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Perche’ il Palazzo sia davvero di vetro
Di Vannino Chiti
 Il racconto del processo legislativo e attuativo della Legge 150/2000, nel quadro dell’asse culturale del centro-sinistra al governo in quegli anni, da parte di uno dei suoi più autorevoli protagonisti. Un’azione riformatrice che volle mettere al centro della propria azione la ricerca di un nuovo equilibrio tra le esigenze della governabilità e quelle della rappresentanza. Un impianto fondato sulla distinzione tra informazione istituzionale e comunicazione politica e la differenziazione di ruoli e di inquadramento tra gli uffici stampa e i portavoce. Il cambio di indirizzo politico e le resistenze al cambiamento frenarono l’impulso riformatore, ma questi temi restano al centro della crisi di fiducia fra cittadini e istituzioni della democrazia.
Un ricordo personale

Una premessa, che è anche un ricordo personale. Dall’aprile 2000 al giugno 2001, nel Governo Amato, sono stato insieme a Enrico Micheli, sottosegretario alla Presidenza del Consiglio. Avevo la delega all’editoria, ma, su incarico del Presidente Amato e dello stesso Micheli, dovevo poi seguire varie questioni, dai rapporti con il sistema delle Regioni e delle Autonomie Locali – da pochi giorni avevo concluso la mia esperienza di Presidente della Regione Toscana e della Conferenza dei Presidenti delle Regioni italiane – al Servizio Civile, ad altri temi che volta a volta emergevano.

Sull’editoria mi proposi, nell’anno a disposizione prima della fine della legislatura, di dare attuazione al programma del centro-sinistra, in gran parte rimasto nei cassetti.

Ci riuscimmo attraverso una forte collaborazione con Vincenzo Vita, sottosegretario al ministero delle comunicazioni, e due deputati, di grande autorevolezza e competenza nel settore: Beppe Giulietti, di maggioranza, e Gennaro Malgeri, esponente della destra.

La Legge 150 Disciplina delle Attività di informazione e comunicazione delle Pubbliche Amministrazioni, fu uno dei primi impegni e di maggior rilievo da portare avanti: fu approvata, tra non poche difficoltà, nel giugno del 2000. Ebbe opposizioni trasversali, non solo di tipo politico, ma anche sindacale. Le organizzazioni di CGIL-CISL e UIL nel pubblico impiego rifiutavano una differenza professionale e contrattuale dei giornalisti. Già vi era stata incomprensione sulla funzione degli Uffici per i Rapporti con i cittadini, istituiti con un decreto legislativo nel 1993: ora non veniva colta l’importanza della distinzione tra comunicazione istituzionale e comunicazione politica, attraverso la separazione di ruoli e di inquadramento tra Uffici stampa e Portavoce. In questa complessiva struttura e nella individuazione dei compiti degli addetti alla comunicazione e alla informazione, con i conseguenti iter di formazione delle professionalità, risiede la novità dell’impianto normativo.

Quelle opposizioni e resistenze hanno poi svolto un ruolo non secondario nel frenare, qua e là, l’attuazione della legge.

Come è fin troppo noto, non è sufficiente scrivere e fare approvare una riforma: è al tempo stesso indispensabile seguirne passo passo l’attuazione, vincendo resistenze e passività.

Purtroppo il governo che seguì, dopo le elezioni del 2001, alla coalizione di centro-sinistra fu «in altre faccende affaccendato»: propaganda sul federalismo e restrizione finanziaria e legislativa dell’autonomia di Regioni e Comuni; controllo dell’informazione, non sostegno alla sua corretta diffusione e valorizzazione del pluralismo.

Il contesto politico di un processo riformatore

Per comprendere a fondo il significato della Legge 150 è bene considerarla nel contesto di quella fase di vita politica e civile del Paese, nella nascita dell’Ulivo, nella vittoria nel 1996 del centro-sinistra, nelle speranze di rinnovamento che si erano aperte. Pochi anni prima vi era stata la legge per l’elezione diretta dei sindaci; poi la nuova legge elettorale nazionale – la «Mattarella» – prevalentemente a collegi uninominali e con maggioritario a un turno; sul finire della legislatura le norme per l’elezione diretta dei Presidenti delle Regioni e l’autonomia statutaria regionale; nel 2001, come ultimo atto, la riforma del Titolo V della Costituzione, che dava valenza costituzionale all’autonomia amministrativa introdotta tra il 1996 e il 1998.

