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Nuove generazioni dei diritti
di Maria Teresa Cao e Simone Siliani
Oltre ai diritti di libertà individuali e ai diritti sociali oggi si parla di diritti di “terza generazione” che rimandano a quattro direttrici fondamentali: il diritto alla pace, il diritto alla salvaguardia dell’ambiente, il diritto alle necessarie condizioni di sviluppo, il diritto al patrimonio comune dell’umanità. Di recente, viene fatto riferimento alla “quarta generazione dei diritti”, che trae origine dai problemi posti dalla nuova dimensione tecnologica della comunicazione e dell’informazione.
Una concezione dinamica del diritto
La classificazione dei diritti in generazioni è il frutto di una concezione dinamica del diritto e, in fondo, della società e del pensiero umani. Per quanto essa trovi una ben precisa catalogazione nella teoria giuridica (nonché nella prassi giurisdizionale, seppure con non poche contraddizioni e fallimenti), essa coinvolge molti aspetti dell’agire umano:dalla politica all’economia, dal pensiero filosofico all’organizzazione sociale. In questi ambiti i confini fra le diverse generazioni di diritti tendono a sovrapporsi, confondersi e contaminarsi a vicenda. Tutto ciò rende sempre più complesso il quadro della tutela giurisidizionale, ma anche estremamente ricco e articolato il panorama di significati che una specifica azione politica, decisione governativa o iniziativa economica assume sotto questi profili. La necessità, dunque, di comprendere le diverse implicazioni e i vari significati delle singole azioni intraprese, di contemperare e di tenere in costante e precario equilibrio i diversi diritti e i loro titolarie, conseguentemente, orientare i comportamenti pubblici e privati in forza di questa complessa attività, rendono il discorso sui diritti umani oggi assai più problematico ma al contempo più denso di possibilità di sviluppo di quanto non lo fosse sessanta anni fa quando la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo fu approvata.
Infatti, sarebbe fuorviante ritenere che l’evoluzione storica ci abbia consegnato una situazione sostanzialmente assestata circa la definizione e la delimitazionedelle diverse categorie di diritti e tanto meno che i diritti fondamentali (quelli legati ai diritti dell’individuo) siano raggiunti almeno nella parte cd. sviluppata del pianeta (quella caratterizzata da sistemi politici a democrazia matura e da sistemi sociali ed economici aperti) o che essi possano essere considerati come distinti e autonomi dai diritti sociali o culturali. Si dovrebbe, a nostro avviso, accedere ad una visione piuttosto progressiva ed interdipendente delle varie categorie di diritti che, in fondo, è insita nella complessa (più di quanto non appaia ad una prima superficiale lettura) architettura della stessa Dichiarazione Universale del 1948.
Un giovane uomo di colore
Una esemplificazione concreta e politica di questa concezione progressiva e interdipendente del discorso sui diritti è fornita dall’approccio che il Presidente eletto degli Stati Uniti d’America, Barack Obama, mostra di avere su queste tematiche. Prendiamo il suo discorso sul razzismo, pronunciato durante la campagna elettorale. Un discorso intenso che può avere diverse chiavi di lettura: certamente quella delle opportunità che in un paese come gli Stati Uniti da cinquant’anni uscito da meccanismi di discriminazione razziale, sono concesse ad un giovane uomo di colore (e Obama si diffonde su questo concetto e sul fatto che lui è il candidato sbagliato per l’idea stereotipata dell’America che abbiamo), oppure sul distacco del candidato dal suo ex pastore rev. Jeremiah Wright e dai suoi sermoni carichi di rancore razziale, o ancora sull’idea che permea tutto il discorso circa la necessità di unire tutti gli Americani per superare la grave crisi economica, creare un sistema di welfare pubblico e uscire dalla guerra in Iraq. Ma qui vorremmo sottolineare come il discorso riveli una idea del tema dei diritti di tipo progressivo e interdipendente. Infatti, il discorso si apre con l’incipit della Costituzione degli Stati Uniti, “Noi, il popolo, allo scopo di perfezionare ancor di più la nostra Unione” e la citazione qui si interrompe a voler sottolineare il tema dell’unità e quello, soprattutto, del movimento di perfezionamento.
