di Mauro Sbordoni
1991: le note del violoncello di Rostropoviĉ risuonano ai piedi del Muro di Berlino, che sta cadendo sotto i colpi di una rivolta non violenta. 1992: in Italia la «svolta della Bolognina» e Mani pulite sono figlie di quell’evento. Ma non si poté o non si volle affrontare fino in fondo il cambiamento che quelle due svolte offrivano. Sul versante della lotta alla corruzione, non ebbe luogo quel movimento di riforma morale che avrebbe potuto produrre un profondo rinnovamento e un ricambio dei gruppi dirigenti.
Il 9 Novembre Rostropovič, vedendo in televisione quanto stava accadendo intorno al Muro di Berlino, partì con l’aereo da Parigi portando con sé il suo violoncello. La lunga muraglia, oltre centocinquanta chilometri, stava cadendo sotto i colpi di migliaia e migliaia di persone. Guardando alla televisione le immagini di quella folla, sembrava di assistere non alla cieca furia che spesso accompagna i movimenti delle masse allorché si danno ad abbattere simboli di dittature fino a pochi giorni prima sopportate e odiate in silenzio, ma ad una grande e spontanea festa popolare, ad un infinito ritrovarsi e riconoscersi, ed anche ad un conoscersi per la prima volta e fraternizzare.
Giunto a Berlino, il grande violoncellista si unì alla fiumana di gente, si pose a sedere ai piedi del Muro e suonò un brano di Bach. Si radunò attorno a lui un piccolo cerchio di folla. Non il solito pubblico dei grandi teatri e delle sale da concerto, ma persone – di varia età e condizione sociale – vestite in modo vario e informale. Anche Rostropoviĉ era vestito semplicemente con un abito scuro un po’ stazzonato. Al termine della suonata un caloroso applauso. Il «maestro» si inchinò a ringraziare in maniera solenne ripetendo il rito cui era stato abituato da decenni di attività concertistica. Qualcuno ruppe il cerimoniale abbracciandolo.
Rostropoviĉ era un dissenziente che per le sue posizioni pubbliche aveva dovuto, nel 1974, lasciare l’Unione Sovietica ed era stato esiliato e privato della cittadinanza.
Il suo gesto aveva certamente anche il significato di una rivincita, ma esercitata senza toni rancorosi, con il registro non violento, alto e superiore dell’arte.
Anche la caduta del Muro, del resto (avvenuta in tempi e modi non previsti dagli analisti storici e politici), era apparsa come un evento storico non drammatico e non traumatico, quasi il combinato risultato di un movimento di opposizione nonviolenta alla dittatura comunista e di un processo di implosione/erosione all’interno del sistema di potere del «socialismo reale», che aveva portato gli Stati appartenenti a questo sistema ad un grado di inefficienza tale da non essere nemmeno più in grado di disporre i consueti interventi repressivi militari e/o polizieschi. Nei mesi precedenti, in Ungheria, erano state le stesse guardie di frontiera ad abbattere i reticolati di confine e a Berlino i vopos (privi di ordini precisi, si è poi detto e scritto) si mostrarono disorientati e indecisi di fronte alla folla che da Est e da Ovest aveva preso a confluire verso il Muro.
Le note del violoncello di Rostropoviĉ, la stessa immagine serena e compresa dell’anziano musicista seduto ai piedi del muro, sembrarono preannunciare un’epoca felice di «pace perpetua», di cooperazione e sviluppo, in una nuova Europa che andasse dall’Atlantico agli Urali.
Si sperò che la storia, che ha visto sempre nuove crisi e nuovi drammi conseguenti alla caduta degli imperi, venisse, questa volta, contraddetta.
Mentre tutto ciò andava accadendo, il più grande partito di sinistra italiano si chiamava ancora Partito Comunista Italiano.
Fu solo tre giorni dopo il «concerto» di Rostropoviĉ – il 12 Novembre 1989 – che il segretario del PCI Achille Occhetto, con il discorso che passò poi alla cronaca come «svolta della Bolognina», avanzò la proposta di cambiare il nome del partito.
Non fu una svolta storica perché essa arrivò tardi, quando la storia aveva ormai fatto il suo corso.
Più che una svolta, quindi, si trattò di una presa d’atto tardiva.
Il cambiamento di nome venne sancito solo a Febbraio del 1991, con l’ultimo congresso del PCI che decretò il proprio autoscioglimento, lasciando sul campo abbandoni e scissioni e dando luogo ad un partito, Partito Democratico della Sinistra, rinnovato nel nome ma non nel gruppo dirigente e nei metodi di lavoro. Andarono così deluse, nel corso del tempo, le volontà di rinnovamento e le speranze espresse da alcune istanze di base, da alcuni nuovi aderenti e dai pochi settori del partito (peraltro emarginati e marginali) che da tempo avrebbero voluto una svolta reale: non una frettolosa rimozione della propria identità e della propria storia, ma un processo di revisione critica il cui logico sbocco politico avrebbe dovuto essere l’ingresso a pieno titolo nell’alveo del socialismo europeo.
