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Religione e spazio pubblico: frammenti di discorso
di Severino Saccardi

Per ragionare sul rapporto fra spazio pubblico e religione, nel nostro Paese, non si può non tener conto delle controverse dinamiche derivate dalla fine del “partito dei cattolici”. Ma il tema rimanda, soprattutto, ad un orizzonte più ampio, come quello delineato, a suo tempo, dal dibattito Habermas-Ratzinger. Ne scaturisce anche la conseguenza che il “pluriverso” culturale della nostra società impone alle diverse religioni il dialogo scambievole ed il comune confronto con le sfide del nostro tempo, nel riferimento condiviso alla dimensione della laicità.
Uno spazio pubblico per la religione. In modo perentorio, o in maniera aperta e problematica (come evidenziato dal titolo, in forma interrogativa, della nostra sezione monotematica), la questione torna a riproporsi insistentemente all’interno del dibattito politico-culturale. E ad essere sottoposta costantemente all’attenzione della pubblica opinione. Parlarne non è semplice. E non è semplice affrontare, con ponderatezza ed equilibrio, l’intreccio di nodi problematici che vi sono connessi. Forse, al punto in cui siamo, è arduo formulare molto più che dei “frammenti di discorso”.

Ed è, dunque, per successivi spunti che chi scrive intende proporre una riflessione “non organica”, intimamente tesa, tuttavia, ad agganciare un filo ed una trama di ragionamento unitari.

 

Un “novello Lenin” a “Famiglia cristiana”?

Conviene, forse, approssimarsi prudenzialmente al cuore del problema a partire da un episodio specifico, laterale e (anche se non privo di una certa rilevanza) “minore”. “Minore”, ma non privo di aspetti, comunque, emblematici. Il riferimento è alla polemica estiva che ha coinvolto il popolare settimanale cattolico “Famiglia cristiana”. La vicenda è nota. “Famiglia cristiana”, in un suo editoriale, ha mosso critiche radicali al governo di centrodestra sulla politica seguita in materia di sicurezza, immigrazione, nuove povertà.

Si possono, naturalmente, trovare non del tutto condivisibili le analisi proposte dal settimanale dei “paolini” o il linguaggio con cui esse sono formulate. Ma il problema non è stabilire, come ad un certo punto qualcuno, un po’ grottescamente, sembrava propenso a fare, se Don Sciortino (il direttore di “Famiglia cristiana”) sia una sorta di novello Lenin. E’ da notare, piuttosto, come le (contingenti) polemiche che ne sono seguite, ancor più che su questioni di merito si siano incentrate su aspetti, per così dire, di legittimità di una presa di posizione di natura squisitamente “politica”. Oltreché sulla rappresentatività “istituzionale” dell’organo di stampa che se ne è fatto portavoce. Al riguardo si è avuta, come si ricorderà, addirittura una precisazione ufficiale di fonte vaticana per ricordare che il punto di vista di pubblicazioni come “Famiglia cristiana” non impegna né la Santa Sede né la Conferenza episcopale italiana. Una messa a punto alquanto inusuale o, quanto meno, infrequente. A cui ha fatto eco – va ricordato per la cronaca – la singolare quanto perentoria raccomandazione di chi, dal centrodestra, ha sostenuto l’inopportunità di continuare ad esporre e far vendere un foglio “politicizzato” e “cattocomunista” presso chiese e parrocchie. Ma è sulla questione di fondo della proponibilità di analisi “di parte” in materia politico-sociale che si sono avute affermazioni rivelatrici (e sorprendenti). La stampa cattolica – si è detto – si occupi del suo specifico: cioè della spiritualità e dei temi della fede.

Una messa a punto sorprendente, in relazione non tanto allo specifico e (tutto sommato) poco rilevante dibattito qui richiamato, ma alla memoria ed alla verità storica delle cose. Come se la questione, cui si tende a rapportarsi con fare scandalizzato, si presentasse in termini di stupefacente novità. Mentre è del tutto evidente che il “mondo cattolico”, nelle sue variegate espressioni ed articolazioni (che è una forzatura ricondurre nell’alveo delle posizioni ufficiali espresse dalla gerarchia), ha sempre dato vita ad una complessa interazione fra dimensione spirituale e religiosa e sfera politico-sociale. Di questo, anche, si sono sostanziati aspetti importanti della pluridecennale storia della nostra “prima repubblica”. Ma, è risaputo, la memoria storica latita.