Ora per ognuno di questi provvedimenti si possono individuare lacune, insufficienze, anche errori e non solo quelli dovuti al sostrato di polvere depositato dallo scorrere del tempo. Bisogna però non perdere di vista l’asse culturale e politico che legava quei provvedimenti: non una generica innovazione, quasi che di per se stessa, senza ulteriori specificazioni, aggettivi, essa sappia indicare la positività di un progresso, l’affermazione di valori popolari di sinistra. No, l’idea guida era un’impostazione riformatrice che voleva trovare un nuovo equilibrio tra le esigenze di governabilità e quelle della rappresentanza. Per questo, mentre rafforzava il ruolo dei governi metteva al centro dell’attenzione e del rinnovamento strumenti che oltre a non indebolire ma a riqualificare il ruolo delle Assemblee elettive, rendessero più intensi i rapporti con i cittadini, imponessero la trasparenza dei procedimenti, per assicurarne la conoscenza e il controllo.

L’autonomia, responsabilità, professionalità di quanti operano nella comunicazione e informazione pubblica non venivano pensate come un meccanismo o un modello organizzativo solo interno alla Pubblica Amministrazione, ma come strumenti per assicurare ai cittadini il diritto a sapere e dunque a valutare e decidere. Le amministrazioni pubbliche gestiscono risorse che vengono dai cittadini: hanno il dovere di dare conto della loro utilizzazione, di sottoporre a valutazione di efficienza ed efficacia le loro azioni, di favorire la partecipazione delle persone. Una democrazia senza partecipazione, senza popolo, non può esistere. In quel disegno – che era di rinnovamento autonomistico-federalistico dello Stato – vi era da un lato la sollecitazione che veniva dalle esperienze più avanzate delle democrazie europee e dallo stesso percorso di faticosa costruzione di una democrazia sovranazionale in Europa; dall’altro la percezione che se la democrazia rappresentativa non fosse riuscita a realizzare ampie e nuove saldature con forme di partecipazione diretta dei cittadini, avrebbe corso rischi di involuzione, impoverimento, sconfitte serie di fronte a sfide inedite – già allora presenti o annunciate – dei populismi.

La sconfitta della sfida riformatrice

E’ in questo quadro – lo ribadisco – che si inseriscono le riforme alle quali ho fatto riferimento ed altre come la Legge 241 del 1990, che impone la trasparenza degli atti amministrativi e fissa il diritto del cittadino di conoscere il nome del dipendente pubblico responsabile dei procedimenti.

Questa sfida riformatrice è stata nel suo insieme sconfitta: per lentezza e incapacità a modificare gli assetti dello Stato centrale, dal Parlamento al Governo, dalle burocrazie e competenze dei ministeri al sovrapporsi, spesso come pure presenze burocratiche, superfetazioni senza incisività di missione, delle varie Authority; per una progressiva fase di decadenza del regionalismo mostratosi non in grado di attuare un rinnovamento delle forme di governo collegato alla maggiore vicinanza ai cittadini, avendo anche abbandonato – così come del resto i Comuni – dietro alla semplice rivendicazione delle competenze ogni obiettivo di riorganizzazione e ridefinizione delle Regioni, compreso il loro stesso numero, incompatibile oggi con una funzione legislativa e di rappresentanza dei territori davvero efficace.

Il punto più debole, che ha reso fragile l’intera impalcatura del progetto, è stato tuttavia rappresentato dall’affermarsi non di un rinnovamento delle competenze, ma dell’emergere di una perdita di funzioni, di un ridimensionamento del ruolo delle Assemblee elettive, ad ogni livello: sia nazionale, che regionale e locale.

A livello regionale addirittura la durata dell’Assemblea è legata alla permanenza in carica del Presidente della Giunta eletto dai cittadini: una esplicita e inaudita subalternità istituzionale.

A un certo punto del percorso riformatore le intenzioni della sinistra si sono perdute, si sono forse arrese all’arrembaggio delle destre: nel campo delle istituzioni e della democrazia, come in quello economico e sociale si è spesso preferito – o la debolezza culturale ci ha costretto a questo – operare per ridurre il danno, anziché avanzare un progetto alternativo.

Il risultato, oggi, in tutta Europa è un rombo assordante e non sottovalutabile, che annuncia lo scatenarsi non di un generico populismo, ma di un populismo reazionario; una volontà delle destre di ridurre la partecipazione dei cittadini all’interno di forme di autoritarismo plebiscitario; il rischio di uno scontro frontale tra democrazia e forme nuove, veicolate dalle reti informatiche, di semplificazione decisionista.