Un anno dopo, a Febbraio del 1992, iniziò a Milano con l’arresto di Mario Chiesa, un quadro intermedio locale del partito socialista, la grande operazione giudiziaria detta «Mani pulite».
Mani pulite giunse in un momento in cui i principali partiti erano già in riflusso, come dimostreranno anche i risultati delle elezioni tenutesi di lì a poco: il 21 Aprile. La DC, per la prima volta nella sua storia, scese sotto la percentuale del 30% e il PSI regredì al 13,62 % invertendo il costante incremento degli anni precedenti. Il nuovo partito nato dal PCI, il Partito Democratico della Sinistra conseguì solo il 16,10 per cento (10, 48 % in meno del risultato delle precedenti elezioni politiche: un calo non «compensato» dal 5,61% ottenuto dal Partito di Rifondazione Comunista). E’ lecito pensare che i risultati di queste elezioni fossero esiti di processi di decadenza maturati nel tempo e non riflesso dell’iniziativa della magistratura che stava appena compiendo le sue mosse iniziali.
E’, infatti, solo nei mesi e negli anni successivi che l’azione della magistratura milanese va ben oltre le figure di secondo piano, investendo i vertici della DC, del PSI, e della grande industria: da Forlani a Craxi, da Cagliari a Gardini.
L’iniziativa del pool sembrò essere accompagnata, in una prima fase, da un grande consenso dell’opinione pubblica, che vedeva confermata la convinzione già largamente diffusa di un pervasivo intreccio fra affari e politica, di un generalizzato versamento di tangenti agli apparati dei partiti e agli amministratori locali come inevitabile contropartita – di fatto una sorta di pedaggio – per qualsiasi aggiudicazione di appalti, contratti, commesse, servizi.
Alcune iniziative – del pool di Milano e di altre procure -, come l’arresto del presidente della Regione Toscana Marco Marcucci, dell’ex tesoriere del PCI Renato Pollini, dell’uomo d’affari (collegato prima al PCI poi al PD) Primo Greganti, e l’incriminazione del tesoriere del PDS Marcello Stefanini, sembrarono confermare anche l’idea che tutti i partiti – anche il PCI e, quindi, seppure per via indiretta, anche il PDS – facessero parte senza eccezione alcuna di uno stesso sistema di corruzione.
I procedimenti giudiziari relativi a questi esponenti PCI/PDS però si concluderanno tutti con «non luogo a procedere» o assoluzioni a formula piena. Fu condannato il solo Greganti, peraltro al termine di una procedura patteggiata in cui la condanna configurava il suo reato come un fatto del tutto privato, senza coinvolgere né il vecchio PCI, né il nuovo PDS.
Così non fu per gli alti dirigenti della DC e del PSI (a partire da Forlani e Craxi) e gli uomini della grande industria e della finanza. Essi furono condannati oppure sfuggirono alla condanna con la latitanza o addirittura con tragiche uscite di scena: «suicidi» accompagnati per lo più da dubbi e interrogativi ancora oggi irrisolti.
Riguardando ora questi fatti, sorprende la sostanziale passività dei partiti colpiti e della cosiddetta «società civile»: dagli intellettuali agli esponenti dell’imprenditoria. Mani pulite avrebbe potuto essere l’occasione perché i capaci e gli onesti, presenti (ieri come oggi!) in ogni campo, dessero luogo ad un movimento di riforma morale che coinvolgesse i partiti, le sedi istituzionali, il mondo dell’imprenditoria e dell’economia, dando luogo ad un profondo rinnovamento e ad un ricambio dei gruppi dirigenti.
Così non fu: negli ambienti del PSI, invece di domandarsi se le accuse mosse dai magistrati fossero fondate e come rigenerare il partito, si preferì chiedersi quali oscure forze avessero mosso «il complotto» della magistratura. La DC rimase incapace di formulare un suo pensiero e una sua posizione. Il PDS si suddivise fra passiva attesa («abbiamo fiducia nella magistratura…») e compiaciuto consenso («Berlinguer aveva ragione…»). I cosiddetti «ceti emergenti», tanto evocati dal gruppo dirigente socialista costituitosi a suo tempo intorno a Craxi, non trovarono il modo di emergere da un omertoso silenzio.