Restando ancora per un attimo, per comodità di discorso, sul tema “Famiglia cristiana”, ci sarebbe da ricordare non tanto e non solo che numerose sono state le occasioni in cui il settimanale “cattocomunista” ha criticato il centrosinistra o il Partito Democratico. Di cui, dopo la dura presa di posizione contro il governo Berlusconi, si è stigmatizzato, né più né meno, lo “stato confusionale”.

C’è, se mai, e soprattutto, da ricordarsi del tempo in cui (ormai in un’altra epoca storica, certamente: prima del crollo del Muro e prima di Tangentopoli) era nell’ordine delle cose che la stampa cattolica si occupasse, anche, di “politica”. E che lo facesse sostenendo (non sempre con le dovute mediazioni e capacità di distinzione dei piani) il “partito dei cattolici”. Cioè, la Democrazia cristiana. C’era chi lo faceva in maniera sistematica ed ostentata e chi con moderazione e garbo. Come, almeno per un non breve periodo, se la memoria non ci inganna, è stato, in quegli anni, proprio per “Famiglia cristiana”. Non si tratta di darne un giudizio di valore, né, tantomeno, di formulare in merito una valutazione retrospettivamente critica. Erano, anche quelli, tempi difficili e complessi, che non è produttivo valutare sbrigativamente con il senno di poi. Tempi di contrapposizioni politiche ed ideologiche e di difficile e graduale strutturazione della nostra vita democratica.

Tempi, oltre i quali, ed oltre la consolidata prassi ed il conclamato principio dell’ “unità dei cattolici” (che ha sempre conosciuto vistose eccezioni ed ha convissuto con una persistente diaspora di non pochi credenti verso una pluralità di lidi politico-culturali), dovrebbe essere finalmente e sostanzialmente pacifica la coesistenza di opzioni per schieramenti e partiti diversi (e contrapposti) per gli appartenenti alla medesima comunità di fede.

C’è, in ogni caso, un dato storico su cui capita troppo spesso di sorvolare. E che si tende non raramente a rimuovere proprio quando viene affrontato un tema come quello che qui viene proposto. Un dato storico elementare e corposo, cui, invece, è buona regola, ogni tanto, rimandare. Ripartiamo, dunque, con il ragionamento, proprio da lì.
Quando c’era la DC
C’era una volta la DC. Il “partito dei cattolici”. Che oggi, per le ragioni storiche che sappiamo, non c’è più. Almeno in Italia, parlare di “spazio pubblico e religione” non si può se non partendo da tale constatazione. E dalla connessa problematicità dell’“elaborazione del lutto” per la scomparsa di un soggetto politico di tale rilevanza che una parte, moderata o ufficiale, del “mondo cattolico” ha faticato a portare a compimento. L’inabissamento e la deflagrazione della storica “balena bianca” ha comportato un duplice, opposto e complementare, dissestamento di equilibri, che tardano a ritrovare una loro ricomposizione. Su un versante, è venuto a mancare uno degli elementi portanti e, pragmaticamente, “garanti” dell’ormai acquisito carattere di laicità dello stato e della società italiana. Non sembri un paradosso. E’ risaputo: non sono rari, oggi, i commentatori non cattolici e, addirittura, gli ex avversari della DC che ne ricordano, quasi nostalgicamente, la linea sostanzialmente moderata ed equilibrata in occasione di storiche battaglie politiche come quelle sul divorzio e sulla Legge 194. O che sottolineano l’imprinting non clericale che per il partito cattolico era stato voluto da storici dirigenti come De Gasperi, la cui opposizione alle pressioni vaticane, tese talora all’alleanza con la destra in funzione anti-PCI, è significativamente consegnata alla storia. Il “partito cattolico” ha funzionato – secondo questa ricostruzione – da intercapedine e da cuscinetto nel rapporto e nelle altalenanti dinamiche fra la Chiesa cattolica, il mondo politico e la società civile. Ed ha rappresentato, se non altro per realismo, un elemento di freno e di moderazione rispetto alla ciclica riemersione di istanze integralistiche e alle più intransigenti posizioni della gerarchia ecclesiastica.

