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L’ultima parola
di Sergio Givone (a cura di S. Saccardi)

Un colloquio, che si svolge a partire dal commento di immagini di Dürer, di Piero della Francesca, di Rembrandt e di un ignoto autore di icone, in cui viene delineato il legame profondo che intercorre fra il momento della sofferenza e della Passione e quello della Resurrezione.

D. Nel volume di «Testimonianze» si parlerà di Immagini della Resurrezione. Ce n’è qualcuna, in particolare, a cui ti sembra significativo far riferimento per dare avvio alla nostra riflessione?

(Sergio Givone si alza e prende un quadro, sistemandolo in una posizione in cui sia ben illuminato dalla luce, per poterlo interpretare e commentare insieme).

R. Questa Resurrezione è una delle incisioni della cosiddetta Piccola Passione di Dürer ed è abbastanza rara; quello che interessa a noi è l’iconografia, il contenuto di questa Resurrezione, che spesso viene interpretata come se fosse l’ecce homo, il Cristo con la corona di spine…

D. Vuoi dire che sembra più simile ad un’immagine di Passione che non (per come siamo abituati a vederla rappresentata) di Resurrezione?

R. Potrebbe essere una passione, e infatti fa parte della passione, ma la Resurrezione è l’ultimo atto della passione, non lo dimentichiamo, non è al di là della passione, fa parte della passione e ricordarci questo, che la Resurrezione fa parte della passione, è un’immagine che era ben presente ai pittori, sia a quelli «riformati» che ai «nostri pittori». E allora: cosa ci dice questa immagine e perché dà da pensare? È il Cristo risorto, dopo la morte. Su questo non c’è nessun dubbio: qui c’è la ferita nel costato. E quindi è il dopo Passione ed è il dopo Morte. Ma il Cristo che vediamo qui non è quello della Resurrezione a cui siamo abituati, è un Risorto un po’ insolito, è un Risorto che sta presso il palo della sua esecuzione, sta lì, non va in Cielo, come se la Resurrezione fosse un superamento del male, del dolore, dell’ingiustizia, una vittoria in senso assoluto, immediata, una vittoria che non lascia niente dietro di sé; invece qui tutto viene conservato e soprattutto il senso del dolore e anzi è come se il senso del dolore venisse in chiaro, fosse esibito, mostrato. E’ come se dicesse: «Io ho sofferto tutto quello che un uomo può soffrire».

D. Questo sta a significare che quel Cristo, che così viene rappresentato, continua ad essere costantemente partecipe del nostro viaggio e del dolore e delle sofferenze che esso implica?

R. Continua ad essere partecipe di questo nostro dolore… e questo dolore suo è il nostro. Non il Dio triumphans. Non il Christus rex, ma il Christus patiens. Nella conversazione informale che abbiamo avuto prima della registrazione di questo colloquio, hai citato prima Lukàcs: quando La Pira l’ha incontrato, il filosofo ungherese ha fatto un salto sulla sedia, come colto da un moto di subitaneo interesse, quando il «sindaco santo» di Firenze ha parlato di Resurrezione. La stessa cosa io potrei dire di Adorno. Del pensiero cristiano non gli interessava, come dire, la dottrina sociale: egli ha riflettuto insieme a Thomas Mann su questo Cristo di Dürer.

D. E’ come dire che il pensiero umano (anche quello che definisce i suoi paradigmi in un ambito distante da riferimenti religiosi o di fede), percepisce, con immediatezza, il valore dell’assunzione della sofferenza?

R. Cosa significa assumere la sofferenza, prenderla su di sé, prendere su di sé i mali del mondo, come dice appunto la dottrina cristiana? Cosa significa redimere, se redimere comporta non la cancellazione del male, ma per l’appunto la sua consapevole assunzione?

D. Un’assunzione, ed un farsi carico della dimensione del soffrire e del patire, che naturalmente è cosa ben diversa dalla passiva accettazione di tale dimensione. Condividi?

R. Condivido assolutamente. È cosa diversa da accettazione, perché se io accetto e basta, a che cosa mi abbandono? A un senso di fragilità, povertà, ma anche di impotenza: cioè il male è l’ultima parola sul mondo, cioè la sofferenza e qui abbiamo a che fare con la sofferenza dell’innocente, la sofferenza ingiusta; quindi l’ingiustizia appartiene al destino dell’uomo, è qualcosa di fatale. E questo bisogna accettarlo. Nella liturgia cristiana della messa non si dice «accettò la sua passione», ma che «si offerse liberamente alla sua passione». E questo vuol dire che se io prendo su di me il male, non è che lo risolvo, che dico a qualcuno qual è la ragione del male… Cristo, come dice Dostoevskij, non viene a dirci qual è la ragione del male e qual è la ragione della sofferenza: ci viene a dire che la sofferenza non è assurda, non è destinata a rimanere senza esito, che la sofferenza – chi lo sa – è, forse, il fermento oscuro della vita.

