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Montezuma in Europa, metafora di un “cinquecentenario” rovesciato
di Stefano Zani

In Montezuma scopre l’Europa, Ernesto Balducci pone in relazione vari piani della ricerca storica su un tema fondamentale, quello del confronto con l’Altro in occasione della scoperta dell’America. Nelle dinamiche di quell’incontro mancato, la Spagna, la Chiesa e l’Europa mettono a nudo il loro volto, fondato su una cultura di dominazione. Non c’erano, quindi, motivi di celebrazione del cinquecentesimo anniversario dell’avventura colombiana che avrebbe dovuto essere, anzi, l’occasione per una riflessione sull’Europa e sulla crisi del suo modello di sviluppo.

Studioso e militante della fede evangelica

Quando il giudizio morale non si accompagna al paziente lavoro della ricostruzione dei fatti e anzi, vi si sostituisce, esso diviene un’ideologia fuorviante; quando invece si accompagna a una solida ricostruzione della realtà esso ci mette in grado di cogliere le tendenze più profonde di cui è gravido il presente e si trasforma in lievito della storia stessa.

Nel bellissimo saggio, Montezuma scopre l’Europa, pubblicato pochi mesi prima della propria tragica scomparsa, Balducci dimostra appieno il proprio valore di studioso e di militante della fede evangelica che mette al centro la scelta dei poveri come forma di liberazione anche politica.

La sua compiuta saggezza gli permette, da intellettuale poliedrico e profeta appassionato, di armonizzare sapientemente i tre piani sui quali gli storici sono chiamati a cimentarsi: quello della ricostruzione dei fatti, quello della loro interpretazione, e quello della ricerca di un senso che permetta una non strumentale messa a servizio del passato rispetto al presente e al futuro. Pur non esimendosi da una scrupolosa ricerca della verità di adeguamento, intesa come ricostruzione esatta dei fatti passati, Balducci non si esime dallo stabilirne magistralmente un’integrazione con la verità di svelamento, che permette di cogliere il senso di un avvenimento.

Abbandonando alcune enfasi deterministiche alle quali gli capitava di indulgere nelle polemiche dei dibattiti (ne ricordo ad esempio uno con Luciano Lama, che si tenne nel periodo che andava tra il fallito vertice di Reykjavìk tra Gorbaciov e Reagan nell’ottobre 1986 sul disarmo nucleare, – in cui Balducci si lasciò andare a una spiegazione del mancato accordo in base «alle tavole di bronzo dell’economia» – e un successivo vertice che, smentendone le analisi a stretto giro di posta, portò ad un accordo inaspettato ed epocale sul disarmo atomico), nel saggio su Montezuma Balducci recupera la libertà dell’agire ai fini dell’imputabilità del crimine e della sottolineatura di quello scarto misterioso che vi è nell’uomo tra cause ed effetti, e che lo rende umano in ragione proprio di quello scarto, allo scopo di ridefinire un nuovo umanesimo che superi i difetti di quello peloso dei conquistatori, che si nutriva di un comodo agostinismo in cui si scinde dualisticamente l’interiorità dall’esteriorità e che ha fatto a lungo da ottimo paravento ideologico della colonizzazione.

Cerchiamo adesso di riordinare sommariamente la disposizione di questi tre livelli di indagine (ricostruzione fattuale, interpretazione e messa a servizio della storia), pur essendo piani che non si dispongono l’uno dopo l’altro, ma che nella sapiente trama del saggio di Balducci rinviano l’un l’altro senza soluzione di continuità fino a costituire un circuito armonioso di rara capacità persuasiva.

 

L’Alhambra, un tempio del futuro

Tale risultato è il frutto di una ricerca pluridecennale, come è testimoniato da un bellissimo articolo di Balducci del gennaio 1960 riportato nell’antologia che correda il saggio, intitolato L’Alhambra, un tempio del futuro. In quell’articolo, introdotto da una brevissima ma rivelatrice introduzione, Balducci sottolinea autocriticamente di essersi lasciato toppo andare ai «giochi un po’ troppo letterari dell’immaginazione», quasi a lasciare intendere che la «chiusura del cerchio», ovvero la scelta di classe, che avrebbe fatto circa un decennio più tardi, avrebbe dovuto implicare l’abbandono dei suoi precedenti vezzi letterari per abbracciare un compito ben più prosaico. Si tratta di un’asprezza autocritica (l’idea che la ricerca della bellezza vada sacrificata nella lotta per la giustizia e per la pace), alla quale per fortuna Balducci non si è attenuto con coerenza. In quell’articolo del 1960, dopo aver ricordato Francesco d’Assisi, che amò l’Islam ma che non riuscì a far germogliare il seme da lui gettato nell’animo di Isabella di Castiglia, Balducci auspica che «(…) i popoli potranno incontrarsi liberi dai risentimenti del passato» e che «(…) un giorno vengano dall’Oriente i figli della mezza luna e riprendano, come ospiti d’onore, le chiavi cedute dai loro padri».

