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Necessita’ (e solitudine) della “buona politica”
di Vannino Chiti

La buona politica è quella che si fonda sull’esigenza di relazionarsi con gli altri, di pensarsi non all’insegna di un “io individualista”, “io-prossimo” e di poter, così, contribuire a dar vita a istituzioni vitali e capaci di raccogliere le istanze della società.. Ma sempre più ci si sente soli in questa battaglia: solo superando l’indifferenza, coinvolgendo i giovani, stimolando la partecipazione si può recuperare il senso dei valori e la ricerca disinteressata del “bene comune” .

I pertugi del pragmatismo
Voglio avvertire subito i lettori di “Testimonianze”.
Questo articolo sulla buona politica non contiene certezze: è niente più che un riflettere, non a voce alta come si è soliti dire, ma in forma scritta.
Come si può definire oggi una buona politica?
Un primo requisito continua ad essere quello di ricercare il bene comune, non un interesse solo di parte oppure una ambizione personale fine a se stessa, scissa da ogni coerenza con il progetto generale giusto per i più.
Più difficile forse è definire oggi i contenuti del bene comune.
La caduta di quei regimi, che avevano promesso la liberazione delle persone ed avevano rappresentato invece una brutale soppressione della libertà e negazione della giustizia, è sembrata travolgere ogni ambizione della politica a cambiare e migliorare le società nelle quali viviamo. A ideologie fallite si è ritenuto di rispondere negando il riferimento a valori ideali. Nel campo progressista il pragmatismo, la concretezza sono divenuti i soli criteri per selezionare le classi dirigenti e validare l’efficacia delle proposte.
Il pragmatismo da solo non conduce da nessuna parte. Non rappresenta certo la cattiva politica ma apre pertugi dai quali essa può entrare.
La concretezza è necessaria in politica, ma è obbligatorio avere la consapevolezza di quali coerenze esistano tra il pragmatismo dell’azione e gli ideali ai quali ci si riferisce.
La politica, quella buona, deve tenere stretta la relazione tra il dire e il fare: i valori che si assumono, i progetti che si costruiscono, le attuazioni che di essi si riesce a realizzare.
Gli ideali, ciò che fonda una cultura politica e la rinnova, non nascono né crescono e si diffondono come i funghi, per annate di sole o di pioggia. Richiedono confronto, messa a punto rigorosa, impegno per costruirvi consenso e partecipazione attiva. L’assenza di questi riferimenti forti produce nel nostro tempo esiti clamorosi. Viviamo una crisi profonda, che scuote non un ciclo economico ma gli assetti di una specifica e datata organizzazione capitalistica del mercato, quella della finanziarizzazione dell’economia, del suo predominio sulla produzione; quella che vede il mercato espandersi e tentare di conquistare l’intera società; quella infine che produce dissesto ecologico e rischi di distruzione della casa comune dell’umanità, il nostro pianeta.
È davanti ai nostri occhi un altro fallimento gigantesco, quello del neoliberismo selvaggio, del rifiuto di ogni regola, con il quale le destre mondiali hanno preteso di governare la globalizzazione. Di fronte a questo fallimento politico e culturale sta però l’assenza di un progetto alternativo, che incarni gli ideali delle forze progressiste: quali regole per fare funzionare il mondo, oggi preda di disordine, guerre, terrorismo, ingiustizie, come il villaggio planetario, del quale ci parlava Ernesto Balducci?
Quali i compiti di una ONU riformata, che sia in grado di svolgere funzioni di intervento non arbitrario per la tutela, ovunque, dei fondamentali diritti umani; di spegnere, risolvendoli politicamente, i tanti focolai di guerra; di indirizzare riconversioni delle economie così da renderle più giuste, per i popoli e sostenibili per l’ambiente?
Quali passi, per quanto riguarda noi in questa parte del mondo, perché l’Unione Europea assuma pienamente una dimensione politica che la realizzi come grande potenza civile, in grado di essere protagonista di relazioni internazionali costruite per un destino di pace e in una cooperazione che assicuri traguardi di prosperità e dignità a popoli oggi colpiti da miseria, violenza, malattie da noi praticamente scomparse? Quale il ruolo da assegnare al potere pubblico, allo Stato nei suoi diversi livelli istituzionali – dalle città alle Regioni – per garantire e promuovere uno sviluppo che abbia in sé finalità sociali e non, al solito, una dimensione collettiva dei sacrifici e privata dei profitti? Quale infine una diversa gerarchia dei valori della convivenza, degli stessi consumi, che ci faccia superare lo scandalo persistente da un lato di sprechi accecati da un edonismo materialistico, dall’altro di povertà che impediscono una reale dignità di vita?