D. E’, come dire, dunque, che la sofferenza è inestricabilmente intrecciata con la vita?

R. E’ intrecciata con la vita, ma non solo. Vuol dire che con la sofferenza noi ci avviciniamo a questa esperienza che fa chiunque, cristiano o non cristiano che sia. Solo attraverso la sofferenza noi ci avviciniamo a questo senso più alto dell’essere, della verità, dell’esistenza. Solo partecipando, solo riconoscendoci gli uni e gli altri partecipi di questo comune destino di sofferenza impariamo ad amarci.

D. Qui c’è, però, un punto cardine di questa problematica su cui vale la pena di soffermarsi: questa assunzione della sofferenza, che ci viene suggerita dall’immagine da cui siamo partiti, in che senso è anche riscatto? Il cristianesimo, nel rimando alla novità di cui è annuncio, ha inteso portare un messaggio di libertà e di riscatto in senso escatologico e anche, secondo certe interpretazioni, in ambito storico-sociale. Qui, in questo Christus patiens, dove si intravede, dov’è, questa immagine di riscatto?

R. Ecco, questa immagine sta esattamente a metà fra due altre immagini come dire archetipiche della sofferenza e della redenzione: una è quella a cui abbiamo fatto riferimento del Cristus triiumphans (Il Cristo dominatore). Il problema è che il male viene trasformato nell’occasione per conseguire il bene…

D. Il male è, dunque, il prezzo ed il pedaggio da pagare?

R. Il male è il prezzo da pagare, ma è dura spiegarlo al bambino che muore, all’innocente che perde tutto, a chi è ingiustamente carcerato. E’ dura. Vagli a dire però che da lì verrà fuori il progresso o il riscatto sociale. E’ dura. Agli antipodi ci sta un’altra immagine. Un’immagine che parla di accettazione (ma non certo di passività) di una realtà in cui con la presenza de male bisogna, comunque, fare i conti. Il Cristo risorto è il Cristo che si è abbandonato, che si è identificato con l’uomo al punto da seguirlo fino in fondo nel suo destino di morte. È l’immagine di Grünewald. Non so se tu hai presente la pala d’altare che si trova a Colmar. Grünewald ha dipinto la morte di Cristo in croce come se la Resurrezione fosse semplicemente impossibile. Cioè quello che vediamo sulla croce è un cadavere sfatto di cui si intravedono già i segni della putrefazione. Accanto, egli dipinge una Resurrezione ed è impressionante come la dipinge: sullo sfondo di un paesaggio violaceo, tra il nero e il viola, cioè di una cupezza spaventosa. In un angolo c’è un Cristo che risorge, come una piccola fiammella, come un punto di luce in questo grande buio. Ma si capisce bene che il buio presto inghiottirà tutto.

Ma, per rispondere alla tua domanda, dove si vede qui la Resurrezione?

Si trova a metà fra due immagini opposte: la prima, quella della Resurrezione come trionfo sul negativo, di cui si propone una concezione, in un certo senso, «strumentale» (in negativo: il male come instrumentum boni) e l’altra, invece, che è quella della condivisione di un destino di morte. È molto toccante leggere la Resurrezione come partecipazione, come condivisione al destino di tutti, anche se alla fine non c’è niente, non c’è la redenzione, la morte non ha l’ultima parola. Nonostante tutto, la morte non ha l’ultima parola.

D. All’interno dell’assunzione piena di un destino pienamente umano, secondo te, si ricava l’indicazione di un elemento di trascendenza a partire da queste immagini?

R. Sì, l’elemento di trascendenza sta proprio in quel «nonostante tutto». Qui c’è tutto, tutto il male possibile. C’è’ un uomo giusto, che hanno beffato, che hanno ferito, che hanno messo appeso a questo palo. I segni della passione sono qui, sono tutti intorno.

Gli hanno riservato il peggior trattamento possibile ed egli ha patito il peggio che un uomo possa patire. Non solo ha sofferto molto. C’è un’altra considerazione da fare. Anche io e te soffriamo (come ogni altro essere umano), ma non siamo innocenti. Si potrebbe dire: uno paga per le sue colpe; così va il mondo. Ma in questo caso, no. Non è così. È il patimento di un giusto. Ma è il peggior patimento possibile, perché egli è stato beffato, oltraggiato e deriso. Eppure, questo giusto, dopo aver patito tutto, dice: «Attenzione non hanno l’ultima parola il negativo, il buio e la morte. Io sono qui». È come se ti dicesse questo. Anche se non ti dice, e non ti comunica, che ha vinto.