Obama dichiara che non sono sufficienti le parole scritte su sacre pergamene per liberare gli schiavi dalla schiavitù o per garantire a uomini e donne di qualsiasi colore e credo religioso la pienezza dei diritti e dei doveri di cittadini degli Stati Uniti e che l’obiettivo per il quale ha iniziato la sua campagna elettorale è quello di “continuare la lunga marcia di quelli che sono venuti prima di noi, una marcia per una più giusta, più uguale, più libera, più altruista e più prospera America”. Questa candidatura è quindi, in qualche modo, l’esercizio di una azione positiva (“affermative action”). Si tratta, dunque, di un movimento costante di inveramento, perfezionamento, dei diritti fondamentali; che accetta l’esistenza di contraddizioni dentro se stessi e dentro gli Stati Uniti (che, dunque, non sono un sistema perfetto di democrazia e libertà) e indica un processo per continuare un cammino di perfezionamento mai concluso. Nel prendere le distanze dal reverendo Wright, Obama individua la sua maggiore colpa non solo e non tanto nell’incitamento alla vendetta razziale o al rancore verso i bianchi, ma nel suo raffigurare l’America “come una società statica; nella quale nessun progresso è stato compiuto”. Ebbene, questa idea progressiva dell’affermarsi di un compiuto sistema di diritti è coerente con il Preambolo della Dichiarazione Universale del 1948 quando essa viene posta come ideale comune da raggiungere, al fine di garantire, “mediante figure progressive di carattere nazionale e internazionale, l’universale ed effettivo riconoscimento e rispetto” dei diritti inscritti nella Dichiarazione stessa: il sistema dei diritti è un movimento tendenziale che non solo non si raggiunge una volta per tutte e in modo perfetto pure in un sistema politico di tipo democratico, ma che sviluppa e recepisce nuove problematiche, nuove categorie di diritti a fronte dell’evoluzione culturale e tecnologica della società.
 
L’interdipendenza fra il tema razziale e l’estensione dei diritti sociali
L’altro aspetto fondativo del discorso è la connessione stretta e inscindibile che Obama stabilisce fra i diritti umani individuali di cd. “prima generazione” e quelli sociali, anch’essa caratteristica intrinseca della Dichiarazione Universale del 1948. Tutto il discorso è innervato di questo rapporto di interdipendenza fra il tema razziale e l’estensione dei diritti sociali attraverso un sistema di welfare e di istruzione universalistico: “la complessità razziale in questo paese che non abbiamo mai compiutamente elaborato, è parte di quell’Unione che dobbiamo ancora perfezionare. E se oggi evitiamo questo nodo, se semplicemente ci rifugiamo nei nostri rispettivi angoli, non saremo mai più in grado di unirci e risolvere sfide come quella della sanità, dell’educazione o della piena occupazione per ogni Americano”. Nel suo discorso Obama mette in diretta relazione il tema del razzismo e, quindi, il principio di uguaglianza che caratterizza tutta la prima parte della Dichiarazione e in particolare i primi due articoli, con quello del diritto all’istruzione contemplato all’art.26 della Dichiarazione, con parole forti ed esplicite: “Scuole segregate erano, e sono, scuole inferiori; a cinquant’anni dalla sentenza della causa Brown vs. Board of Education, non le abbiamo ancora sistemate e l’educazione inferiore che esse danno, allora ed oggi, aiuta a spiegare il perché del persistente gap di possibilità fra gli studenti neri e quelli bianchi” Analogamente la questione razziale si lega al diritto al benessere (art.25 Dichiarazione):La discriminazione legalizzata – nella quale i neri sono esclusi, spesso con la violenza, dalla possibilità di acquistare una proprietà, oppure agli imprenditori Afro-Americani non si concedono prestiti, o alle famiglie dei neri non si consente di accedere ai mutui della Federal Housing Administration (ndr. l’agenzia federale per la casa), o i neri sono esclusi dai sindacati o dai Vigili del Fuoco – significa che le famiglie nere non sono in grado di accumulare alcun bene significativo da lasciare in eredità alle generazioni future. Questa storia aiuta a spiegare il gap di benessere e entrate fra bianchi e neri, e le sacche di povertà che si concentrano oggi in molte comunità urbane e rurali”.