In fondo il solo porre queste domande, se non ci consegna certo un progetto, ci dà almeno un abbozzo di valori ideali ai quali potersi riferire: la pace; la non violenza; la dignità delle persone; la giustizia; uno sviluppo socialmente ed ecologicamente sostenibile; l’uguaglianza delle opportunità da assicurare a ciascuno.

Io individualista o “io-prossimo”?
L’organizzazione democratica della società serve a dare una risposta a questi bisogni: al livello di queste sfide occorre affrontare la riforma degli Stati nazionali, ripensare la costruzione della dimensione politica dell’Unione Europea, non indietreggiare di fronte ad accuse sommarie di essere astratti sognatori nel definire per l’ONU un compito “in embrione” di governo mondiale. Al tempo stesso è necessario avere il coraggio di affrontare una tendenza, oggi sottovalutata, all’impoverimento della democrazia anche nei paesi avanzati, dietro il concentrarsi oligarchico di poteri economici e finanziari; l’affievolirsi dell’autonomia dei media; la privazione dei diritti politici per milioni di persone. Sì, nelle società occidentali ci sono milioni di immigrati, che legalmente vivono e lavorano, ma non hanno diritto di voto nelle elezioni, neppure in quelle amministrative: sono dunque espropriati della pienezza dei diritti di cittadinanza. La conseguenza è una maggiore fragilità e debolezza della democrazia.
È una illusione pensare di costruire una nuova cultura politica, che affermi regole per l’economia e le relazioni tra i popoli, riservando invece al campo della morale, dell’etica individuali l’assenza di ogni vincolo e responsabilità.
Le forze progressiste perderanno il confronto per l’egemonia, che è aperto nella società, se non si libereranno di ogni sudditanza all’io individualistico, egoista, che decide per sé e tenta di affermare – magari con ogni mezzo – ciò che più gli piace.
L’io ricco di umanità e che dà senso alla sua vita è quello capace di relazioni con gli altri, di più che ha bisogno di relazioni con gli altri, che non sa pensarsi solo come io, come una monade, ma che si pensa e si realizza come io-altri, io-prossimo, per usare una espressione di valenza religiosa.
La buona politica è quella che si fonda su questa esigenza, la fa propria e contribuisce a dar vita ad un ambiente sociale, a istituzioni capaci di creare le condizioni migliori perché essa si realizzi, perché sia avvertita come un valore portante di una convivenza più alta.
Libertà e responsabilità; diritti e doveri devono essere tra loro inseparabili: su questo nesso si può fondare un nuovo patto di cittadinanza, capace di includere tutti, alternativo a concezioni che fondano l’avvenire della società sulla paura e la discriminazione dei diversi.
La buona politica non teme la ricerca scientifica, le sue conquiste ma non si fonda su una visione acritica del progresso: sa che non tutto ciò che è possibile, è buono per l’umanità.
Garantisce l’autonomia della scienza. Chiede agli scienziati di avere a cuore, nella loro responsabilità, il primato della persona e della sua dignità e che in coerenza con questi valori si sviluppi la ricerca. Esige che l’applicazione delle conquiste scientifiche sia valutata e decisa sul terreno della democrazia, attraverso una assunzione di responsabilità da parte delle istituzioni, tenendo fermi il criterio di precauzione e quello di reversibilità per l’umanità e il pianeta rispetto a esiti eventualmente non positivi. La buona politica avverte di doversi misurare con un mondo, intorno a noi, e con lo stesso nostro corpo, nei quali prevalgono sempre più i caratteri di artificialità, cioè i portati delle conquiste realizzate dall’uomo e le potenzialità di suoi interventi, anziché quelli di immodificabilità che per secoli ci hanno accompagnato.
Di fronte a novità tanto sconvolgenti ci sono spinte a guardare indietro, a rifugiarsi nel passato; altre che sconsideratamente assolutizzano ciò che si presenta come inedito, senza inserirlo in un quadro di garanzie democratiche e di certezze etiche.
I primi pensano di sostituire alla libertà e responsabilità di scelta delle persone il ruolo dello Stato, senza forse rendersi conto che per questa via si giunge allo Stato etico o confessionale.