D. Si può dire, però, come affermavi prima, che l’ultima parola non sarà della morte?

R. Certo. La morte, nonostante tutto; non ha l’ultima parola. Anche se non sappiamo in che modo. Non è una risposta già, di per sé, rassicurante ed acquisita. È qualcosa di misterioso, che non possiamo tradurre fideisticamente dicendo «Ah, bene, c’è qualcosa di superiore al male, il bene alla fine vince». E’ stato detto: «Non praevalebunt!». Le forze del male ed il negativo non prevarranno. Ma tuttavia restano nel mondo e nella storia e continuano ad essere operanti.

D. Potremmo tradurre tutto questo dicendo che c’è, dunque, un cammino, non scontato e non predeterminato, da fare?

R. E’ esattamente così. Ci sono tante immagini che ce lo suggeriscono. Se tu vuoi un esempio analogo, in ambito non «riformato», pensa alla Resurrezione di Piero della Francesca.

D. Un riferimento che non poteva mancare in questa nostra conversazione. Quali suggestioni si ricavano dal modo in cui Piero della Francesca si accosta a questo grande tema?

R. Io la leggerei così: il Cristo sta lì con lo stendardo, ad indicare una certa vittoria sulle potenze del male. Nel modo in cui lo rappresenta Piero, il Cristo è lì, non è in cielo come nel Tiepolo, non è il Cristo che ha superato il mondo considerato come dimensione del male, che lo ha vinto e se ne sale in cielo dove sarà intronizzato. Per sedere, come dicevano i tedeschi, su un trono di grazia. Un bel trono di grazia, in questo caso, verrebbe da dire, quello di un povero Cristo che sta ai piedi del suo patibolo. Questo è dunque il messaggio: che, nonostante tutto la grazia passa proprio per queste vie. Per la via stretta dei conti da fare con la sofferenza, l’umiliazione e le sconfitte della vita.

Questa è, d’altra parte, la Resurrezione come l’hanno pensata i Dürer, come l’hanno pensata i «riformati». L’immagine da cui siamo partiti, in questo nostro discorso, è del 1520, a pochi anni dalla Riforma. Fa parte della Piccola passione. Sono una quarantina di incisioni, non di più, e questa di cui noi oggi stiamo parlando è originale, anche se di qualità modesta (poi ti dirò come l’ho avuta). Sono una serie di 40 incisioni che riportano episodi della passione di Cristo, che si inseriscono, dunque, nel ciclo della Passione. Di solito, nella Via Crucis non c’è la Resurrezione. Nella Piccola passione di Dürer, invece, c’è. Ed il fatto che egli riconduca, in qualche modo, la Resurrezione all’interno della Passione la dice lunga circa il senso della Resurrezione medesima. La riporta a quella dimensione e a quel significato apparentemente paradossale che anche tu coglievi.

D. E’ come dire che fra Resurrezione e Passione non c’è stacco e che esse fanno parte di un’unica vicenda?

R. Proprio così: non c’è stacco ed esse fanno parte di un’unica vicenda. Questo è quel che vediamo anche in ciò che rappresenta mirabilmente Piero della Francesca. La stessa cosa e la stessa idea la ritroviamo anche in certe rappresentazioni dell’arte russa. Ho qui un’icona russa del primo Seicento che è molto rovinata (e che dal punto di vista artistico vale poco, ma non è questo che ci importa in questo contesto). L’ho trovata a un’asta di Firenze e mi era stata venduta, allora, come opera di un pittore fiammingo, ma non è un’opera d’arte prodotta in Occidente. La struttura del legno e la tecnica sono quelle dell’arte russa. La grande arte che ha impresso il suo segno nella pittura delle icone Le icone sono fondate su quella che veniva chiamata la prospettiva rovesciata, cioè quella prospettiva che invece che far partire la rappresentazione proposta in un quadro dal punto di vista dell’osservatore o del pittore, come se fosse una sua proiezione, fa partire il quadro come se esso fosse guardato dagli occhi di Dio. E lo dimostra il fatto che spazio e tempo non sono umani, ma sono divini, perché gli uomini le cose le vedono in una serie ed in una successione cronologica, in cui c’è un prima e un poi, c’è una progressione. Qui è tutto compresente, in un unico istante, tant’è vero che c’è il tradimento di Giuda insieme all’ecce homo, alla tentazione del serpente e a tanti altri elementi (il sole e la luna…).