Con lo stesso meccanismo relazionale, Obama stabilisce una connessione causale fra il diritto alla sicurezza di ogni essere umano (art.3 Dichiarazione) e il diritto al benessere e alla sicurezza sociale (art.25): “E la mancanza di servizi di base in molti quartieri urbani neri – parchi giochi per i bambini, poliziotti di pattuglia, regolare raccolta di rifiuti, attuazione delle leggi urbanistiche – ha contribuito a creare il circuito della violenza, rancore e trascuratezza che continua a strangolarci”. Una visione del tema dei diritti che il neo-Presidente mostra, dunque, di condividere con la spirito vivo della Dichiarazione Universale del 1948 e che fa sperare in concrete azioni positive degli Stati Uniti sotto la sua presidenza, come la chiusura del carcere di Guantanamo (sicuramente in contrasto con gli artt.5 (tortura), 8 (diritto di ricorso in tribunale) 10 (diritto al giusto processo), 11 (presunzione di innocenza) della Dichiarazione.
Nella progressiva contaminazione tra prassi politica, potere legislativo e la nascita e il radicamento di nuove necessità di tutela costituzionale dei diritti, la dottrina ha elaborato una classificazione in quattro generazioni dei diritti stessi che ci aiuta a seguirne lo sviluppo.
Se, infatti nella struttura ideologica dello stato liberale [e nel riferimento al pensiero di Locke e di Rousseau, oltre che nella Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789] hanno trovato terreno idoneo al radicamento i tradizionali diritti di libertà individuale che sono alla base dell’uguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge, quali la libertà di espressione, di associazione, di riunione, le altre libertà politiche che vengono classificati come diritti di prima generazione, nel corso del XX secolo con l’approvazione delle Costituzioni moderne e delle Convenzioni internazionali si fa strada la consapevolezza che se fino a quel momento lo Stato doveva astenersi dall’agire autoritativamente in quelle sfere di libertà personali individuate come libertà “negative” o “libertà da”, ora vedono la luce nuovi diritti di natura economica e sociale classificati come di “seconda generazione”. In questo ambito nascono norme costituzionali in base alle quali lo Stato assume la funzione di intervenire attivamente nel sistema economico-sociale per concorrere a determinare, nel rispetto dei diritti di libertà, condizioni di uguaglianza sostanziale. E’ qui che nasce l’idea stessa dello Stato sociale. Infatti il carattere che contraddistingue i diritti sociali dai diritti di prima generazione sta nella pretesa che i titolari degli stessi vantano nei confronti delle pubbliche autorità, sulle quali, dunque, incombe un obbligo di prestazione per soddisfare i “diritti positivi” dei consociati, assicurando loro una sostanziale libertà dal bisogno.
 
I diritti di “terza generazione”
Di diritti di “terza generazione” si è iniziato a parlare nel corso degli anni 70 per sottolineare una nuova dimensione dei diritti della persona; non più individuale (prima generazione) né solo collettiva (seconda generazione), ma di tipo umanitario, più precisamente, dei diritti di solidarietà umana. Alla base di questa generazione di diritti sta l’esigenza di contrapporre al nuovo ordine economico internazionale, un nuovo ordine umanitario internazionale, fondato sulla solidarietà tra gli appartenenti all’umanità. I diritti di terza generazione ricevono la loro formulazione principalmente nei documenti di diritto internazionale e si sviluppano lungo quattro direttrici fondamentali: il diritto alla pace, il diritto alla salvaguardia dell’ambiente, il diritto per l’individuo e la famiglia alle necessarie condizioni di sviluppo, il diritto al patrimonio comune dell’umanità. Fanno parte dei diritti di terza generazione anche