Avvenne così che, ad opera di vecchie e nuove forze retrive, trovarono pubblica espressione i sentimenti/risentimenti popolari più elementari: tali furono il lancio di monetine a Craxi organizzato dai neofascisti romani e l’esibizione di cappi in parlamento ad opera dei neo-parlamentari leghisti. Successivamente, nel breve giro di due anni dall’inizio dell’inchiesta, si creò (grazie anche ad un frettoloso sistema maggioritario a turno unico, per di più elaborato senza provvedere alle riforme istituzionali che ciò comportava) una inedita maggioranza politica.
Secondo il più classico schema della «rivoluzione passiva» delineato da Gramsci, alla classe politica e imprenditoriale eliminata da Mani pulite si sostituisce un gruppo di potere espresso proprio dagli uomini e dagli ambienti nati e cresciuti all’interno di quell’intreccio affari-politica che il pool dei magistrati di Milano avrebbe voluto colpire. L’abilità di questo gruppo, che fa capo a Berlusconi, è quella di dare – ovviamente a suo modo e per i suoi fini – sbocco politico a quelli che Gramsci aveva a suo tempo definito come «elementari e diffusi stati d’animo di risentimento». A quest’operazione concorreranno, più o meno intenzionalmente, vari talk show che questi stati d’animo veicoleranno e amplificheranno attraverso il facile e corrivo linguaggio televisivo, già per sua natura massivizzante e passivizzante.
Molti anni prima – nel 1948 – un giornalista scrittore ben addentro alla culturadi Milano,
Dino Buzzati, aveva scritto un racconto lungo dal titolo Paura alla Scala, in cui si disegna una borghesia milanese che si appresta a celebrare il solito rito della partecipazione ad una prima nel grande teatro. I consueti preparativi per l’andata a teatro (… prove d’abito, appuntamenti, telefonate …) sono però pervasi dal terrore per la voce di una congiura, ormai certa e inevitabile, che segnerà la fine della borghesia milanese. Questa congiura, di cui gli atterriti borghesi milanesi si passano voce, è «la congiura dei Morzi». I Morzi non sono altro che una metafora disegnata da Buzzati dei «comunisti» e delle paure di una sommossa comunista che effettivamente percorsero l’Italia dopo l’attentato del 48 a Togliatti. La notte di «paura alla Scala», descritta da Buzzati, è attraversata come tutte le notti di congiura da paure irrazionali, foschi presagi, tentativi di fuga e di occultamento, ricerche di protezione. Alla mattina però tutto si dissolve, i fantasmi della notte sono stati esorcizzati, le paure svanite e la borghesia milanese riprende a tessere indisturbata la propria consueta trama di vita.
A prolungare oggi la metafora di Buzzati, possiamo dire che per lunghi anni su paure di questo tipo si è costruito e si è mantenuto, nel nostro Paese, un solido sistema di poteri e di interessi, di equilibri e di affari.
Quando Rostropoviĉ suonò il violoncello ai piedi del Muro di Berlino, in Italia non si poté o non si volle intendere il potere liberatorio di questa musica, non si volle cogliere l’occasione per accingersi ad elaborare un nuovo modello di sviluppo e di convivenza. Meglio prolungare il più possibile la «lunga notte di paura», all’ombra della quale erano fioriti così rigogliosamente tanti oscuri equilibri, tanti parassitari interessi.
E’ dell’estate appena trascorsa la pubblicazione postuma di un’intervista che l’ex ambasciatore USA Reginald Bartholemew avrebbe rilasciato al giornalista de «La Stampa» Maurizio Molinari. In questa intervista si ipotizza di una stretta relazione, al tempo dell’inchiesta Mani pulite fra gli ambienti diplomatici USA e il pool milanese, in particolare l’allora PM Di Pietro.
L’intervista ha resuscitato l’interrogativo: «Chi fu l’ispiratore di questa inchiesta? A chi giovava l’azione penale? Forse a comunisti e/o post-comunisti?».
Penso che questo interrogativo se ne porti dietro un altro, assai più pertinente e pesante: «Che paese è mai quello dove ci si domanda perché la magistratura, i giudici, ad un certo punto decidano di intervenire contro un diffuso, radicato e grave sistema di illegalità?».
Non sarebbe invece più logico domandarsi: «Come mai per tanti anni i soggetti attivi di questa illegalità poterono tessere impunemente, quasi alla luce del sole, le loro trame? Come mai le persone colpite e danneggiate da concussioni e malversazioni non si rivolsero all’autorità giudiziaria per tutelare propri legittimi interessi?».
Forse, piuttosto che ricorrere ad un’insolita Spoon river giornalistica e riesumare le parole dei morti per dare corpo a fantasmi di torbide congiure, sarebbe, è, più opportuno rivolgere la propria attenzione al momento presente, e chiedersi perché ancora oggi la magistratura intervenga ad indagare su quanto avviene in Lombardia, nel Lazio, in Sicilia; perché si debba sciogliere d’autorità, per l’esistenza di connivenze mafiose, un capoluogo di regione come Reggio Calabria.