D’altra parte, però, come è ben evidente, esso era sentito e vissuto dall’istituzione cattolica e dalla Chiesa “ufficiale” come una garanzia, una tutela ed una forma, sia pur mediata e non meccanica, di rappresentanza delle proprie posizioni rispetto al mondo ed alla cultura “secolare”.

Nell’ormai non breve (tre lustri abbondanti) periodo, post-era democristiana e post-Prima Repubblica, che ne è seguito, sono note le, inquiete e incerte, dinamiche che ne sono scaturite. Connotate, su opposti versanti, da un crescente e diretto interventismo della Chiesa istituzionale nel dibattito pubblico e nello spazio “politico” soprattutto in relazione ai cosiddetti temi “etici” e dal conseguente disorientamento delle forze politiche e di quei comparti dell’intellettualità che più tradizionalmente hanno a riferimento ed erigono a questione di principio la difesa della laicità.

Ne deriva una sorta di Babele dei linguaggi e di reciproche ed intrecciate incomprensioni.

Non mancano settori del mondo cattolico che, pur rendendo omaggio al principio ed alla metodologia della laicità, sono vicine all’ipersensibilità della gerarchia ecclesiastica, che paventa una marginalizzazione delle istanze e dei principi cristiani in una società “postsecolare” (1) che appare ormai come desolata ed estranea “terra di missione”.

D’altra parte, non pochi “politici” (come vengono ormai chiamati, con una chiusa caratterizzazione di tipo quasi “castale”, coloro che hanno incarichi istituzionali o di partito), credenti o non credenti, di centrodestra o di centrosinistra, temono come la peste l’accusa di “laicismo” o, peggio ancora, di larvato ed anacronistico “anticlericalismo”. L’omaggio formale all’autorità morale della Chiesa e, talora, alle forme stesse della religiosità devozionale (con lo spettacolo incongruo di esponenti politici, da sempre legittimamente lontani da un discorso di fede, che partecipano a cerimonie o assistono a celebrazioni di culto) è ritenuto ormai ineliminabile. Con quale vantaggio per la limpidezza di un discorso di fede e per una rigorosa riconferma dei principi di laicità è difficile dire. Il quadro è complicato, d’altra parte, diciamolo a mo’ di inciso, dalle dirompenti posizioni di “teocon” e “atei devoti”. Che danno dei “valori” e della “tradizione” cristiana una lettura prevalentemente culturale ed identitaria. Da far valere in una società minacciata nei suoi stessi fondamenti dall’irrompere dell’orizzonte della multiculturalità e del temuto “conflitto di civiltà” che, in tale ottica, ne sarebbe logica ed ineluttabile derivazione.