quelli che tutelano categorie di individui, ritenute particolarmente deboli ed esposte a pericoli di violazioni dei loro diritti: si tratta in particolare dei diritti dell’infanzia e dei diritti della donna. Essi si configurano più come diritti dei popoli o dell’umanità nel suo complesso più che diritti del singolo, come nel caso dei diritti di prima e seconda generazione. Talvolta i diritti di terza generazione possono entrare in conflitto con i diritti tradizionali e la soluzione di questo tipo di conflitti implica una chiara visione politica (possibilmente che sappia guardare un oltre il limite del proprio mandato e l’interesse immediato della propria parte politica) e non solo tribunali competenti e coraggiosi. Un esempio a nostro avviso concreto di questo tipo di conflitti è stata la recente posizione dell’Italia in ambito dell’Unione Europea circa gli impegni di abbattimento delle emissioni di CO2 in atmosfera per combattere l’innalzamento della temperatura terrestre. Il governo guidato da Berlusconi ha aperto con l’Unione Europea una vertenza sul piano per l’abbattimento che, a detta del premier italiano, penalizzerebbe eccessivamente l’Italia e le sue imprese, in una fase critica per l’economia che non riuscirebbe a sostenerne il peso. La procedura di codecisione (maggioranza qualificata) con la quale si approverà il pacchetto si incaricherà di verificare in quale misura Berlusconi può contare sul sostegno di altri paesi o se invece l’avrà vinta Sarkozy che ha dichiarato irresponsabile l’eventuale abbandono della politica europea sul clima con la scusa della crisi finanziaria. Intanto possiamo dire che la posizione di Berlusconi può essere tradotta come una opzione (crediamo inconsapevole per ignoranza) per i diritti economici (di seconda generazione) rispetto ai compiti di salvaguardia dell’ambiente che mettono in campo diritti di comunità ben più vaste di quelle nazionali o degli imprenditori, che si allargano fino all’intero pianeta (le cui risorse naturali sono in quantità finita e non riproducibile, inserite in un ecosistema interdipendente e fragile) e a comprendere le generazioni future che, in base alle scelte compiute oggi, potranno o meno beneficiare di tutti i diritti compresi nella Dichiarazione ivi compreso quello alla vita.
Ma questo conflitto può essere risolto in modi diversi e finanche letto in modo diametralmente opposto. E’, di nuovo, il caso del Presidente eletto degli Stati Uniti, Barack Obama, che alla sua scelta di sviluppare un sistema di limitazioni alle emissioni di anidride carbonica che le ridurrebbe entro il 2020 al livello del 1990 e a tagliarle di un ulteriore 80% entro il 2050, ha collegato una serie impressionante di investimenti a sostegno dell’impresa privata in nuove tecnologie nel campo delle energie rinnovabili (solare, eolico, biocarburanti, ricerca sul carbone pulito e sulla sicurezza nel nucleare). Questi interventi sono tesi, esplicitamente, a ridurre la dipendenza degli USA dal petrolio straniero (questione dei diritti allo sviluppo della comunità nazionale di cui egli è interprete e tutore), a salvare il pianeta (dimensione vasta dei portatori di interessi da tutelare: la comunità mondiale e le generazioni non ancora presenti) e a affrontare la crisi economica creando cinque milioni di nuovi posti di lavoro (tutela dei diritti degli individui, i lavoratori).
E, infine, la “quarta generazione”
Infine, la quarta generazione dei diritti trae origine dalla nuova dimensione tecnologica della comunicazione e dell’informazione. Di fronte all’avvento della nuova economia, delle nuove tecniche di acquisizione e trattamento delle informazioni e di diffusione e trasmissione delle stesse (da Internet alla rete satellitare), si sono venuti configurando i c.d. diritti della società tecnologica.