Certo, bisogna guardarsi da ogni facile analogia con Mani pulite.
Ai magistrati di Mani pulite occorsero tre anni di indagini, di interrogatori stringenti, l’uso – su cui molte riserve furono avanzate – della «carcerazione preventiva» per arrivare a colpire i responsabili del sistema di corruzione. Che erano poi alti nomi della politica, dell’imprenditoria, della finanza.
I nomi e le facce dei magistrati (osannati o – beninteso di nascosto – vituperati) divennero noti in tutta Italia.
Ora non è più così: la corruzione è un fatto quotidiano che avviene con modalità così evidenti e palmari che non c’è più bisogno di organizzare grandi pool di magistrati, basta disporre un normale controllo di agenti della finanza per scoprire abitazioni, lussuosi soggiorni, amene vacanze «regalate» (beninteso «all’insaputa» dei beneficiari di cotante donazioni) a ministri, consiglieri e presidenti di regione, e spese indebite – e faraoniche – effettuate senza alcun giustificativo.
Nessuno degli indagati o degli imputati tenta, come vent’anni fa, di addurre (fu l’extrema ratio invocata da alcuni imputati eccellenti, Craxi in primis) la scusante che tutto ciò serve al finanziamento dei loro partiti, perché oggi i termini della questione si sono sostanzialmente rovesciati: spesso è il finanziamento pubblico che va indebitamente nelle mani di privati: si tratti di esponenti politici che esercitano la funzione di amministratori pubblici o di imprenditori (magari proprietari di cliniche private, come avviene a Milano) che drenano in misura abnorme denaro pubblico.
Un’analogia con quanto avvenne vent’anni fa è data dalla «rivoluzione passiva/controrivoluzione» che su questi fatti ancora una volta si sta organizzando.
Invece di chiedere più politica e una migliore politica si attacca la politica tout court. Nella notte scura della corruzione tutte le amministrazioni e tutti i partiti divengono eguali. Fare un’analisi differenziata è impegnativo e impopolare. Meglio allora dire, anzi, gridare: «Tutti a casa!».
Questo grido risulta liberatorio anche perché consente ai cittadini ascoltatori e spettatori (sempre più pubblico e sempre meno attori) di non fare i conti con le proprie responsabilità civiche e politiche (avere scelto determinate rappresentanze e rappresentanti) ed evita loro di porsi tante complicate domande su quali siano le nuove scelte da fare.
Il «tutti a casa» si è caricato nel giro di pochi mesi di un cupio dissolvi istituzionale a cui danno incremento, purtroppo, anche politologi e commentatori seri e preparati.
La giusta critica alle retribuzioni e ai benefits di parlamentari e consiglieri regionali che nel giro di questo ventennio, mentre il paese avanzava verso la crisi, si sono incrementati in misura quasi geometrica, si è poi spostato alla funzione dei partiti in sé e al ruolo delle istituzioni: province e regioni in particolare.
Si assegna così potere di palingenesi all’ennesima legge speciale (la cosiddetta «legge anticorruzione») con la costituzione di una specifica autorithy con relativo commissario.
Si disarticola così la Costituzione dello Stato Italiano, lo Stato delle autonomie (e il grande patrimonio storico culturale di cui le «autonomie» sono espressione), il ruolo dei partiti, delle leggi e delle magistrature ordinarie.
A vent’anni da Mani pulite va così prendendo corpo un nuovo processo di «rivoluzione passiva», forse ancora più devastante di quello che ha dato luogo all’Italia di questi giorni, già commissariata da un governo speciale.
A questo processo non si contrappone, per ora, in maniera adeguata una controffensiva politica che faccia della Costituzione la sua bussola ed il suo punto di riferimento. Ci si riferisce ovviamente a quelle forze di sinistra e di centro che dal patto costituzionale traggono le loro origini.
Prendono così campo nuovi tribuni della plebe che agiscono soprattutto per via mediatica (e non associativa come è nella natura dei partiti iscritta nella Costituzione) e l’Italia corre il rischio di essere l’unico paese dell’Europa occidentale dove ad affrontarsi in una contesa elettorale non sono più i partiti ma le persone.
Penso che – in questo contesto – sia lecito domandarsi se le prime fasi delle primarie, cui si sta dando vita nella coalizione di centro-sinistra (…,ma esiste nel momento in cui stiamo scrivendo una vera coalizione?), siano davvero un contributo ad una nuova ondata di partecipazione alla politica o non rappresentino piuttosto un nuovo passo avanti verso questa deriva personalistica e plebiscitaria.