Tra i motivi che portarono alla scoperta dell’America, Balducci sottolinea il bisogno di nuove entrate per sostenere il nascente stato moderno accompagnato dal desiderio di rompere l’accerchiamento dovuto all’enorme «massiccio islamico» che si estendeva dal Mediterraneo all’estremo oriente e impediva di raggiungere senza ostacoli non solo merci e metalli preziosi provenienti dall’Asia, ma anche di realizzare la cristianizzazione del resto dell’umanità. Nell’ottica privilegiata dell’analisi dei rapporti con l’Altro, Balducci evidenzia come in brevissimo tempo, e in una connessione non casuale, gli Spagnoli abbiano compiuto un triplice rigetto dell’Altro, ovvero degli arabo-islamici, degli Ebrei e degli Indios. Il 2 gennaio 1492, dopo dieci anni di assedio, i Re Cattolici accampati a poca distanza dall’Alhambra, in una località che fu significativamente chiamata Santa Fe, riuscirono ad espugnare l’ultimo bastione di resistenza degli arabo-islamici, attestatisi nel Regno di Granada dopo il precedente tentativo di cacciata dalla Spagna fatto con la crociata di Las Navas de Tolosa del 1212, ma soprattutto in segno di rivincita sulla presa ottomana di Costantinopoli del 1453. Il 31 marzo del 1492 il notaio Juan de Coloma, aveva steso su ordine di Isabella di Castiglia l’editto di espulsione degli Ebrei, il cui insediamento in Spagna risaliva all’inizio del IV secolo dopo Cristo. Gli Ebrei, tollerati dai Romani e dai Visigoti, furono perseguitati dal re Recaredo, convertitosi al cattolicesimo alla fine del V secolo; essi accolsero come liberatori gli Arabi, arrivati nel 711, che li autorizzarono a praticare la propria religione e le proprie leggi fatto salvo l’obbligo di pagare un’imposta al tesoro. La cultura arabo-ebraica ebbe il suo culmine nel XII secolo con l’ebreo Maimonide e l’arabo Averroè; la scuola di traduttori di Toledo fornì alle università d’Europa la traduzione in latino di tutte le grandi opere arabe ed ebraiche. Fu a partire dal 1233 che l’Inquisizione inaugurò «il costume dello sterminio, del rogo dei libri e dei battesimi forzati». Pare proprio che l’editto antiebraico cui seguì l’espulsione di ben 300.000 Ebrei e la requisizione dei loro beni siano serviti a sovvenzionare il viaggio di Colombo, che nel suo diario attesta uno stretto nesso tra l’espulsione degli ebrei e la sua avventura1. Perfino a bordo di una delle imbarcazioni di Colombo vi era un ebreo, Luis de Torres, che aveva la funzione di fare da interprete di arabo, armeno ed ebraico, cioè le lingue che Colombo prevedeva di incontrare in Asia. Obiettivo di Isabella di Castiglia, terziaria francescana, era una crociata per la conquista di Gerusalemme; ma ci voleva l’oro, e Colombo seppe cogliere il momento opportuno nel proporre la sua avventura, non senza prima concordare proprio a Santa Fe, il 17 aprile del 1492, di fronte allo stesso notaio Juan de Coloma che aveva steso l’editto di espulsione antiebraico, le Capitolazioni, con le quali otteneva l’investitura di Ammiraglio del mare Oceano e di Viceré e Governatore delle terre che avrebbe scoperto.

 

Scoperta o «invasione»?