Il quadro dell’evoluzione generazionale dei diritti è strettamente legato al processo di affermazione dei diritti di libertà sulla scena internazionale. Le dichiarazioni e gli accordi tra gli Stati mettono in evidenza come il riconoscimento e la tutela dei diritti fondamentali della persona non costituiscano più una questione esclusivamente “interna” ai singoli ordinamenti. Il loro rilievo internazionale ha determinato un crescente impegno degli Stati testimoniato dagli strumenti messi in atto. Inizialmente, si è proceduto alla stesura di documenti recanti dichiarazioni di intenti. In tali casi gli Stati aderenti si impegnavano a riconoscere e a tutelare adeguatamente quei diritti di libertà caratterizzanti gli ordinamenti democratici, senza però che si prevedessero meccanismi di controllo e sanzione. E’ questo il caso della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, approvata dall’Assemblea generale dell’ONU nel 1948. In questo ambito la Dichiarazione costituisce già una prima risposta ad una consapevolezza che, soprattutto dopo il secondo conflitto mondiale con i due eventi destabilizzanti di ogni ordine giuridico e umano precedentemente concepito cioè l’Olocausto e la Bomba atomica, si faceva strada nella comunità internazionale circa la insufficienza dei confini che la teoria e la prassi del diritto aveva fino ad allora rispettato: i confini dello Stato nazionale (entro i quali il valore della norma, il soggetto erogatore della stessa e i portatori dei diritti riconosciuti dalla legge erano delimitati), dei soggetti titolari di diritti (gli individui e le organizzazioni politiche e sociali riconosciute), oltre alla consapevolezza della necessità di classificare nuove categorie di diritti.
Successivamente, la comunità internazionale ha ritenuto necessario andare oltre la semplice forma giuridica della dichiarazione, per apprestare strumenti appositi e maggiormente efficaci e stringenti di tutela. In tal senso va ricordata la Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, approvata a Roma nel 1950 e integrata successivamente da ulteriori Protocolli addizionali (Parigi, Strasburgo, Vienna). La Convenzione ha previsto, infatti, l’istituzione di una Corte europea dei diritti dell’uomo dotata di poteri sufficienti ad assicurare la tutela delle persone cha abbiano visto violati i propri diritti di libertà coperti dalla Convenzione.
Anche la Corte di Giustizia delle Comunità europee è venuta assumendo funzioni di tutela di quei diritti sanciti dai trattati istitutivi e, in un futuro ormai prossimo, dei diritti proclamati nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, approvata nel 2000.
La crescita della sensibilità della comunità internazionale verso la tutela effettiva dei diritti della persona, ovunque ciò si renda necessario, ha condotto alla messa a punto di nuovi strumenti d’azione: da un lato, l’istituzione di appositi tribunali internazionali, come il Tribunale istituito dall’ONU all’Aja per la persecuzione dei crimini umanitari commessi nel corso del conflitto in Bosnia,e più di recente il Tribunale Penale Internazionale istituito con il Trattato di Roma nel 1998, ratificato da 106 paesi (fra i quali, tuttavia, spicca l’assenza degli Stati Uniti d’America, l’India, la Cina e Israele), con il compito di perseguire i soggetti che si rendano responsabili di efferati crimini contro l’umanità (crimini di guerra, genocidio) anche quando questi siano Capi di Stato al potere, ma con il grave limite di poter agire soltanto quando i tribunali nazionali non siano in grado di farlo; dall’altro, la c.d. “ingerenza umanitaria” che prevede anche il ricorso alla forza per impedire il perpetrarsi di ripetute e sistematiche violazioni dei diritti umani (l’intervento NATO in Serbia nel corso del 1999 ne rappresenta un esempio, oppure quello attualmente in corso in Afghanistan).