Si tratta di una prospettiva che, al di là della realtà nostrana, trova verosimilmente echi più ampi ed autorevoli di quanto non appaia. Si pensi, in questa ottica, all’accoglienza recentemente riservata a Benedetto XVI, in una terra che è patria per definizione della più rigorosa laicità e delle “chiese vuote”, dal presidente francese Sarkozy (2). E alla singolare convergenza culturale di posizioni e di sensibilità che sembra esserne derivata.
“Neoguelfi” contro “neoghibellini”?
Siamo, comunque, ad uno snodo in cui la polarizzazione di posizioni e di sensibilità, paradossalmente complicata dal venir meno di un “partito cattolico”, la cui rinascita è ormai ritenuta impensabile e anacronistica a destra come a sinistra (3), espone la nostra società ad un rischio di lacerazione e di conflitto permanente. Fra “neoguelfi” e “neoghibellini”. O, se vogliamo, fra un neo-clericalismo ed un neo-anticlericalismo d’assalto e di ritorno. Alla crescente suscettibilità (o all’invadenza, secondo un’altra interpretazione) “cattolica” fanno crescente riscontro i toni allarmati e le taglienti prese di posizione dell’intellettualità e della pubblica opinione che ritengono minacciate, in una deriva pericolosa, la stessa “identità laica” dello stato e della società. La prospettiva dell’incomunicabilità, l’innalzamento dei toni e la rappresentazione in bianco e nero delle posizioni proprie ed altrui, rischiano di oscurare la possibilità di un positivo incanalamento di una discussione, certo controversa e connotata da elementi di notevole complessità. In un’ottica, come sempre, “plurale”, anche nella sezione monotematica della Rivista, abbiamo ritenuto opportuno dare spazio a punti di vista diversi ed a ricostruzioni radicalmente divergenti dell’attuale relazione fra Chiesa e società e fra dimensione religiosa e laicità. Si vedano, in merito, gli interventi di Carlo Bernardini (uno degli intellettuali che hanno criticato la visita di Benedetto XVI all’Università “La Sapienza”, di Roma) e, sull’altro versante, di Pietro De Marco. Che è stato, in un’altra stagione, redattore di questa rivista e che ha operato, oggi, rispetto alle precedenti posizioni, un profondo ripensamento (4). In questo stesso nostro fascicolo, evidenziano un tentativo di uscire dalla contrapposizione, posizioni come quelle espresse da Giuseppe Vettori che, nel “classico” riferimento ad uno spirito repubblicano che può essere fatto risalire fino a Machiavelli e nel suo congiungimento con le esperienze, pur ormai trascorse, del “cattolicesimo democratico” del Novecento, cerca di tener ferma la barra e di ritrovare il baricentro per un equilibrato rapporto, nella distinzione dei piani, fra dimensione di fede e laicità dell’azione e dell’intervento nello spazio pubblico.

E’ appena il caso di ricordare, a partire da una specifica esperienza, che è all’interno dell’appassionante “laboratorio” fiorentino che è nata, 50 anni fa, e si è forgiata, “Testimonianze”. Un’esperienza al cui interno la laicità è sempre stata e rimane valore, metodologia e riferimento fondamentale. Tanto da portare la Rivista, lungo le fasi di un percorso rettilineo, pur se non privo di imprescindibili momenti di rinnovamento e di discontinuità, a coniugare il saldo riferimento alla propria matrice cristiana con l’allargamento e l’individuazione di uno spazio che è, da tempo, dimensione comune e vissuto condiviso di credenti e non credenti.

“Laicità” (senza aggettivi; pleonastiche, o non innocue, suonano definizioni come quella di “sana laicità”) è, certo e verosimilmente, cosa diversa da “laicismo”. E qui lo spazio, gli orizzonti, ed anche i possibili fraintendimenti, del discorso si ampliano ancora.
Etica “laica” e religione: un confronto nuovo?
Sarebbe, d’altra parte, riduttivo e fuorviante contenere nei limiti, politico-culturali oltreché geografici, del recinto domestico del “caso Italia” (che pure ha la sua rilevanza oltre ad un’evidente specificità) i termini di un confronto di portata ampia e di grande significato. Un confronto che non si nutre solo di diffidenza e contrapposizione. L’etica “secolare” (sbrigativamente e impropriamente definita come “laica”), figlia dell’umanesimo di derivazione illuministica, e il pensiero religioso si scrutano, si interrogano reciprocamente sulle rispettive caratteristiche di fondo e prendono atto della progressiva diluizione e dello sfrangiamento dei confini e dei contorni degli ambiti di appartenenza.

Entrambi – pensiero “laico” ed ispirazione religiosa – registrano la novità epocale delle sfide che provengono dalla “mondializzazione”, dalla modernità avanzata, dal vacillare di tradizionali paradigmi e riferimenti di carattere antropologico e culturale e dal nuovo potere della tecnologia e della scienza. Il quale, in un rinnovato, esaltante ed inquietante slancio prometeico, giunge a ridefinire l’antico statuto “naturale” e le modalità, finora intangibili, della dimensione biologica del nascere, del soffrire, del morire.