La partita non è certo chiusa: esiste la via di una democrazia che fonda il suo rinnovamento e si rafforza attraverso la partecipazione dei cittadini, in forme tradizionali e valorizzando le inedite occasioni della rete; che afferma un equilibrio tra governi e rappresentanza; che porta a compimento le riforme istituzionali ed elettorali annunciate; che motiva e premia il merito, non umilia la Pubblica Amministrazione; che scommette il suo futuro mettendosi in gioco per realizzare infine una democrazia sovranazionale, gli Stati Uniti d’Europa.

Un vuoto durato quattordici anni

Non è un parlare d’altro rispetto alla Legge 150, del 2000: quella legge nasceva, come ho detto, in un orizzonte di riforme. Se non si ricostruisce una prospettiva riformatrice è difficile che la legge sia in grado di perseguire le sue finalità. E’ probabile, come sta avvenendo, che in gran parte non sia attuata, in parte sia se non snaturata, quantomeno impoverita, ridotta ad una funzione interna, di articolazione burocratica delle varie Amministrazioni.

Infatti in molte realtà, soprattutto nel Mezzogiorno, la legge è stata disconosciuta: quanti lavorano nella comunicazione pubblica non hanno avuto ancora il riconoscimento del loro profilo professionale. Gli uffici stampa vivono in modo confuso, con differenti status normativi, a seconda delle istituzioni. Un vero «vestito di Arlecchino», che lascia spazi ampi a quella discrezionalità politica che si voleva eliminare.

Le organizzazioni di categoria di CGIL-CISL-UIL-UGL hanno continuato in una sorta di ostruzionismo: così oltre 2000 giornalisti attendono ancora la definizione giuridica del loro ruolo.

Non sono giornalisti professionisti, perché hanno un contratto nel pubblico impiego, e non rientrano nei ruoli della Pubblica Amministrazione, perché svolgono esclusivamente un’attività giornalistica.

Di recente una sentenza del Giudice del Lavoro dell’Aquila ha stabilito che contratti come quello dei giornalisti, se non nei casi di tempo determinato o per progetti specifici, non possono essere applicati nelle amministrazioni pubbliche.

È un colpo ulteriore all’attuazione della Legge 150: la magistratura si inserisce negli spazi lasciati vuoti dalla politica e dalla legislazione, decidendo criteri di recepimento delle normative.

È vero che nel testo della Legge 150 non si afferma in modo esplicito l’obiettivo di una applicazione del contratto giornalistico negli uffici stampa delle amministrazioni pubbliche: si rimanda l’individuazione e regolamentazione dei profili professionali ad «una speciale area di contrattazione», con la partecipazione delle organizzazioni rappresentative della categoria dei giornalisti. Dopo 14 anni quest’«area speciale» non ha ancora visto la luce.

E’ certamente una lacuna della legge non avere previsto tempi rigorosi per l’attuazione delle sue finalità e sanzioni per le inadempienze.

Vi sono dunque, dopo 14 anni, verifiche da compiere, revisioni e cambiamenti da introdurre. Il problema di fondo – come ho messo in evidenza in tutto questo mio intervento – è l’orientamento che deve guidare questo impegno di rivisitazione: per attuare la legge o per metterla in naftalina, nello scaffale dei sogni smarriti, non più attuali e alla moda?

L’iniziativa per rilanciare la Legge 150, introducendovi le modifiche necessarie, ha un senso se rappresenta un terreno, circoscritto ma concreto, per reimpostare in modo originale e creativo un’azione riformatrice di ampio respiro, che si proponga – nel quadro di una visione europea – il rinnovamento delle istituzioni della Repubblica, un rafforzamento della partecipazione dei cittadini, il raggiungimento per questa via, e non attraverso un restringimento della democrazia, dell’efficacia nell’azione dei governi.

Per questo una riflessione sugli esiti della Legge 150, sulle sue finalità, sulle prospettive di un suo rilancio non sono oziose o banali: ci impongono anzi una presa di coscienza e la responsabilità di una iniziativa – ora che siamo in tempo – per rinsaldare fiducia e legami tra cittadini e democrazia, per sconfiggere le sfide alla convivenza portate dai populismi reazionari, per proiettarsi con convinzione nel futuro, anziché essere risucchiati in un passato per il quale non si possono nutrire nostalgie.