Sulla opportunità e sui poteri di questi strumenti giurisdizionali, nonché sulla loro efficacia molto si è discusso e si può discutere. L’istituzione della Corte Penale Internazionale costituisce un salto di qualità decisivo nel campo della effettiva persecuzione delle più gravi violazioni dei diritti umani e nel suo primo anno di attività, il 2007, ha già ottenuto significativi risultati. Essa costituisce già un caso di studio su cui si stanno sviluppando riflessioni e proposte per il miglioramento dell’efficacia della sua azione. Particolarmente significativo è il monitoraggio compiuto di recente dall’Human Right Watch che ha pubblicato un articolato e voluminoso rapporto nel luglio 2008 dal titolo Courting history. Un rapporto fondato su uno stretto e continuativo monitoraggio dell’attività della Corte maturata sul campo, insieme ad un gruppo ampio di Ong riunite nel consorzio Coalition for the International Criminal Court (CICC), che termina con una serie di raccomandazioni alla Corte particolarmente incisive. Occorre ricordare che sono passati quasi 4 anni fra l’approvazione del trattato che ha istituito la Corte e il suo concreto avvio (luglio 2002). I primi 18 giudici della Corte sono entrati in servizio nel marzo 2003, mentre la pubblico ministero, Luis Moreno-Ocampo, è stato eletto dagli Stati che hanno ratificato il trattato nel giugno 2003. Dalla sua entrata a pieno regime, la Corte ha aperto casi giudiziari nella Repubblica Democratica del Congo, nel nord dell’Uganda, nella regione del Darfur in Sudan e nella Repubblica Centroafricana. Queste indagini, tutte compiute in aree ad altissima instabilità politica e talvolta in condizioni di aperto conflitto, hanno portato ad accuse circostanziate contro 12 persone ritenute responsabili di crimini terribili che sarebbero rimasti totalmente impuniti senza l’attività della Corte. Ad oggi, quattro di questi soggetti sono sotto custodia della Corte all’Aja. Le incriminazioni non sono gli unici successi della Corte. Ad esempio è degno di nota il fatto che la Corte, nonostante le molte difficoltà, sia riuscita ad istituire degli uffici locali in ciascuno dei quattro paesi in cui ha svolto finora la propria attività investigativa al fine di mantenere costanti contatti con le vittime, con i testimoni e con le comunità coinvolte. La Corte ha inoltre svolto una intensa attività di informazione circa il mandato della Corte stessa e il suo lavoro nelle comunità coinvolte, all’interno dei campi profughi, fra le persone fuggite dai propri villaggi e nelle zone più periferiche dei quattro paesi. Alcuni testimoni hanno potuto continuare la propria collaborazione nelle indagini grazie alla protezione offerta loro dalle strutture della Corte. Le vittime del Darfur, Uganda e Congo hanno deciso di fidarsi della Corte e hanno accettato di partecipare ai procedimenti giudiziari previsti dalla Corte. Gli avvocati della difesa hanno a loro disposizione uffici indipendenti e finanziati dalla Corte in modo da consentire loro di garantire ai loro clienti i diritti contemplati nella Dichiarazione del 1948. Naturalmente ci sono stati anche errori e fallimenti. La decisione del Tribunale nel giugno 2008 di fermare il procedimento contro il congolese Thomas Lubanga – sospendendo così, di fatto, il primo processo in corso della Corte – a causa della impossibilità per il pubblico ministero a presentare alla giuria e alla difesa informazioni potenzialmente discolpanti raccolte in via confidenziale all’interno delle previsioni del Trattato di Roma, è senz’altro l’errore più grave, che ha portato peraltro alla scarcerazione dell’imputato. E’ il segno questo dell’eccessiva cautela con cui si è mosso il Procuratore generale della Corte, al quale tuttavia si è inteso rispondere con la richiesta di arresto del presidente del Sudan, Al-Bashir, accusato di genocidio nel Darfur, una richiesta che ha evidentemente più un obiettivo “politico” che giudiziario, nel senso che con questa richiesta (che evidentemente non sarà resa effettiva) si intende delegittimare politicamente e diplomaticamente il presidente del Sudan agli occhi della comunità internazionale (non bisogna dimenticare che, a causa degli enormi interessi economici che ha in Africa e in Sudan in particolare, Al-Bashir può contare sul sostegno della Cina), con un conseguente effetto anche giudiziario. Ma è anche evidente che l’efficacia del mandato della Corte Penale Internazionale è anche condizionato dall’effettiva capacità di svolgere ruoli di peace-keaping e di peace-enforcing da parte del più vasto sistema delle Nazioni Unite, come dimostra l’incapacità del Segretario Generale dell’ONU di ottenere dai vari paesi membri un numero sufficiente di truppe per garantire la protezione alle migliaia di profughi del Congo, fatto che certamente non aiuterà l’azione della Corte Penale Internazionale.
Tuttavia, la sua esistenza e i suoi successi costituiscono un elemento di garanzia e di effettiva implementazione dei diritti proclamati nella Dichiarazione del 1948 che, appunto, devono essere concepiti in senso progressivo tanto nella loro ampiezza, quanto nella loro concreta applicazione. A sessanta anni dalla solenne approvazione della Dichiarazione, la lunga marcia dei diritti è ancora in movimento.