Ne derivano non solo risposte differenziate e reciproche, nuove, diffidenze e differenze, ma, anche, momenti di nuova interlocuzione di fronte ad un mondo che apre nuove frontiere, ma che fa anche, tutti, sentire spaesati ed insicuri. Un’interlocuzione che ha avuto un momento di elevato profilo (come viene ricordato in altri spunti di questa sezione monotematica) nell’interessante, notissimo, e discusso confronto fra Joseph Ratzinger (prima della sua elezione al soglio pontificio) e Jurgen Habermas (5).

Un confronto in cui si dialoga con toni rispettosi ed attenti ed al cui interno si pongono temi nuovi. La questione di fondo, che è sottesa all’intera trama del dialogo e su cui si creano momenti di singolare convergenza può essere individuata nel sostanziale e reciproco riconoscimento che se “(….) la religione che si sottrae al pluralismo e alla tolleranza rischia di sviluppare un potenziale distruttivo”, d’altra parte “la ragione secolare che si sottrae all’ascolto delle ragioni religiose, rischia di privarsi non solo di un potenziale di senso, ma anche di quell’apparato di concetti che la teologia ha dispiegato per pensare e dire l’essere e di cui la filosofia si è ampiamente servita nel corso della sua storia” (6).

Le aperture del filosofo Habermas, come si ricorderà, sono, in questo senso, notevoli. La ragione secolare ha avuto il merito di porre su basi autonome rispetto alla tradizionale tutela religiosa ed ecclesiale la vita associata nel mondo contemporaneo ed ha fondato uno spirito ed un’etica pubblica di carattere liberale e repubblicano. Ma, oggi, essa appare come depotenziata, svuotata di senso e povera di motivazioni e si trova davanti al problema di nuovi “fondamenti” per il vivere civile.

In questo contesto, il dialogo con la sfera, con il linguaggio e con la dimensione etica e simbolica della religione può essere di grande utilità e fecondità. E’, dopotutto,” (…) nello stesso interesse dello Stato costituzionale intrattenere rapporti di riguardo con tutte quelle risorse culturali di cui si nutrono la coscienza normativa e la solidarietà dei cittadini” (7). Tale aspettativa normativa “con cui lo Stato liberale si confronta con la comunità religiosa coincide con gli stessi interessi di quest’ultima, nella misura in cui per essa si apre così la possibilità di esercitare un suo proprio influsso sulla società nel suo insieme, accanto alla sfera pubblica politica”(8).

E’ un’impostazione, questa di Habermas, non poco innovativa nel modo di porre il rapporto fra comunità (in particolare, la comunità religiosa) e sfera pubblica, che pare ridefinire i termini consolidati in cui si è storicamente definita la dimensione della laicità e che, proprio fra i sostenitori delle ragioni della “ragione secolare”, sarà inevitabilmente destinata ad aprire discussioni e a suscitare perplessità.

Di grande interesse è, d’altra parte, il modo in cui, ad Habermas, in questo insolito, e ormai lontano, dialogo, si risponde dall’altro versante. Quello da cui parla il teologo Ratzinger. Che, sottolinea l’inquietudine comune alla sensibilità secolare ed al pensiero religioso per lo“(…) sviluppo delle possibilità dell’uomo, del potere di fare e di distruggere..”, per cui “(…) diventa di massima urgenza il problema del modo in cui le culture che vengono a contatto possano trovare fondamenti etici in grado di favorire la loro coesistenza ed edificare una forma comune di responsabilità giuridica…”(9).

Un dialogo sui termini ed attorno ai temi di “diritto”, “natura” e “ragione” che riguarda e coinvolge i due interlocutori sopra ricordati: “il cristianesimo”, da una parte, la “tradizione occidentale della ragione” (10) dall’altra. Ma è lo stesso Ratzinger a mostrarsi avvertito del fatto che anche se essi si considerano universali e “de iure possono anche esserlo” devono de facto “per necessità riconoscere d’essere accettati solo in parti di umanità e di essere comprensibili soltanto in parti di essa”(11).

E’ un’ammissione importante, cui, forse, bisognerebbe più spesso tornare.

