di Andrea Bigalli e Ilaria Donatio
Un contributo a due voci sul rapporto fra fede e Chiesa, fra il potere dato dal ministero sancito dal sacramento e il rapporto con i fedeli, sulle contraddizioni e le «debolezze» della Chiesa e sulla sua capacità di accogliere ed esaltare le diversità. Il riferimento alla lezione di Ernesto Balducci, che su queste questioni ha proposto un’innovativa e coraggiosa riflessione.
Il Dio che si rivela
Parrà al lettore distinzione oziosa, ma a livello biblico – e, di conseguenza, per me anche sul piano esistenziale – si traccia distinzione attenta tra sacro e santo. Il Dio che si rivela al popolo ebraico è una divinità che educa i suoi ad una relazione fondata sull’amore, attraverso cui superare la distanza tra Creatore e creatura: una distanza che può essere intesa come sconcerto, terrore, impossibilità di stabilire un rapporto che esca dalla logica del potere esercitato da chi è di più, rispetto a chi è minore. Tale dinamica pedagogica si specifica nel Nuovo Testamento, in cui il Cristo demolisce l’idea di separazione tra sacro ed umano incarnando l’Eterno e l’Assoluto nella fatica e nella pienezza dell’esistere umano: è l’amore che rivela il Divino, in un tempo limitato e talora doloroso che non è Eterno. Quando Gesù muore si lacera il velo del Tempio, quello che separava il Santo dei Santi dal resto del Tempio e del mondo. La dinamica di servizio, da Gesù sempre vissuta come espressione di una logica opposta a quella del potere, trova il suo culmine nella morte di croce: non è solo la Resurrezione che rivela il suo essere Dio, ma anche il modo con cui ha deciso di vivere la sua esistenza, verificata proprio nel suo risultato ultimo, dice della possibilità di divenire figli del Dio vivente, eredi della sua vita che è oltre la morte. In Gesù di Nazareth conosciamo un Dio presente, familiare, da chiamare con un termine affettuoso e tenero (Abbà, babbo) nella volontà di vivere pienamente i nostri giorni e segnarli di una compassione capace di cambiamento ed evoluzione. Il Dio vicino di cui non aver paura, che consegna alla nostra responsabilità la necessità di evitare il male e vivere la propria dignità di persone nel modo più umano, più amorevole e, quindi, divino.
Questo il dettato biblico, almeno come te lo interpreti tu, mi direte. E il piano esistenziale?
Se Dio è cosi come ce lo ha narrato (Giovanni nel suo Vangelo scrive: «ne ha fatto l’esegesi») Gesù di Nazareth, a noi viene chiesto di vivere di conseguenza. Difficile costruire, a partire da tali presupposti, una teoresi sulla differenza che esisterebbe tra uomini e donne che acquisiscono potere per il loro essere separati dal resto del mondo, come una casta religiosa, e tutti coloro che vivono, di conseguenza, una vita incompleta, non così significativa come quella di chi si è consacrato direttamente a Dio ed esprime ciò in una determinata serie di atteggiamenti. In altri termini: il Dio incarnato conosciuto in Gesù di Nazareth, il Cristo, chiede che si viva una dimensione di servizio al mondo, che si traduce innanzitutto nello spogliarsi da presunte superiorità e dai privilegi conseguenti.
Ho sempre cercato di concepire il mio presbiterato, il ministero, sancito da un sacramento, che mi compete, attraverso l’immagine del Cristo servo, piuttosto che di quel prete padrone che resta, almeno in Toscana, nella memoria collettiva arcaica, che annotava il potere ecclesiastico nel possesso di terre gestite in maniera non dissimile da tutti gli altri padronati che si era costretti a subire in altri contesti… in tal senso, la differenza dei preti emergeva di rado. Che io riesca a esprimere questa diversità, che abbia saputo spogliarmi di una identità che continua a contemplare il «don» nella sua radice semantica (dominus, padrone), è tutto da vedere ed oggetto di grandi riflessioni, da parte mia. Ma se si vuol valutare quanto si ritiene, si agisce, si elabora, si ha sempre bisogno di mettersi in relazione con altro da sé.
