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“Salus rei publicae” e strategie liberiste
di Nadia Urbinati

Il governo «tecnico», formatosi quando quello politico aveva dimostrato tutta la sua impotenza, pone alla democrazia questioni decisive. Esso è portatore quindi di un’ideologia (oggi, «gramscianamente», egemone: quella liberista) che ormai appare come unica e naturalmente proponibile. Dietro le sapienti ricette dei «tecnici» si cela in realtà una falsa neutralità che promuove politiche volte a tutelare l’interesse di pochi, bollando come partigiane eventuali opzioni alternative che si propongano di fare l’interesse dei molti. Resta il fatto che nessuno, all’interno degli schieramenti esistenti, sembra al momento in grado di raccogliere la sfida che, con grande incisività, è stata lanciata ad una politica povera di competenze e di credibilità.

La «Caporetto» della onorabilità politica
L’Italia, unico paese in Europa, ha visto il succedersi a un governo forte di una maggioranza eletta un governo cosiddetto tecnico. Casi di «governo tecnico» si erano già avuti in passato, ma quello presieduto da Mario Monti è il primo e l’unico che si compone di ministri che non appartengono a nessun partito. La maggioranza parlamentare di cui si avvale questo governo è fondata quindi su ragioni non di partito o di coalizione. Se tutti i ministri del governo Monti sono «tecnici» è perché la politica di questo governo si fonda su ragioni non partitiche, ma d’emergenza – ragioni che hanno direttamente a che fare con la salus rei publicae. Ovviamente, il governo ha una maggioranza parlamentare, oltretutto molto ampia perché include i due maggiori partiti rivali. Ma non si tratta della riedizione di una sorta di «compromesso storico» poiché appunto la sua missione non è quella di realizzare un progetto politico o promuovere una società più giusta o più rispondente ai principi della costituzione. Questa volta la larghissima maggioranza è solo ed esclusivamente nel nome dell’emergenza; nessun compromesso politico dunque, ma l’ingiunzione di abbandonare ogni logica di compromesso per adottare solo una logica «tecnica».
Come di fronte a straordinarie calamità – per esempio una guerra – la politica ordinaria (quella fatta di maggioranze e minoranze partigiane) si è ritirata e ha lasciato il campo alla competenza senza partigianeria. In questo breve intervento vorrei concentrarmi proprio sul dualismo tra politica e competenza, un’alternativa che il fatto indiscutibilmente positivo di essersi liberati del governo Berlusconi nasconde o non ci fa vedere nelle sue ampie implicazioni. Il novembre del 2011 ha segnato la «Caporetto» della onorabilità della politica. Non solo a causa degli scandali sessuali del premier, dell’uso del sesso come moneta per ottenere cariche pubbliche, delle diffusissime e quotidiane vicende di privilegi e corruzione, ma a causa dell’incapacità della politica di fare il suo lavoro: governare. La formazione del governo Monti ha coinciso con una dichiarazione di incapacità della politica parlamentare, la sua esplicita denuncia di non essere all’altezza del proprio compito. L’impotenza, non la disonestà, ha mandato a casa il governo Berlusconi.
Questa condanna, quest’accusa di incapacità è, come si intuisce, molto più grave dell’accusa di corruzione. Poiché, mentre la disonestà è l’esito di una violazione che non mette in discussione la politica ma alcuni suoi funzionari che la deturpano, l’impotenza, l’inadeguatezza, mette in luce un limite oggettivo, connaturato alla politica stessa. E’ proprio perché la politica democratica riposa sull’elezione dei suoi rappresentanti, è proprio perché questa elezione è espressione di diverse idee o diversi interessi che la politica è stata dichiarata incapace. Il dover andare di fronte agli elettori e quindi rischiare di perdere i consensi, ha reso il governo Berlusconi impotente. Come se la forza di un governo fosse in proporzione della sua non rispondenza agli elettori. Questo è il vulnus contenuto nella filosofia del governo tecnico. Difficile prevedere che cosa lascerà il governo Monti. Ma una cosa sembra chiara proprio in virtù di questa premessa: con l’avvento del governo dei «tecnici» la politica dei politici si trova di fonte a un compito che è enormemente impervio, quello di dimostrare di essere meglio di un governo senza politica partigiana; quello di dimostrare che un governo che deve rendere conto agli elettori è il migliore governo possibile.
Non solo questo. Vi è anche una ragione più radicale della crisi della competenza della politica a governare. Infatti la sfida del governo Monti consiste anche nell’indurre la politica dei partiti, quella cioè che si candida alle elezioni, a dover dimostrare anche di essere capace di governare usando criteri e con obiettivi che non sono propri della sfera della politica; mezzi e idee che appartengono alla sfera economica e che soprattutto si impongono con una lettura monolitica tanto della crisi quanto delle strategie di risposta alla crisi.

