Pellegrino Artusi e “l’unita’ gastronomica” d’Italia
di Denio Derni
Un manuale di cucina domestica «collettivo», quello dell’Artusi, una sorta di blog ante litteram, frutto di intense ricerche e sperimentazioni e arricchito con i contributi di lettrici (e lettori) che correggevano integravano inviavano ricette direttamente a casa dell’autore. Un testo, La scienza in cucina e l’arte del mangiar bene, che contribuì alla formazione di una cucina nazionale italiana, fondata sugli apporti delle varie cucine regionali e locali e sulla valorizzazione delle diversità come elementi costitutivi dell’identità nazionale.
«Amo il bello e il buono ovunque si trovino e mi ripugna di veder straziata, come suol dirsi, la grazia di Dio. Amen». Così Pellegrino Artusi chiudeva la sua Prefazio ad uno dei libri più fortunati dell’editoria post-unitaria, il più venduto, letto, sfogliato, consultato, rubato dalle biblioteche, il suo La Scienza in cucina e l’arte di mangiar bene.
Quei due aggettivi sostantivati «il bello e il buono» e quell’avverbio «ovunque» bene caratterizzano la ricerca, condotta in tanti anni di meticolosa sperimentazione, con l’aiuto prezioso dei fedeli domestici Marietta e Francesco Ruffilli.
Il bello e il buono nelle arti e nella cultura, nell’assidua lettura dei classici, ma anche (e questa è la straordinaria novità del libro) nella cultura materiale delle diverse regioni italiane. «Ovunque» spazia quindi nelle diverse attività del vivere e dell’agire umano e oltre i confini territoriali entro i quali era stata per secoli divisa l’Italia. Artusi contribuisce ad unire gli italiani a tavola, raccogliendo e facendo conoscere le diverse specialità regionali, ma lo fa utilizzando con grande cura la parola, un linguaggio ricco, chiaro, semplice e comprensibile. Perché l’Artusi, romagnolo, nato e cresciuto nella piccola cittadina di Forlimpopoli, giunto a Firenze in età matura, «sciacqua i suoi panni in Arno», ed è da questo sciacquio che nasce il libro.
«Dopo l’unità della patria mi sembrava logica conseguenza l’unità della lingua parlata che pochi curano e che molti osteggiano, forse per un falso amor proprio e forse per la lunga consuetudine inveterata ai propri dialetti».
Da questo sciacquio, dal treno e dalla posta. Per i suoi viaggi in treno, o in carrozza, conosce le varie specialità regionali, e tramite la posta riceve tante lettere, tante ricette da gentili signore sparse in tutta l’Italia, indirizzate a Pellegrino Artusi, Piazza Massimo D’Azeglio. Un vero e proprio marchio di fabbrica, ricette che Artusi sperimenta e inserisce nelle nuove edizioni. Perché la Scienza in Cucina è un libro collettivo, è questa la sua bellezza, la sua forza.
Il manuale artusiano, che era distribuito prevalentemente per corrispondenza, direttamente dalla casa dell’autore, istituì infatti subito un contatto fra l’Artusi e il suo pubblico, i lettori e le lettrici che cominciarono a scrivergli per esprimere dubbi, chiedere consigli, dare suggerimenti, segnalare nuove ricette. Questa caratteristica fece della Scienza in cucina un testo «interattivo» (in anticipo di oltre un secolo rispetto agli odierni blog culinari) arricchitosi, in vent’anni di costante revisione, di ben 315 ricette oltre alle 475 della prima edizione. Il successo che gli italiani hanno decretato al manuale artusiano è legato alla natura «collettiva» di quest’opera, scritta non solo per gli italiani, ma dagli italiani.
Uno strumento al servizio dell’appetito e della memoria
Testo, quindi, forse non esaustivo della ricchezza straordinaria della cucina domestica regionale italiana, la cui molteplicità e creatività è ancora oggi tema di indagine, ma certamente fondatore di una cucina nazionale.