Ilaria Donatio è una giovane giornalista, autrice di reportage spesso dedicati alla Chiesa Cattolica. Lei stessa si presenterà, parlerà da sé (“ha l’età, chiedetelo a lui” diranno i genitori dell’uomo nato cieco nel vangelo di Giovanni). Io l’ho conosciuta presentando a Firenze un suo recente libro, «Opus gay», dedicato alla condizione delle persone omosessuali nella Chiesa, libro che ho molto apprezzato. Per realizzare questa inchiesta, Ilaria ha contattato molti sacerdoti, con diversi atteggiamenti pastorali, vari stili di approccio alla varia umanità che tesse, nella concretezza dei giorni e degli incontri, la realtà del ministero pastorale. Ho pensato che sarebbe stato interessante parlare di cosa significa essere un uomo o una donna del servizio di fede, alla fede, con una persona come lei, di cui ho molto stima. Ilaria ha acconsentito a questa conversazione. Non posso non ringraziarla fin da adesso, per questo suo essermi specchio, per le provocazioni, le chiamate a pro, a favore, che vorrà rivolgermi e rivolgere alla mia comunità, che è parte integrante (anche se qui silente, se non per mia voce: comunque mia famiglia, anche nel senso di sopportazione – loro nei miei confronti – e di supporto, reale, per cui li ringrazio col cuore) di questo conversare.
La parola a Ilaria
“Mi ha fatto molto sorridere la tua proposta: non perché non prenda seriamente e nel massimo rispetto una riflessione sugli «uomini di Chiesa» ma, al contrario, per la consapevolezza che il mio percorso personale -tortuoso quanto basta – sembra ricondurmi sempre nello stesso punto: all’ecclesia e ai suoi ministri. Più io, negli anni, provavo a prenderne le distanze, alla ricerca di soluzioni al singolare -autenticamente mie- più mi imbattevo in esperienze di condivisione, comunitarie: i preti erano, naturalmente, sempre in mezzo!
E proprio da un sacerdote sono stata cresciuta: è successo durante gli anni cruciali per la crescita di un bambino. Quelli in cui avviene il passaggio, delicato e bellissimo, alla pre-adolescenza: gli anni della formazione, nel senso più originario del termine. Che allude esattamente alla conquista di una «forma», propria, originale e unica. Questo sacerdote non era affatto “allineato»: oserei definirlo, con uno sguardo retrospettivo, anticonvenzionale, ma al tempo stesso, rigoroso e attento. È stato il primo riferimento adulto -che io fossi pronta a recepire – ad avermi insegnato concretamente il significato di educare: quello etimologico, di «condurre fuori» e, dunque, inteso nel senso di contribuire a liberare qualcuno, a fornirgli gli strumenti perché vada avanti da solo. E a non costringerlo entro il perimetro della propria comunità (compresa quella culturale).
Poi, come accade spesso, i percorsi di vita sono sempre più accidentati delle loro premesse teoriche: così, se è vero che a quel prete io devo, oggi, qualità critica e autonomia di pensiero, allo stesso modo, ho fatto mia un’educazione sentimentale piuttosto «indigesta», che richiede – tuttora – un enorme sforzo di adattamento nel mio stare al mondo. Questa lunga premessa spiega molte cose. Comprese le inchieste realizzate per Opus Gay, a distanza di anni: quel mondo in cui sono entrata per lavoro, proponendomi – senza riserve mentali – di indagare i (tanti) modi in cui la Chiesa cattolica si accostava (o meno) alla questione dell’orientamento sessuale, non era dunque un mondo sconosciuto. Si trattava, al contrario, dello scenario della mia infanzia (avendo studiato, tra l’altro, in una scuola cattolica dove avevo tra i professori, diversi sacerdoti). Certo, durante la scrittura del mio libro, ho fatto anche alcune scoperte, e la più importante ha sconfitto una mia antica idea: quella secondo cui la Chiesa, in fondo, fosse più monolitica e meno disposta alla «contaminazione», delle singole persone, uomini e donne, che la animano. E invece, ho scoperto una Chiesa contraddittoria, proprio perché umana; accogliente, nel sapersi mostrare anche debole; plurale, quando riesce ad esaltare le diversità che la abitano, rinunciando a percepirsi come corpo unico, impegnato nella storica funzione di controllo sociale.
