell’ambiguità che la parola «genere» in italiano ha, e aldilà di questa prospettiva rovesciabile, il dato trasversale a questa posizione è la necessità di tenere presente che c’è un’interdipendenza, cioè noi non possiamo pensare che esista un modo di porsi come identità maschile o femminile, o un modo di vivere le relazioni e la sessualità come un pacchetto fatto, per poi vedere come viene interpretato a livello simbolico, al livello del femminile ecc. C’è una reciproca interdipendenza in tutto questo.
Il peso di una doppia decostruzione
Un vantaggio rispetto alla filosofia della differenza sta, ad esempio, nel tenere presenti non soltanto la differenza sessuale (che è uno dei grandi elementi rimossi della nostra società) ma – e qui penso a uno
studio di Franca Bimbi – «tante» differenze. Le donne che fanno teologia – ad esempio di paesi che si potrebbero dire del Sud del mondo – chiamano la riflessione filosofica di molte filosofie europee «la filosofia della signora bianca», di colei, cioè, che non ha il problema del cibo o quello della violenza e ha a disposizione del tempo «da salotto». Il sex gender system, essendo più ampio, e considerando anche fattori politici, sociali ed economici, consente di tenere conto che c’è, certo, la differenza sessuale, ma che tra una
ricca signora di ambiente occidentale e una donna povera, ad esempio, ci sono differenze di cui va tenuto conto, e consente anche l’interazione con l’idea della maschilità. Qui devo citare uno studioso, Stefano Ciccone, che ha dato contributi importantissimi sul tema (si veda La parzialità maschile come risorsa politica). C’è un unico modello di virilità? Abbiamo parlato di femminile, ma il maschile non è altrettanto
costretto a un modello? Cos’è più virile, un soldato che combatte? Parlandone in contesti francescani la domanda che sorge è: era più virile San Francesco quando ha cercato di combattere per Assisi o di far denaro lavorando con suo padre oppure quando attraversa la strada e abbraccia il lebbroso? Era più virile Francesco
o Martino di Tours che spezza il proprio mantello? Questi studi sulla maschilità sono importantissimi, e certamente sono in dialogo anche con la «differenza», ma hanno maggiore spazio nella visione del sex gender system. Ciccone ci dice che c’è una grossa difficoltà per il maschile, prima di tutto le donne sono sempre state «l’altro», sono sempre state «l’altra parte di», sono sempre state il primato nella terra, l’affettività, la corporeità e hanno accettato, rifiutato, interpretato. Tutte cose che «sanno» di dover fare. Per gli uomini non si tratta soltanto di fare lo stesso lavoro che hanno fatto le donne (con qualche decennio di ritardo), ma del fatto che l’orizzonte simbolico, cioè l’insieme delle idee, di quello che la società si aspetta, si pretende come universale e neutro, e dunque devono decostruirlo più di quanto debbano fare le donne, perché nel momento in cui dicono «questo non mi rappresenta», devono prima distanziarsi e dire che questo preteso e neutro universale è in realtà una proiezione non di tutti gli uomini ma di un’idea di maschilità.
Devono quindi decostruirlo doppiamente. Sono molte le difficoltà evidenti, di cui la violenza sulle donne e il femminicidio sono esempi drammaticamente in crescita. Penso che le paure, anche ecclesiastiche, nell’affrontare questi temi o nel volerli riportare all’idea di una fissità metafisico-naturale, alla fine ha come risultato di toglierci le parole per pensare; togliere le categorie per pensare al problema di una relazione che non è mai stata scontata tra uomini e donne.
Rispetto a questo, e al sex gender system, c’è un’altra questione di cui tener conto: un’altra definizione – di Luisa Stagi – di identità sessuale, intesa come identità di genere (chi sono i soggetti in relazione alle
rappresentazioni socialmente definite e condivise del femminile e del maschile), il ruolo sociale (cioè le aspettative di comportamento, conforme all’identità di genere, desumibili dal sesso), l’orientamento sessuale e la sessualità agìta. Il discorso finora proposto è stato «largo», generico, ma è evidente che tutto questo complesso ha a che fare non soltanto con la costruzione di quello che riconosciamo al maschile e al femminile, ma anche con l’orientamento sessuale e con la sessualità di fatto vissuta. Da questo punto di vista
si capisce, forse, quel blocco che ha causato una sorta di caccia alle streghe (lo spauracchio dell’ideologia di genere), che corrisponde a delle prospettive molto in movimento, che nascono ma non si identificano con il movimento LGBT (Lesbico – Gay – Bisex – Transgender), a cui si tende ad aggiungere anche Queer ed Intersex. Ciccone mette in evidenza come la complessità di una sigla, che continuamente aggiunge specificazioni per contenere ogni possibile diversità, dica anche di una problematicità. Alcune posizioni del movimento tenderebbero a far coincidere queste quattro (o sei) specificazioni con un tipo di genere. Da una parte, quando si dice no all’ideologia di genere, qualcuno intende «questa» modalità di porre la questione; nello stesso tempo trovo che l’orientamento sessuale possa essere discusso anche senza frazionare ogni forma di orientamento in un genere diverso. È una questione che vede necessario, nel movimento Queer, aprire quella costrizione che precede il nostro modo di porsi, e fare sempre un po’ «l’inafferrabile » (io sono altrove). Ma, come anche il femminismo, esso è posto davanti a un’alternativa, che da una parte è richiesta di
riconoscimento di diritti e dall’altra è una forma di trasgressione. La prospettiva, sviluppata da Adriana Cavarero e da Judith Butler, vuole che il modo in cui vengono poste le questioni sia profondamente etico. In fondo, quando Judith Butler sostiene la prospettiva di genere, per rompere la rigidità della regola eterosessuale e del sex, e poi dice di disfare il genere, perché troppo rigido – partecipando della dialettica
negativa della Scuola di Francoforte – pone l’assunto del «pensare gender o non gender purché nessuno sia escluso». Concludo con una citazione dal libro Donne disarmanti, che dice così: «Patriarcato, razzismo, omofobia e tutte le forme di pregiudizio mantengono i nostri occhi addestrati a guardare in basso. Abbiamo
bisogno delle azioni delle donne per fare queste più larghe connessioni: per affermare che la compassione non è debolezza e la brutalità non è forza. Abbiamo bisogno che donne e uomini uniscano le loro voci alle nostre per ruggire, come una tigre madre, in difesa dell’interdipendenza di tutta la vita che è il vero terreno della pace».
· Il tema, qui in forma semi orale, legato alla conferenza, è trattato più ampiamente in Studio del Mese de’ «Il Regno/attualità», 1/2015. In corso di stampa anche un mio altro intervento Teologia, differenza e gender: un dibattito aperto («Studia Patavina», 62/2015).