La Scienza in cucina e l’arte di mangiar bene può essere letta come un programma culinario enunciato nel 1891 e perfezionato in un ventennio, sino alle soglie della Prima guerra mondiale, con metodo e successo; oppure, a più di cento anni dopo la morte dell’autore, come uno strumento privilegiato per rileggere in filigrana, in forma di ricette, le scelte, le preparazioni, i consumi e un lungo elenco di oggetti nutritivi, scomparsi o ripetuti lungo un secolo, che hanno contribuito a creare una identità nazionale, all’epoca nella quale l’industria alimentare appena nascente muoveva incerta i primi ingranaggi.
Il merito indiscusso è quello di aver insegnato gli italiani una cucina di casa all’altezza delle loro speranze, una lingua per designare i cibi e un gusto per giudicarli, avendo offerto, con un libro di ricette, ai lettori di ogni parte d’Italia, uno strumento per l’appetito e per la memoria.
Con il suo metodo, Artusi realizza una cucina nazionale che raccoglie e sintetizza le tante tradizioni locali, ricomposte in un mosaico che non appiattisce, ma esalta le diversità̀. Questo tipo di approccio ha una lunga tradizione: già̀ Bartolomeo Scappi, il massimo cuoco italiano del Cinquecento, aveva adottato una prospettiva «antologica» per rappresentare il meglio delle tradizioni locali di tutta l’Italia, lasciando al lettore la scelta sulle ricette da realizzare. La cucina italiana si definisce dunque non come modello omologante e riduttivo, ma come spazio di condivisione di saperi e di pratiche. Il modello è ̀quello della «rete», che fa circolare gusti, prodotti, ricette, includendo la diversità come dato essenziale dell’identità nazionale.
Ma questo disegno multicolore, questa ricomposizione della tradizione e della diversità, questa tessitura attenta del buon gusto a tavola, così presente nell’opera di Artusi, ha ancora oggi una sua validità, una sua ragione d’essere, o è stata soppiantata dall’industria alimentare, dai fast-food, dalla globalizzazione che porta all’appiattimento, all’omologazione del gusto?
Artusi a teatro
Nel 2011, nel centenario della morte di Pellegrino Artusi, il Comune di Forlimpopoli, sua città natale, mi dette l’incarico di mettere in scena uno spettacolo teatrale sul grande letterato e gastronomo, coincidendo le celebrazioni di Artusi con i 150 anni dell’Unità d’Italia. Lo spettacolo si chiamò, appunto, Pellegrino Artusi, l’Italia è servita. Nella parte finale dello spettacolo mi lasciavo andare ad amare riflessioni sullo «stato dell’arte» gastronomica, che qui riporto: «L’Artusi. Per antonomasia libro di cucina. “Passami l’Artusi”, “Mi dia l’Artusi” Che gloria! Il libro che diventa nome! A quanti letterati toccò tale sorte? Libro letto, regalato, dato in dote, rubato quant’altri mai, presente allo stesso modo nelle librerie e nelle madie, nello studio e sul tavolo di cucina, con le pagine macchiate d’unto, a maggior gloria! E oggi… Oggi, dopo tante ristampe della Scienza in cucina si avverte da qualche parte un ritorno al gusto e ai buoni sapori, ai prodotti buoni legati alle stagioni, alla convivialità. Ma pur tuttavia il “saper fare“ della cucina domestica conosce il punto forse più basso della sua storia. I ritmi di vita e i modelli che vengono proposti la pongono in un territorio residuale. L’industria …. consumo rapido e veloce. Il “viaggio“ del cibo… il viaggio, si è invertito. Lo si preparava a casa, il cibo era un dono, un regalo, un messaggio della famiglia all’esterno nelle feste o anche solo presso i vicini. Me la ricordo ancora, mia nonna, novantenne, ancora pochi anni fa, che la domenica preparava le lasagne (e che lasagne) per noi nipoti, e le metteva nei contenitori di alluminio, che chiudeva col cartone e li legava con gli elastici, per il viaggio. Una confezione per ogni nipote. Ora invece il trasporto è da luoghi sociali (rosticcerie, supermercati) verso casa. E le lasagne non son più quelle!! Lo stesso stare a tavola insieme bambini e genitori è confinato in tempi sempre più ristretti e, quando avviene, spesso è la televisione accesa che riempie il luogo della conversazione, distogliendo l’attenzione dalla consapevolezza dei sapori e degli odori. Così viene sacrificato il piacere del gusto e la sua condivisione con altri. Se è diventata cosa rara il cucinare bene nella propria casa, rarissimo o inesistente è il cucinare insieme ai figli. La pratica antica che coinvolgeva le figlie nella preparazione dei cibi assieme alle nonne e alle madri va letteralmente scomparendo. Con essa se ne va la tradizione e la pratica del saper fare in cucina. Quello che si va perdendo con le nuove generazioni è semplicemente la cultura gastronomica costruita in secoli di pratica domestica, cioè gran parte di quella cultura materiale che è anche il carattere e l’unità della nostra nazione…».