Per la mia esperienza, la Chiesa diffusa – attraverso i propri ministri – si gioca una scommessa importante: che rischia anche di vincere. Questa scommessa investe direttamente la capacità degli uomini che si mettono a suo servizio, di interpellare le coscienze di noi laici. Smettendo di solleticarne l’emotività. La disponibilità di aiutarci ad essere, per l’appunto, laici e non (solo) fedeli: questo vuol dire condividere una visione della fede, adulta, come scelta consapevole – fatta, dunque, secondo coscienza – che nessuna sacertà potrà mai ostacolare né rendere indisponibile.
Penso alla frase, bellissima, di Paolo VI: «La Chiesa è esperta di umanità». Se questa osservazione fosse vera, allora vorrebbe dire due cose: che anche il prete, come uomo, ha lo stesso mio «tormento della libertà», mentre andrebbe messa in discussione la nostra percezione del sacerdote come uomo che rappresenta la norma e che sceglie, consacrando la vita a Cristo, di rinunciare a misurarsi con i limiti della libertà. Che significa anche libertà di decidere tra il bene e il male. E libertà di scelta (laica). La seconda cosa è soprattutto un invito. Sono stata, spesso, testimone di un atteggiamento purtroppo ricorrente nei presbiteri: quello di ispirare nei fedeli una certa paura del mondo. Ecco, credo che per vincere la famosa scommessa, l’uomo di Chiesa si debba concedere – a sua volta – un vero atto di fede. Nel mondo e nella sua umanità. Per recuperare il senso profondo dell’essere un «pastore» che guida uomini e donne come lui. Con un di più di responsabilità ma anche di libertà.
Ripassare dalle parti del cuore
Ilaria ha scritto cose preziose, mi ha scritto parole che scavano e fanno andare la dinamica del ricordare: come chiosa Eduardo Galeano a partire dall’etimologia, recordis, ripassare dalle parti del cuore. Perché sull’immediato ho fatto una riflessione proprio sul livello della memoria. Tante persone che hanno tessuto il tempo del mio ministero e tante più giovani di me: e per quanto io sia riluttante ad assumere un ruolo educativo, almeno secondo le dinamiche usuali («Tu che sei una guida, ricordati che tale sei perché hai imparato a dubitare delle guide», Bertold Brecht), devo fare i conti con questa prospettiva del formare, del dare elementi – e condividerli – per la costituzione di una forma possibile di identità o le prospettive del suo definirsi. In questa dinamica, peraltro, ho colto molto del senso di quanto ho vissuto come formatore, come responsabile dei percorsi di formazione per obiettori di coscienza e giovani in servizio civile e di educazione alla legalità, come insegnante, come membro di «Libera»: associazioni, nomi e numeri contro le mafie -, come parroco di una comunità che si pone il progetto comune dell’educazione di bambini ed adolescenti, alla fede ma non soltanto ad essa. O meglio, alla fede per la vita, da vivere bene ed in pienezza, ed una vita da pensare soddisfacente e felice anche senza fede apparente, identità teista dichiarata. Perché questa cosa bellissima che scrive Ilaria per me è fondamentale, e noto in questo suo passaggio il senso di una sintonia importante, perché condivisa da tutti coloro che si riconoscono in un certo modo di intendere e vivere il vangelo: la vita come un atto di consacrazione al mondo attraverso l’amore, come ha fatto Cristo Signore, venuto nel mondo non per giudicare, ma per salvare il mondo. Da questo punto di vista è davvero darsi al mondo il consacrarsi a Dio. La Chiesa che ci fa fare più fatica, che si scava fossati intorno, è quella che continua a demonizzare il mondo definendo un fuori e un dentro rispetto a sé, sacralizzandosi a scapito di ciò che non riguarda la propria realtà: determina il valore assoluto della propria dimensione negando l’azione divina che anima il mondo