Dal punto di vista dell’interpretazione della cosiddetta scoperta dell’America, Balducci sottolinea in primo luogo che non si trattò di scoperta, ma di una «invasione accompagnata da smisurati stermini», che costituì l’avvio del colonialismo come una delle condizioni decisive dell’avvento del mondo moderno. Inoltre, nell’ottica della sfida della diversità, Balducci sottolinea i pregiudizi di fondo (ruotanti intorno alla mancata consapevolezza della relatività delle culture) che impedirono un vero scambio tra le due umanità che si incontrarono il 12 ottobre del 1492: «per gli indigeni, i nuovi venuti avevano tutti i diritti in quanto dèi, per i nuovi venuti gli indigeni non ne avevano nessuno»2. A distanza di tempo le vicissitudini della storia hanno innescato una drammatica dialettica che portò a manifestare tutti i limiti di questo incontro. Citando le parole di un gesuita basco, Ignacio Ellacuria, trucidato dall’esercito in Ecuador nel 1989 anche a seguito di una sistematica delegittimazione della teologia della liberazione da parte dei vertici vaticani, «quello che in realtà si scoprì fu la Spagna: la realtà della cultura occidentale e anche della Chiesa in quel momento uscirono allo scoperto, si spogliarono senza rendersene conto, perché il loro intervento sull’altro fu di occultarlo, non di scoprirlo. In realtà è il terzo mondo che scopre il primo mondo nei suoi aspetti più negativi e più reali. (…) Noi crediamo che se il profeta (in questo caso il terzo mondo) non dice al primo mondo la verità, questi non sarà capace di vedere e di scoprire la propria realtà e continuerà a pretendere di indicare al terzo mondo la sua strada»3. Così l’Europa scoprì se stessa «non come il tutto ma come una parte del tutto, una parte eletta, peraltro, chiamata a plasmare secondo la propria forma i popoli della terra», e ciò in virtù di un triplice rigetto dell’Altro, ovvero degli arabo-islamici, degli ebrei e degli indios, reso possibile da una ideologia nella quale «nei casi in cui [i colonizzatori illuminati] riconoscono negli indigeni una uguale dignità umana, fanno di questa il fondamento per un progetto di totale assimilazione che annulli la diversità e, nei casi in cui pongono l’accento sulla differenza, ne fanno un segno di inferiorità che giustifica il loro assoggettamento»4; tutto questo processo è accompagnato e legittimato da un cristianesimo agostiniano il cui intimismo fa il paio con lo sfruttamento borghese e diviene teologia della dominazione, in cui anche il balzo della coscienza costituito dal protestantesimo ricade dentro lo stesso perimetro di una deformazione ideologica della fede evangelica che non cambiò affatto l’atteggiamento verso i popoli non cristiani. Prova ne fu il carattere feroce e sterminatore della conquista anglosassone dell’America del Nord5. Tale ideologia non fu sostanzialmente intaccata neanche nel dibattito illuministico, (a parte l’eccezione di Rousseau) che quando riduce la crudezza razzistica al solo grado e non alla specie, continua comunque a riservare un ruolo civilizzatore all’uomo europeo.

La transizione dal Medioevo, in cui dominano valori religiosi, all’epoca moderna, in cui vengono progressivamente messi al vertice i valori materiali, subisce tra la prima e la seconda fase dell’età moderna (caratterizzata dalla transizione alla laicità, e quindi in particolare dalla rivoluzione francese) un processo di metamorfosi nella forma della copertura ideologica che sfocerà nella feticizzazione di un nuovo dio: il danaro e la logica del profitto. La logica del profitto, inizialmente giustificata in senso medievale dall’idea religiosa secondo cui «portare il battesimo equivaleva a portare la salvezza», finirà per essere sostenuta, con la transizione alla laicità tra 700 e 800, dalla missione di esportare la civiltà6.

 

Diritti che attendono una risposta

Quanto alla ricerca del senso – ovvero di messa al servizio e strumentalizzazione del passato non solo in senso conoscitivo, ma di obiettivi attuali facendo riferimento a valori e criteri politici e morali di giudizio che permettano di agire nel presente per cambiare il mondo -, Balducci offre una grande lezione di laicità, proprio per la capacità di staccarsi dal proprio gruppo di origine (l’occidente cristiano e colonizzatore), senza peraltro identificarsi totalmente con il gruppo opposto (gli indios) e dargli sistematicamente ragione.

Balducci invita anzitutto ad abbandonare la memoria apologetica delle celebrazioni della scoperta dell’America e indica la celebrazione del cinquecentesimo anniversario della conquista come occasione per dare inizio alla fine dei neocolonialismi.