 «Tecnici» con una connotazione ideologica?
Il governo Monti non è governo tecnico: è un governo armato di idee e con una ideologia economica che presume meno stato e più competizione tra privati, meno diritti sociali universali (anzi nessuno, visto che anche la proposta di riforma sanitaria prevede la distribuzione del servizio salute in base non al bisogno di salute ma al bisogno economico), più incentivi al fare da sé. La filosofia dei tecnici è ispirata alla dottrina economica liberista. Non ci si faccia ingannare dall’inasprimento fiscale, poiché questo è appunto il segno della sconfitta dei governi politici, in quanto soluzione di emergenza a una situazione creata da governi partitici e troppo costosa. Chiamare «tecnico» questo tipo di governo è un eufemismo, poiché esso è molto politico, sia rispetto alla concezione che ha dello stato sociale (che è solo rete protettiva per i poveri) sia all’idea che ha del giusto ruolo dello Stato (giusto perché minimo). Se lo Stato è ancora presente, se è ancora dichiarato necessario, ciò è perché la società è ancora penalizzata da decenni di politiche sociali, di governi di partito. Il debito è causato dallo stato sociale non dalle speculazioni finanziarie sul debito. Questa è la premessa del governo tecnico chiamato a rispondere all’emergenza dell’oggi.
Di fronte a questa politica «tecnica» la politica dei partiti si trova ad arrancare. Prima di tutto perché nel corso di questi ultimi decenni si è gradualmente trasformata nella politica di un ceto oligarchico più preoccupato di riprodurre se stesso che di ben governare. Inoltre, e soprattutto, perché tanto a destra come a sinistra non c’è di fatto un’alternativa alla filosofia liberista. L’egemonia, come aveva ben compreso chi meglio ha studiato questo fenomeno di gestione del consenso, Antonio Gramsci, si mostra proprio nel momento in cui una visione del mondo e della società è così diffusa che la si crede naturale. Le leggi dell’economia sono oggi presentate e implementate come naturali, come oggettive e quindi imparziali; e soprattutto, vanno tutte nella stessa direzione, che è quella della competizione darwiniana. Se ciò non appare, se questo mondo ideale non si è ancora realizzato – dice questa ideologia – è per l’infiltrazione degli interessi partigiani, della politica quindi, che trova conveniente fare progetti e promesse elettorali per conquistare voti e maggioranze. Mentre, «tecnicamente» parlando, non due o tre sono i progetti, ma solo uno.

Una vecchia utopia positivistica

Se la politica seguisse davvero la tecnica imposta da questa dottrina economica tutte le discordanze sarebbero appianate, e non ci sarebbero più ragioni partigiane dietro le proposte di riforma. La filosofia della tecnica al governo ripropone la vecchia utopia positivistica (e, mi perdonino i liberisti) sovietica: eliminare la politica, il pluralismo delle idee e quindi il pluripartitismo, poiché una sola è la ricetta per la società.
La sfida della politica tecnica alla politica eletta e scelta da cittadini liberi e con diverse idee e interessi è una sfida alla democrazia in piena regola. Occorre dunque essere molto cauti a lanciarsi nella difesa del governo tecnico. Al di là delle valutazioni sulla capacità e l’onestà di Monti e della sua compagine di governo; al di là della rinascita di credibilità internazionale che questo governo ha dato al nostro paese, al di là di tutto il bene che ci è venuto dal non avere Berlusconi e il suo governo di nani e ballerine a Palazzo Chigi: al di là di queste contingenze tutte «italiane», resta il fatto molto preoccupante che si possa accreditare l’idea che spetti agli esperti dell’economia e della finanza governare la politica, che spetti a chi ha una classe di riferimento come indice dell’interesse economico di governare una società nella quale i molti non sono parte di quella classe. E’ preoccupante che politiche che fanno principalmente l’interesse dei pochi siano dette neutre e tecniche mentre quelle che si propongono di fare l’interesse dei molti (per esempio le politiche sociali o quel che ancora resta del liberalismo sociale del welfare) siano dette partigiane, non tecniche e quindi destituite di legittimità. Molto più preoccupante ancora è che nessuno senta ancora il coraggio o abbia gli strumenti concettuali e ideali capaci di rispondere a questa sfida, a mostrare tutta la natura ideologica della politica tecnica.