I secondi risolvono le sfide racchiudendo ogni decisione nella esclusiva dimensione dei voleri dell’io, liberato da ogni responsabilità sociale, pensando che una società di monadi egoistiche sia non una giungla dove si affermano i prepotenti ma una società più giusta ed avanzata.

La buona politica porta alla solitudine?
Ho delineato schematicamente alcune grandi e complesse questioni, che dovrebbe sapere affrontare la buona politica. Penso che così ci si renda meglio conto delle ragioni, non solo in Italia ma temo ancor più in Italia, della sua solitudine.
Avrebbe bisogno di concentrare intelligenza, passione, energia attorno a questioni di un tale rilievo ed invece si trova costretta ad applicarsi negli scontri domestici, ad essere prigioniera della autoreferenzialità degli schieramenti, dove la dichiarazione estemporanea di un esponente di partito, di sindacato, di associazione imprenditoriale in cerca di visibilità conta più dei problemi di vita delle persone, del loro diritto alla formazione, al lavoro, alla casa, alla salute, a istituzioni democratiche efficaci.
Avverte la necessità di ridefinire i valori ideali, per restituire speranza, fiducia nel futuro senza di cui ogni impresa per migliorare il mondo diviene un vano sogno ed invece non trova neppure le sedi nelle quali questo approfondimento, che definisce identità forti e sicure, possa avere luogo.
Intanto l’egemonia nella società, per un deficit delle forze progressiste, rischia di essere conquistata dalla destra di Tremonti che, tra gli applausi entusiastici dei mezzi di informazione, propone di governare la globalizzazione e il XXI secondo la triade “Dio, patria, famiglia”, brillantemente restaurata dalle nebbie dell’Ottocento.
Si sente sola, la buona politica, perché avverte che anche chi guarda a lei con convinzione, si smarrisce talora e si confonde dietro al mito del successo ad ogni costo.
È evidente che la politica non è testimonianza: per attuare i propri ideali, i propri progetti in democrazia occorre vincere le elezioni e governare. Ma per vincere non si può perdere se stessi, assumere i metodi di far politica degli avversari, delle destre; intrecciare politica e affari, darsi ad operazioni di tipo clientelare, assumere una gestione del potere disinvolta, non come servizio ai cittadini e strumento per obiettivi validi, ma come risposta ai propri interessi particolari.
Anche quando non sia penalmente un reato, una presenza nelle istituzioni che non si accompagni ad uno stile sobrio e rigoroso costituisce un’offesa a quegli ideali che devono segnare ogni forza progressista. Nessun fine giustifica più i mezzi che si utilizzano. Fine e mezzi devono autonomamente avere un loro fondamento etico. In caso contrario si è venuti meno ad un dovere di coerenza.
La buona politica soffre di solitudine perché sta indebolendosi la partecipazione. Avrebbe bisogno di grandi partiti democratici, nei quali funzioni la democrazia nelle decisioni e si costruiscano inediti rapporti con gli iscritti e gli elettori. Non partiti che si sciolgono in dieci minuti come Forza Italia e che vivono senza congressi. Non partiti a gestione “autoritaria-personale” come la Lega Nord o l’Italia dei Valori.
Partiti veri, robusti, radicati sul territorio, ma capaci in alcune fasi di coinvolgere nelle scelte i cittadini che si riferiscono a loro.
Le primarie possono rappresentare questo strumento, se non vengono trasformate da strumento dei partiti per allargare la partecipazione, in una nuova forma partito, attraverso una miriade di candidati, l’un contro l’altro armati, che presentano programmi per se stessi; che assumono di fatto la direzione del partito, con organizzazioni a loro sostegno, che finiscono per snaturarlo: da associazione volontaria per sostenere idealità e progetti a pura registrazione di avvenimenti esterni, da esse determinati, al di fuori di regole trasparenti, stabilmente assunte e non modificabili in corso d’opera. Così i cittadini di cultura progressista si allontanano: sono le diverse schiere di “fedeli” ad avvicinarsi.
La buona politica soffre la solitudine ancor più perché si regge su di una democrazia che esige la partecipazione, non soltanto nel momento decisivo del voto. Intorno a noi invece le istituzioni si allontanano dai cittadini. Colpa in primo luogo di leggi elettorali che ci consentono di scegliere un partito, votando la sua lista, ma non i nostri rappresentanti nelle istituzioni. Le liste sono bloccate: in Toscana 38 candidati alla Camera e 18 al Senato. In Lombardia al Senato sono addirittura 47 e in Campania 30.