D. Che significa questa compresenza di eventi, di simboli e di dimensioni?

R. E’ una compresenza di eventi che solo Dio può vedere contemporaneamente ed all’interno di una stessa dimensione. Siamo su un piano di discorso analogo, per molti versi, a quella stavamo finora considerando. Quello che tu notavi prima circa la compresenza fra passione e redenzione ne è la conferma. C’è la passione, c’è il costato ferito, c’è la Croce, c’è tutto ciò che la vittima innocente ha passato e c’è, in questa dimensione, la storia stessa degli uomini (il peccato, la sofferenza, il riscatto ecc.) che è lì, in questo atto misterioso che consiste nell’assumere e riassumere il tutto su di sé, perché davvero qui Cristo prende in carico tutta la storia dell’uomo e la redime. Ma come la redime? Superandola? Andandosene, distante, in cielo? No, restando qui, vicino al luogo della sua stessa sofferenza e facendoci vedere che, nonostante tutto, il male, il peccato, la sofferenza, l’ingiustizia hanno un senso; non sono destinati a cadere nel nulla dell’insignificanza, della sconfitta e della dimenticanza.

D. Non potremmo accostare queste immagini e queste considerazioni a quel che, in un certo ambito della sua riflessione, un figlio dell’Illuminismo come Kant ha saputo evocare parlando del regno dei fini, alludendo alla compresenza dei giusti di tutti i tempi in una dimensione che va al di là della loro collocazione in differenti realtà ed in diversificate epoche storiche? Kant tratteggia filosoficamente quest’immagine con accenti che non sono espressamente cristiani, ma che con il cristianesimo qualcosa hanno evidentemente a che vedere. Quel regno dei fini in cui tutti i giusti di tutti i tempi sono misteriosamente compresenti non è in singolare consonanza con un tema di fondo della speranza cristiana?

R. Credo che sia un accostamento appropriato. Kant, d’altra parte, ne La pace perpetua dice una cosa importantissima: o la pace sarà, appunto, perpetua o non sarà mai vera pace. Solo la pace perpetua sarà vera pace. E solo nella prospettiva di una giustizia divina i giusti si ritroveranno. Ecco, le figure mitologiche di cui parlavamo prima a questo rimandano: al punto di vista di una totalità. Ad un «punto ultimo». La Resurrezione, appunto.

D. Potremmo dire che c’è qualcosa che è già avvenuto e che pure ci chiama ad un adempimento?

R. In un certo senso, è quanto indica San Paolo quando dice che se la Resurrezione non fosse avvenuta la nostra fede sarebbe vana.

D. Ma che cosa intendere con il termine di «Resurrezione»? Ricordo, in merito, un dialogo interessantissimo fra Ernesto Balducci e Roger Garaudy (che, prima dell’inaspettato e successivo approdo all’islam, era un marxista «revisionista» e dialogante) sui temi del rapporto fra fede cristiana e liberazione. A proposito della Resurrezione, Garaudy, sia pure in termini assai rispettosi, scriveva che essa non aveva alcun senso se non come metafora del riscatto e della rinascita dell’uomo in ambito storico e sociale. Balducci, pur consentendo con la valorizzazione piena della dimensione umana e mondana, nella sua risposta (con parole che cito a memoria) confessò di sentire che «il tema della Resurrezione non mi toccherebbe così da vicino se essa non avesse a che vedere con la mia morte imminente». Cosa suscita in te questa dichiarazione di Balducci?

R. Sono parole di grande profondità. La fede è, di per sé, proiettata verso il futuro, verso l’attesa del Regno. Deve essere, per così dire, un fatto reale. Da questo punto di vista la risposta data da Balducci a Garaudy mi convince molto. D’altra parte, la Resurrezione è anche metafora di qualcosa (e di un di più di dignità, di libertà, di umanità) che tutti aspettano.

D. Quali sono, secondo te, le implicazioni di una frase come quella che richiama il valore della Resurrezione in rapporto alla morte (più o meno imminente) di ognuno di noi?

R. Qui c’è un tema di fondo: quello della Resurrezione come fatto che riguarda l’uomo prima ancora che Dio o meglio che riguarda Dio in quanto si è fatto uomo. Nessun Dio avrebbe ragione di risorgere se non si fosse fatto uomo. Solo il Dio che si è fatto uomo risorge. Così mi pare, appunto, che dica, secondo quel che riferisci, Balducci a Garaudy: «Solo se la Resurrezione riguarda la mia morte imminente è qualcosa di reale».