Se non si tiene adeguatamente in considerazione la connotazione multireligiosa e l’interculturalità della società attuale l’“ethos del mondo rimane un’astrazione”(12).

Il discorso, a partire da qui, si complica, e si arricchisce, non poco.

 

Una società “plurale”

Cosa significa infatti essere conseguenti con le implicazioni dell’impianto del ragionamento, e con l’orizzonte, che la riflessione a due e l’interlocuzione Habermas-Ratzinger ha, a suo tempo, delineato?

Significa, certo, riconoscere che la dimensione religiosa può concorrere nello spazio pubblico a definire un orientamento etico ed un’impostazione giuridica condivisa. Ma tale concorso può e deve avvenire non solo nel rispetto del carattere della laicità dello Stato e dei limiti e delle prerogative e dei limiti che ne derivano. Deve tenere conto anche, ecco la novità epocale con cui confrontarsi, con il carattere “plurale” delle comunità, delle sensibilità e delle appartenenze confessionali che fanno della città e della società attuale un “mosaico” di presenze e di culture.

Una situazione nuova e complessa che, accanto alle aperture dialogiche, farà probabilmente emergere una nuova spinta identitaria. Nella Chiesa cattolica, come ha suggerito, con il linguaggio suggestivo e comunicativo che gli è proprio, uno sperimentato sociologo come Giuseppe De Rita, insieme alla dimensione del “santo” (cioè “…l’opzione che si misura con il sociale e con la storia…”) tornerà ad emergere il “sacro”. Cioè “….la misteriosa percezione e adorazione della divinità…” evocata, probabilmente, in “grandi ed anche mediatici richiami alla sacralità”(13). I quali sarebbero caratterizzati da una più forte sottolineatura dello “specifico” cristiano e del senso d’appartenenza alla cattolicità in risposta alle sfide congiunte della (pur vacillante) “ragione secolare” e della modernità tecnologica, delle spinte omologanti della “società globale” e della società multiculturale.

Viviamo, certamente, tutti, in un passaggio e in una crisi epocale e di difficile lettura che sembrano postulare una “autentica rivoluzione morale” e, in una temperie di tale natura, è importante che la “Chiesa faccia la sua parte”. Ma, questo è il punto, è augurabile che a tale compito vi si accinga “senza evocare divisioni e steccati” (14).

Come che sia, proprio a partire dalle citate riflessioni di Ratzinger, sul tema “Spazio pubblico e Religione”, d’obbligo è ormai usare il plurale. Non c’è un solo soggetto, sul versante religioso, in campo. Sono incontrovertibili le “radici cristiane” della nostra secolarizzata società. E la “questione cattolica”, in termini mutati rispetto al passato, in paesi come il nostro, rimane comunque sul tappeto. Sono, comunque, le “religioni” tutte – quelle tradizionalmente presenti, oltre la preponderante presenza cattolica, come minoranze “storiche”, come, ad es., nel nostro Paese, gli ebrei e i valdesi, e le comunità di nuovo insediamento, come quelle islamiche e buddiste – a doversi sperimentare, oltreché nel dialogo interconfessionale, nella positiva interazione con l’insieme della società e con lo Stato laico.

Che a questa nostra sezione monotematica abbiano contribuito anche esponenti della cultura ebraica come Bruno Di Porto e il pastore battista Raffaele Volpe (amici e collaboratori ormai storici, peraltro, di “Testimonianze”) è da considerare un elemento distintivo e un importante valore aggiunto.

Chi scrive, sul tema “interculturalità” ha ben presente il “caso Toscana” dove, accanto ai due storici e vitali filoni ideali del cattolicesimo democratico e popolare e di un consolidato spirito “secolare”, che tra loro hanno spesso interagito, si insediano nuove comunità culturali e religiose. A Firenze c’è, ormai, una consistente comunità islamica. E, nel senese, a Colle Val d’Elsa si discute da tempo attorno alla questione della costruzione di una moschea. E’ un dato di fatto, ed un elemento di evidente importanza, che gli imam di Firenze e di Colle Val d’Elsa, Elzir Izzedin e Feras Jabareen, parlino il linguaggio del dialogo, della tolleranza e anche (in una curiosa, e forse casuale, assonanza con le espressioni di un certo cattolicesimo ufficiale) di “sana laicità”. Ma sempre di laicità, in ogni caso, si tratta. E questo, per l’islam, che vive la realtà della migrazione e di un nuovo radicamento, è un terreno nuovo, concettuale e pratico, di confronto.