Così gli eletti si allontano dal territorio, dal rapporto con i cittadini: la virtù da coltivare diverrà sempre più quella di essere vicini a quanti dirigono i gruppi parlamentari ed i partiti.
Non si vogliono le preferenze, anche in considerazione del fatto che sono poco in uso in Europa? Ci sono altre vie tra le quali scegliere: collegi uninominali; collegi con 4-6 candidati. In entrambi i casi sono praticabili le primarie, perché previste e rese obbligatorie per legge.
Mi ha personalmente rattristato che la Toscana abbia scelto nella passata legislatura una pessima legge elettorale, di fatto a lista bloccata, ed un aumento del numero dei consiglieri regionali. Non ha giustificato certo il “porcellum”, come uno dei suoi promotori definì la legge nazionale per le elezioni politiche: la destra usa in modo strumentale questo riferimento.
Non è credibile dal momento che della Toscana prende in considerazione solo i pochi, cattivi esempi. È alla Toscana che penso, non alle disinvolture cui la destra ci ha abituato.
La Toscana è una delle regioni nelle quali è più forte quel senso civico, che è dato dalla voglia di dedicare un po’ del proprio tempo alla comunità, di interessarsi ai problemi di tutti.
È ciò che rende questa terra più coesa, civile, avanzata. È quello di cui il paese ha più bisogno. È stato un errore indebolire il rapporto tra cittadini e istituzioni: mi auguro che venga corretto.
Un sistema politico-istituzionale funziona con efficacia non se mi salvo con regole valide sole per il partito del quale faccio parte – nel caso toscano primarie volontarie e inevitabilmente non proprio vincolanti – ma se quelle regole condizionano tutti, anche i miei avversari, a sviluppare un più stretto collegamento con i cittadini.
La democrazia è un valore che si realizza pienamente solo se si estende all’insieme della società e se coinvolge tutti gli attori – partiti, associazioni, cittadini – in forme sempre più incisive e reali per viverla.

L’esempio di Calamandrei
Quale è allora la conclusione? La buona politica è destinata a morire di solitudine?
Non è così e guai anche soltanto a pensarlo. Sarebbe un peccato laico di presunzione elitaria e di superficialità.
È vero che a volte chi si impegna nella politica può sentirsi isolato, più che per le idee sostenute, per la visione prevalente che c’è verso la politica stessa e i partiti. Giudizi sommari, luoghi comuni, accuse generiche e indistinte ottengono come solo risultato quello di allargare ancora i fossati, di tenere lontani i giovani. I luoghi comuni sulla politica aiutano a vincere quella cattiva. Così come ne sono complici quei cedimenti che la giustificano come veicolo di modernità, via concreta per incontrare, oggi, il popolo in carne ed ossa.
Per rompere una solitudine occorre suscitare un impegno serio, nei cittadini e con particolare urgenza nei giovani.
Non si tratta di seguire come modello la volgare critica alle istituzioni della democrazia portata avanti da un Grillo, ma fare piuttosto riferimento ad un grande protagonista della buona politica come Piero Calamandrei.
Giurista, costituente, poeta della Resistenza, uomo politico.
In un discorso straordinario del 1955, un anno prima di morire, tenuto a Milano agli studenti universitari e medi, Calamandrei ci dà una indicazione per cambiare l’Italia e restituire grandezza alla politica: il valore della Costituzione, la carta della nostra dignità e libertà; le sue radici permanenti nella Resistenza e dunque il suo rifiuto di ogni dittatura e totalitarismo; la necessità dell’impegno da parte di ciascuno di noi, in quanto cittadini.
Niente giustifica la non partecipazione alla politica. Se la politica è prevalentemente cattiva e rende marginale o irrisa quella buona, è prima di tutto responsabilità nostra come cittadini. Il nostro impegno, il nostro dovere di informarci, dire la nostra, partecipare, scegliere renderebbe la politica migliore, le istituzioni più vicine ai cittadini, gli eletti con il nostro voto più competenti, rigorosi, coerenti.
Il nemico più grande non solo della buona politica ma della stessa Costituzione è l’indifferenza.
L’indifferenza priva la Costituzione della sua vita, non la fa attuare ma la rende un pezzo di carta.
Ecco allora la sfida di fronte a noi: battere l’indifferenza.
Delegare ad altri, disinteressarsi, essere disimpegnati non è una virtù. La virtù civile e democratica è dedicare momenti del proprio tempo ai problemi di tutti, alla vita della comunità