e gli umani. Lo Spirito agisce attraverso l’ecclesia, certo, ma non in maniera assoluta ed esclusiva. La svolta del Concilio Vaticano II a riguardo, non sviliva la sua importanza di via straordinaria (nel senso di immediata, più in là rispetto alle modalità meramente creaturali) alla salvezza, ma la collocava in chiave sacramentale rispetto alle altre dimensioni umane di ricerca di senso ultimo e definitivo: attraverso il Vangelo si comprende cosa nell’umano conduce a vivere pienamente e, in quanto custode della Parola, la Chiesa riceve un dono di discernimento che la rende preziosa. Ma pensare che il divino si articoli nell’esistenza umana solo attraverso la comunità dei credenti corrisponde ad una sorta di fariseismo: la sicurezza di essere i detentori della gestione della volontà divina attraverso il possesso della conoscenza della Legge conduce a discriminare, escludere, creare gerarchie, allontanare. Non è un caso se la reazione di Gesù all’egemonia culturale dei farisei non si limita all’argomentazione contraria alle loro tesi, ma corrisponde ad una pratica di fuoriuscita, di ricerca di «ciò che era perduto» secondo la sensibilità di alcuni, che attribuivano a Dio le categorie di giudizio che erano loro proprie. In tal senso il Cristo compie atti dirompenti, di rivolta etica, catalogabili come frutto di follia: la (apparente) trasgressione del sabato, la consuetudine con pubblicani e prostitute, soprattutto, per la forza del gesto, il toccare il lebbroso incontrato in quel fuori a cui lo hanno condannato le autorità del sacro. Il superare il tabù della malattia, di ciò che viene scartato e rubricato come pericoloso, pur di incontrare, conoscere, amare, sanare.
Le icone del rinnovarsi
Ho sempre cercato di essere fedele a questa dinamica, sempre stupefatto per la forza di questa intuizione sul valore di ciò che è al di là, oltre e altrove, ma comprensibile all’esterno delle proprie sicurezze, delle strutture con cui difendersi dalla realtà, dal suo sovente ingombrante disagio. E proprio sul confine dei tanti limitare che ho frequentato, ho scoperto molto del Dio di Gesù Cristo; ed ho gustato il sapore della speranza di risorgere con Lui. Perché dove si incontra la contraddizione alla vita, si identificano anche le icone del rinnovarsi, del mutare, dell’evolvere oltre la vita. Talvolta ciò è accaduto anche contro la Chiesa, le Chiese. Per quanto esse rifiutano e stigmatizzano come errato e disordinato; e per l’atteggiamento di alcuni che operano cose bellissime ma contro molto, compresi i poteri ecclesiali. Devo dire che ho patito più senso di estraneità in alcuni ambienti cattolici che in ambiti che venivano segnalati come anticlericali o comunque molto critici. Non nego che essere un prete ha significato talora essere guardato con assoluto disprezzo in alcuni consessi. Ma è accaduto raramente. Forse è più difficile render conto della mia fatica a mettermi in contatto con gli ambienti di quella che forse fatichiamo adesso a definire «borghesia». Non so se sono classista, di certo sono orgoglioso dei miei, un babbo impiegato e una mamma sarta, per quello che si sono conquistati ed hanno trasmesso, in gusto per la cultura e la giustizia in una prospettiva di fede: mi pesano gli ambienti in cui emergono le differenze e le si sottolineano con la durezza del privilegio. A volte mi chiedo della mia identità: in alcuni contesti mi si guarda con sospetto, perché per quanto non codificabile, sono pur sempre un prete; in altri, non lo sono comunque a sufficienza… Non ho mai sopportato le strutture di giudizio, i consessi benpensanti: credo nelle dinamiche della tenerezza, che aiutano a sospendere il giudizio ed entrare nella prospettiva dell’accoglienza. Chi sa accogliere finisce con l’essere capace di accogliere anche se stesso, in