Ancora, in Toscana, sulle pendici dell’Amiata, che ha dato i natali a padre Balducci, c’è il Merigar, un centro culturale ed un luogo di incontro ispirato al buddismo tibetano. Poco lontano da lì, sul finire dell’Ottocento, era fiorita l’eretica esperienza, religiosa e sociale, insieme, del “profeta dei poveri” David Lazzaretti, che finì ucciso da un carabiniere. E che riposa, oggi, nel cimitero di Santa Fiora, proprio a due passi da Balducci.

Della pluralità della realtà fiorentina e toscana non potrà non tener conto mons Betori, il nuovo arcivescovo della città in cui operarono il “sindaco santo” La Pira e il card. Dalla Costa. Betori è uomo con un profilo identitario e culturale, apparentemente, assai definito, ma è conosciuto per finezza intellettuale e competenza. Nella lettera di accettazione della nomina ha ricordato l’alluvione e la sua esperienza di “angelo del fango”: un tempo di catastrofe, e di annuncio di rinascita, per Firenze. Che trovò nel dialogo fattivo fra la pluralità delle sue componenti la spinta propulsiva e lo sforzo solidale per riemergere dal fango e dalla prostrazione.

La memoria si salda al ragionamento sul futuro. E’ il “pluriverso” delle culture e delle religioni (15) il comune, problematico e fecondo, orizzonte con cui misurarsi. E nel “pluriverso”, sono le voci di tutti, pur nella diversa consistenza dell’insediamento o dell’antichità delle radici, nella comune società di appartenenza, a dover essere udite.

 

Rischiarare la lingua (e i concetti)

Il cerchio torna, dunque, a chiudersi su se stesso. E il nostro discorso (un discorso costituito, per di più, programmaticamente per “frammenti”) torna al punto di partenza. Cioè alla laicità. Come dire, allo spazio di tutti.

La lingua batte sul dente che duole. E che duole proprio perché è vitale, pur se dà tormento.

Sulla laicità il dibattito ferve. C’è chi ricorda, doverosamente, che la laicità (in un contesto in cui siano chiare sia l’importanza di tutelare “la libertà religiosa dei cittadini sia la responsabilità dello Stato verso di essi”) è libertà (16). E chi sottolinea, contro ogni assolutizzazione di posizioni, che si è tutti all’interno di “un cammino, un’approssimazione, una ricerca” (17). E chi constata e contesta, con accoratezza,  la persistenza dell’“equivoco di scambiare il dissenso ragionato verso aspetti (…) della dottrina della Chiesa e della sua strategia come inimicizia preconcetta (…)” (18).

Forse è il caso, merita ancora una volta sottolinearlo, di predisporsi prima di tutto ad un lavoro di rischiaramento linguistico. E concettuale (19). Rifiutando l’equivoco che è insito nell’uso comune, e spesso giocato in termini di contrapposizione, di termini come “laico” e “cattolico”. Per indicare in realtà, impropriamente e surrettiziamente, chi è credente e chi non lo è.

E’ appena il caso (dovrebbe essere lapalissiano, ma così non è) di ricordare che l’essere“laici” non ha niente a che vedere con l’adesione o meno ad una fede religiosa. Vi sono credenti (di diverse fedi) che sono laicissimi e agnostici o atei che possono essere connotati da intolleranza, fanatismo ideologico, fondamentalismo. Del resto, di per sé, possono essere laici anche il papa e il rabbino (20)? Basta che lo vogliano. E lo scelgano. E’ una considerazione minimale, e certamente banale, rispetto alla complessità , e novità, dei problemi che la nostra sezione tematica ha cercato, grazie alle riflessioni degli amici che vi hanno contribuito, di inquadrare. E’ pur vero che, a volte, è a partire dalle considerazioni più semplici, e controcorrente rispetto alla deriva del senso comune, che i frammenti di un discorso iniziano a ricomporsi e a farci intravedere la direzione di un cammino fruttuoso, e ragionevole, da percorrere.