Pur senza rinunciare al richiamo ad alcune forme della cultura india sopravvissute che ci permettono di criticare l’evidenza dei due assiomi che stanno alla base del modello occidentale (lo Stato e il lavoro produttivo), Balducci riconosce che «(…) saremmo nell’errore se, quasi spinti da un sentimento di colpa, restassimo fissi sulle etnie indie sopravvissute all’interminabile olocausto» e riconosce che «esse assumono ai nostri occhi il valore di un simbolo a cui riferirsi per misurare la vastità del misfatto e la quantità e la qualità dei diritti umani che attendono una risposta»7.

Evitando un ingenuo moralismo, Balducci esprime un giudizio morale sui protagonisti della conquista, denunciandone la negazione dell’altro e la sacralizzazione del dominio dell’uomo bianco nella forma di una filosofia della storia che fa del suo dominio una necessità razionale. Balducci invita inoltre a prendere atto della realtà delle etnie indie odierne e delle loro rivendicazioni attuali «rese più perentorie dai crimini da noi commessi nel passato». Egli critica la spregiudicata egemonia perdurante in forme diverse da parte dell’Occidente e indica la necessità di liberarsi dai condizionamenti del passato invitando ad impegnarsi per un diverso ordine internazionale in cui la componente india sia libera dai rapporti di dipendenza.

 

Il paradigma eurocentrico

Passando all’analisi del mondo contemporaneo egli indica la fine della dialettica Est-Ovest come quella tra due tendenze interne al paradigma eurocentrico dell’uomo occidentale inteso come Homo oeconomicus che mette al primo posto il dominio della natura e la creazione dello stato come monopolio della forza8. Balducci si spinge inoltre a sostenere la fine della democrazia liberale e della democrazia socialista intesi come i due sbocchi inevitabili del futuro dell’umanità e il senso ultimo della storia universale: «La fine della linea di Yalta ha tolto credibilità al modello socialista, ma ha anche tolto credibilità al modello delle democrazie capitalistiche, palesemente incapaci di estendere all’intero pianeta la legge del libero mercato. Ora appare chiaro che a tenere unite le due alternative era il medesimo presupposto antropologico, quello del primato dell’Homo oeconomicus. La rivoluzione industriale ha dato vita a un modello di sviluppo che, a detta di tutti gli esperti, non è sostenibile per la totalità del genere umano: lo impedisce la severa legge dell’entropia. Modernizzare il mondo vorrebbe dire condannarlo alla catastrofe entropica: è la certezza che sta demolendo, anno dopo anno, la coscienza dell’Occidente»9. Da questo punto di vista, Balducci si mostra assai in anticipo sui tempi che corrono, nei quali – di fronte a quell’epocale spostamento del baricentro economico verso il terzo mondo chiamato globalizzazione, che vede tutta la leadership europea arroccata su una guerra di posizione tesa a difendere i privilegi acquisiti e recuperare lo sviluppo della produzione – non si riesce a concepire questa crisi come una grande occasione di ripensamento dei propri modelli di sviluppo.

Balducci sembra quasi aprire a una sorta di spiritualità del creato (espressa da grandi teologi del 900 tra cui anche grandi protagonisti del Vaticano II, come Chenu, ma che annovera tra i suoi antesignani molti teologi fin dal basso Medioevo), laddove sostiene che i diritti dell’uomo non potranno più andare dissociati da quelli della Terra: il «culto della terra, acquista, mentre incalzano i segnali della catastrofe entropica, il carattere dell’imperativo etico. Al centro dell’etica, infatti, non c’è più il primato dell’uomo, arbitro della natura fisica, c’è il primato della vita, intesa come un insieme indissociabile, al punto che non è più possibile parlare dei diritti dell’uomo senza parlare anche dei diritti della terra»10.

Egli sostiene inoltre che l’Europa si trova, nel 1992, in una situazione rivelatrice: «(…) nessuna delle nazioni che la compongono è in grado di individuare una nazione nemica all’interno del continente»; aggiunge che la guerra del Golfo non a caso si svolge sulla frontiere tra Nord e Sud e si chiede profeticamente: «Ma non è forse vero che alla radice della crisi attuale della Vecchia Europa c’è la percezione che il modello di civiltà creato e diffuso dall’Occidente non è compatibile con le ragioni profonde della vita? Che immaginare la sua diffusione in tutto il pianeta equivale a immaginare la fine della biosfera? L’umanesimo del dominio, lo si dichiari o no, è colpito al cuore»11. A parte la sottovalutazione dei conflitti nella ex Jugoslavia, che stavano esplodendo in quel momento, non stiamo forse assistendo a una cosiddetta crescita globale, anche e soprattutto di ampie porzioni del Terzo mondo, che lascia sbigottiti per le contraddizioni in termini di processi di sradicamento culturale, ingiustizia sociale e devastazione ambientale?