limite ed in fragilità, senza cedere alla tentazione di rimanere come si è o compiacersi delle proprie mediocrità… Fragilità, ecco una parola importante. La chiesa sarebbe molto più efficace nel proprio ministero, se fosse capace di esternare questo senso di bisogno: in primis della misericordia divina, poi dell’aiuto di tutti per poter vivere gioia e fatica dell’annuncio dell’amore da vivere, della libertà conseguente. Su alcune tematiche dovremmo dire la volontà di compagnia e di compassione più che l’ansia di giudizio, consapevoli della difficoltà di valutazione su alcuni temi etici, sulle realtà di sofferenza così numerose, articolate, complesse… Si può far propria la dichiarazione dell’apostolo Paolo (in 2 Corinzi 1,24): «Noi non intendiamo far da padroni sulla vostra fede; siamo invece i collaboratori della vostra gioia, perché nella fede voi siete già saldi». Qualcuno dirà: ma vale per quelli che sono saldi nella fede, alcuni vanno aiutati… la macchina per misurare la fede non esiste: l’unica misura è determinata dal sapere che deve crescere, per tutti. Resta, saldissimo, il principio della coscienza. A riguardo posso dire – con piena consapevolezza dei miei limiti e delle mie miserie, che qualcuno hanno fatto soffrire – che una delle essenze del cristianesimo è lo spirito critico, costruttivo e benevolo, e come tale anch’esso va fatto crescere, istigato, suggerito, educato…
Il sogno impossibile di Ernesto Balducci
Vorrei in conclusione rendere omaggio ad un grande uomo di Dio, un compagno dell’ansia e dell’inquietudine degli esseri umani, sicuramente un grande collaboratore della loro gioia, a cui dobbiamo le pagine su cui scriviamo. Le sue parole (notissime) che riporto di seguito mi hanno sempre suscitato una grande pace interiore, pur nel fuoco del necessario e del giusto. Le cito con profonda gratitudine: se sono ancora cattolico e prete di certo è anche merito suo. Chiudo questo articolo in un momento particolare, nei giorni che seguono l’esito dei quattro referendum del 12 e 13 giugno 2011: una campagna referendaria vissuta come portavoce regionale (tra altri) di quelli per l’acqua bene comune, contro i principi neoliberisti della privatizzazione dei beni essenziali (e qui ci sta bene per inciso, per quelli che si chiedono cosa c’entra un prete in queste cose, un’altra citazione che faccio spessissimo: «Dobbiamo farne di mestieri, noi che viviamo della nostra fantasia». Francesco Guccini, Keaton, da Signora Bovary). Dico ad Ilaria – e le sono riconoscente per la grazia di questo ottimismo, io che a tratti mi scopro un po’ acido di disincanto – che davvero è una scommessa\sfida che rischiamo di vincere: quella per una società un po’ più decente, una chiesa che si converte all’umano più affaticato e dolente, perché le persone tornino ad interrogarsi ed agire per la propria dignità. Ernesto Balducci su questo era di una forza disarmante: è stato grande, tra l’altro, per questa capacità di illuminare d’intelligenza le speranze ed innervare di esse il nostro pensare. Capacità appresa sulle pagine della Parola e delle molte parole dell’umano.
«Le mie radici son rimaste in quell’isola sommersa in cui presi ad elaborare, attingendo alla terra dei padri , la trama simbolica del mio sogno, prima di fare i primi passi nella storia. Anche quando ho messo piede nei palazzi, fosse il Quirinale o il Vaticano, o mi sono seduto in cattedra su tribune prestigiose, mi sono sentito sempre altro, mi sono sentito guardato, mentre mi intrattenevo con la gente del potere o della cultura dominante, con un occhio segreto che mi teneva sotto controllo, impedendomi di civilizzarmi fino in fondo.
E bene hanno fatto gli uomini del potere a non fidarsi di me, che sono sempre stato un cospiratore, ostinatamente fedele a un sogno impossibile».