Ma sul palco, mentre mi concedevo questo lacrimoso pistolotto finale, venivo improvvisamente richiamato dalla giovanissima attrice che per tutto il tempo aveva recitato preparando materialmente i «cappelletti» e cotto il brodo di cappone: «Ma professore! Che dice!!?? Sono pronti i cappelletti! Venga a tavola, su…!»
A smentire il brontolio del pessimismo autocompiacente e a testimoniare che anche nelle nuove generazioni persiste il piacere della tavola e del buon gusto, e le tradizioni regionali e nazionali, di cui i cappelletti (specialmente per noi in Romagna) sono vessillo non ammainabile.
A guardarsi intorno, infatti, il quadro d’insieme non sembra più quello di un inarrestabile declino della gastronomia italiana, come tanti segnali ci facevano presagire e come tante catastrofiche previsioni ci facevano intravvedere all’orizzonte, con il precotto e il surgelato trionfanti a tradire quel processo storico di cui Artusi era stato testimone.
Forse anche in modo tortuoso e con contraddizioni evidenti, la cucina italiana pare avere ritrovato una sua vitalità, rinnovandosi profondamente senza rinnegare la ricchezza della propria tradizione, che si ritrova appunto nella pratica domestica e nelle trattorie familiari.
Ciò è spesso accaduto nel nome dell’Artusi, e la nascita a Forlimpopoli di una «Casa Artusi» dedicata proprio alla cucina domestica, alle sue infinite varianti e sfaccettature, alla sua importanza come idea e come metodo di cucina è sicuramente un momento importante e significativo di questo «Rinascimento»della cultura gastronomica italiana.
Rinascimento che non è gelosia della propria tradizione, bensì consapevolezza orgogliosa predisposta all’arricchimento e allo scambio con altre culture.
Non a caso, in questi anni, il libro dell’Artusi è stato ulteriormente tradotto in altre lingue, in spagnolo, portoghese, russo, sbarcando negli Stati Uniti, in molti stati dell’America Meridionale e in Asia, con «Casa Artusi» a fare l’ambasciatrice della nostra cultura gastronomica, aprendo proprie attive succursali a Mosca e a Manila, partecipando e scambiando le delegazioni e i cuochi alle Feste Golose a Villeneuve Loubet, città natale di August Escoffier (padre della Cucina francese), gemellata con Forlimpopoli, e facendo vivere nella festa Artusiana che si svolge ogni anno a giugno a Forlimpopoli, le varie cucine regionali e del mondo.
Il «bello e il buono ovunque si trovino». E non ho dubbi sul fatto che il nostro Pellegrino Artusi, se fosse vivo e operante ora, metterebbe all’opera in cucina la Fedele Marietta e il bravo Ruffilli a sperimentare, correggere, aggiungere varianti alle ricette che «le gentili signore (e i signori)» dalle varie parti dell’Asia, dell’Africa e delle Americhe farebbero giungere al modernissimo e attrezzato blog artusiano.
A globalizzare i saperi e i sapori, dando valore alle differenze.