 

1)       “Perché siamo ormai nella società postsecolare. Cioè in una società che appare sfibrata da un individualismo che corrode tutti i legami tradizionali. E allora perché consentire che i valori trovino casa solo in una prospettiva politica conservatrice e non cercare di interpretare e dare rappresentanza a sentimenti diffusi che altrimenti rischiano di essere inquadrati in una religione d’ordine?”. Sono riflessioni di Luigi Bobba (Il posto dei cattolici, ed. Einaudi, Torino 2007, pagg. 117-118), ex presidente ACLI ed attualmente esponente della componente cosiddetta “teodem” all’interno del Partito Democratico.

2)       V., in merito, l’interessante ricostruzione che della cornice e delle implicazioni di quell’incontro fa Bernardo Valli (Quelle radici in comune) in: “la Repubblica”, 13 Settembre 2008.

3)       La presenza in politica di una nuova generazione di “laici cattolici” (secondo quanto auspicato dal papa nel suo discorso durante il viaggio in Sardegna) non viene ormai, peraltro, praticamente da nessuno (da ricordare in proposito una chiarissima dichiarazione del “cattolicissimo” scrittore Vittorio Messori al TG1) ricondotta alla possibilità della riedizione di una forza unitaria “dei cattolici”. A proposito delle implicazioni del pronunciamento “sardo” di Benedetto XVI, v. anche: Franco Garelli, Al papa non basta l’ateo devoto, “La Stampa”, 9 Settembre 2008.

4)      Pietro De Marco è stato, tra l’altro, uno degli organizzatori del Convegno dell’ Associazione “Magna Carta”, lo scorso 23 Maggio, a Firenze, dedicato a: La Pira, Don Milani, Padre Balducci. Il laboratorio Firenze nelle scelte pubbliche dei cattolici dal fascismo a fine Novecento.  Per “Testimonianze” ha scritto recentemente un commosso ricordo di Luciano Martini (Con Luciano Martini, un’ordinaria discordia concors), nel Quaderno n.3 del Cinquantennale (supp. a “Testimonianze” nn. 457-458).

5)      V. Joseph Ratzinger- Jurgen Habermas, Etica, religione e Stato liberale, ed. Morcelliana, Brescia 2005.

6)      Michele Nicoletti, Introduzione ad Habermeas- Ratzinger cit., pag. 9.

7)      Così si espime J.Habermas in: Habermas- Ratzinger cit., pag. 36.

8)      Ivi, pag. 38.

9)      Ivi, pag.41.

10)    Ivi, pag. 52.

11)   Ivi.

12)   Ivi, pag.54.

13)   Giuseppe De Rita, La modernità della Chiesa, “Il Corriere della Sera”, 13 Agosto 2008.

14)   Così si esprime Aldo Schiamone (“la Repubblica, 8 Settembre 2008) in un articolo dal significativo titolo: Per una Chiesa che non divida.

15)   V. in prop. Nel pluriverso delle Religioni (sez. monotematica del n. 450 di “Testimonianze”) a cura di Federico Squarcini.

16)   Così Enzo Bianchi (Laicità come libertà) su “La Stampa” del 14 Settembre 2008.

17)   Aldo Schiavone, Quei precetti che ci dividono, “la Repubblica”, 15 Settembre 2008.

18)    Enrico Rusconi, La buona laicità, “La Stampa”, 16 Settembre 2008.

19)    Sul tema della laicità, v. Laicità e cultura della convivenza (sez. monotematica a cura di S. Saccardi), “Testimonianze” n. 440.

20)   Possono essere laici anche il papa e il rabbino, è il titolo del contributo di Ugo Caffaz alla sez. Monotematica (a cura di Giuseppe Vettori e Severino Saccardi) dedicata a La democrazia del nostro tempo (“Testimonianze” nn. 453-454).