Un particolare accento batte sul ruolo delle comunità cristiane nel promuovere il processo di emancipazione dei popoli, come pure sulla comprensione della consunzione del paradigma eurocentrico sotto l’incalzare degli eventi storici che segnano il tramonto del mondo moderno anche ad opera dei sopravvissuti allo sterminio degli indios che cominciano a far sentire la loro voce.

 

Un Concilio con 400 anni di ritardo

Quanto alla Chiesa, Balducci richiama il giudizio di Kung secondo cui «Il limite del Concilio Vaticano II del 1962 fu di essere stato indetto con quattrocento anni di ritardo»12 e, profeticamente proteso a guardare al futuro nella piena fiducia che i frutti della seminagione siano destinati a germogliare, si mostra convinto che «il prodigio è già sotto i nostri occhi: il suo futuro prossimo si sta costruendo nella terra in cui Las Casas seminò il Vangelo nelle lacrime della disperazione e nel conforto della speranza. Prima del Concilio e subito dopo, fino al 1968, l’anno della grande Conferenza episcopale latino-americana che inaugurò la teologia della liberazione, l’egemonia sulla cristianità, per quanto riguarda la riflessione teologica e le forme di vita cristiana, era ancora delle chiese europee, di quelle ad alto sviluppo tecnologico. Ma oggi gli impulsi della novità del pensiero e della vita vengono dai paesi in cui il Vangelo fu portato con la spada. Gli evangelizzati hanno già incominciato a evangelizzare gli evangelizzatori»13.

Balducci era già ben consapevole, fin dalla fine degli anni 60, che nella Chiesa vi era una involuzione rispetto alla ventata di rinnovamento portata dal Concilio Vaticano II, e non nascondeva la propria delusione e le proprie critiche sia nei suoi scritti che nella sua predicazione e nelle sue iniziative pubbliche. Certo non poteva prevedere che nel ventennio che lo separa da noi le cose sarebbero radicalmente peggiorate nel senso di una sistematica vanificazione del Vaticano II e di un coinvolgimento della Curia romana in scandali di tipo sessuale, finanziario e teologico/politico che ne screditano qualsiasi rivendicazione di superiorità morale e spirituale, almeno nei suoi vertici e che sono destinati a lasciare un profondo segno nel lungo periodo.

La ricchezza di motivi di quest’opera di Balducci esula dal mero mestiere dello studioso, sia pur inteso in senso ampio, e sconfina in quella del militante della fede e del profeta, che come Gesù chiama tutti a essere profeti superando ogni divisione e ogni rivalità umana, nella prospettiva di una fine della Torre di Babele delle divisioni umane e della capacità di interferire col razzismo eurocentrico, coi dualismi tra vita terrena e ultraterrena, tra Dio e mondo, tra anima e corpo, nella prospettiva di una discontinuità che rompa l’ingiustizia attraverso l’esercizio di una immaginazione creativa capace di piantare nuovi semi di giustizia non solo entro la società, ma nei confronti dell’intero creato.

 

 

 

1 E. Balducci, Montezuma scopre l’Europa, Edizioni Cultura della Pace, San Domenico di Fiesole (FI), 1992, p. 19.

2 ivi, p.45.

3 ivi, pp.69-70.

4 ivi, p.28.

5 ivi, pp.54-55. Su questo punto insiste anche Fox, In principio era la gioia, Fazi Editore, Roma 2011, pp.259-260.

6 ivi, pp.36-37.

7 ivi, p.73.

8 ivi, p.69.

9 ivi, p.10.

10 ivi, p.11.

11 ivi, p.70. A questo tema, come sappiamo, Balducci ha dedicato l’ultimo impegnato saggio pubblicato in vita. Si veda a questo proposito E. Balducci, La terra del tramonto, Edizioni Cultura della Pace, San Domenico di Fiesole (FI), 1992.

12 ivi, p.61.

13 ivi, p.75.