D. In questo senso, se non è una divagazione rispetto al filo del discorso, potremmo notare che c’è chi ha fatto osservare che la prospettiva cristiano-ortodossa e quella del cristianesimo protestante e/o cattolico hanno un’accentuazione un po’ diversa, facendo riferimento rispettivamente all’immagine ed alla concezione del Dio-uomo ed a quella dell’uomo-Dio. L’ambito è comunque quello della stessa fede cristiana, ma la prospettiva cambia. Non si spiega anche così il punto di vista con cui, come prima ricordavi, sono state costruite (a partire dall’alto e dallo sguardo di Dio) le icone russe?

R. Sì, probabilmente è vero: un conto è parlare di Dio-uomo e un conto è parlare di uomo-Dio. Ma è una questione di accenti. Ciò permette, però, anche di ritrovare la stessa idea di fondo in tradizioni così diverse. Pensa ai due quadri di cui abbiamo parlato: esprimono due contesti culturali completamente diversi. Uno di essi evoca quanto di più umano possa esistere, l’accento cade sull’uomo-Dio. Nell’icona del seicento, probabilmente, l’accento cade sul Dio-uomo, tant’è vero che questo è lo sguardo di Dio, che sta guardando noi. Questa è una diversità di prospettiva importante. Però – io sostengo – questi due quadri dicono anche la stessa cosa: che, nonostante tutto, il male non ha l’ultima parola, anche se colpisce profondamente. E quindi so quel che esse volevano, comunemente, essere: immagini di speranza, dirette a gente che le guardava e vi trovava immagini di una speranza. A volte, oggi c’è chi dice: «:Io non ne voglio sapere di un Dio crocifisso, dell’immagine di un impalato, di un umiliato, non ne voglio sapere di questa immagine perché mi deprime…». Ma questo sconcerta. Significa che non si sa più leggere ed interpretare, perché chi leggeva queste immagini non si deprimeva. Certo, per dirla in maniera semplice, non si divertiva, ma certamente non si deprimeva perché vi trovava una ragione di speranza. E una conferma: che il male non ha l’ultima parola.

D. Non è questa la speranza, da sempre, degli umiliati e degli offesi?

R. Senza dubbio. Sempre e in tutti i tempi. E anche in quest’altra Resurrezione (fa riferimento ad un nuovo quadro, di Rembrandt, stavolta – n.d.r.) si diceva una cosa importante: che il primo Risorto è l’uomo, come è uomo Gesù. Come può credere a quel che gli sta capitando il povero Lazzaro? E’ lì, sbalordito. La Resurrezione effettivamente sembra appartenere ad un altro ordine di pensieri, rispetto a quelli ordinari: riguarda la trascendenza. Eppure, è tutto vero. E Lazzaro, il risuscitato, è sbalordito. Nel Vangelo, non va scordato, il primo risorto è Lazzaro.

D. E’ vero. Lazzaro è risorto prima di Gesù. Potremmo dire che la sua Resurrezione è un annuncio di quella di Gesù.

R. Questo è il punto. E, in ogni caso, al centro viene messo l’uomo. Ora faccio un inciso e ritorno a parlare della Piccola passione di Dürer. Questo quadro, di fronte al quale ci siamo intrattenuti, me l’ha trovato Salomon, un commerciante che mi pare fosse di Vicenza, comunque veneto (ora è morto, ma la sua attività la stanno continuando i figli) che probabilmente, come diceva egli stesso ridendo, veniva da una famiglia di salumai. Come attesta il cognome. Nel 1943 i nazisti vedono Salamon, equivocano e, pensando che il suo fosse un nome ebreo, lo prendono e lo deportano a Buchenwald. Lì, nel campo di concentramento, conosce un ebreo. Questo ebreo, che poi è morto, mentre Salomon è sopravvissuto, era uno storico dell’arte, specialista in stampe. Durante la prigionia si facevano forza, passavano il tempo, anche parlando di arte. Salamon ascoltando e l’altro raccontando la bellezza delle stampe: gli parlava di Dürer, di tanti artisti e di tante immagini che venivano evocate. Tanto che al commerciante, che prima era assolutamente ignorante in merito, è nata lì la passione per l’arte. E quando è tornato a casa (pensando a quanto gli aveva insegnato il suo amico, che era morto) ha raggranellato un po’ di soldi, è tornato in Germania e, con poche lire (come era possibile fare allora, dato che chiunque vendeva qualsiasi cosa per sopravvivere), ha comprato intere collezioni di incisioni e di stampe antiche, è diventato il più grande commerciante di stampe d’Italia. Tuttora i figli fanno questo mestiere. Non solo era diventato un ottimo commerciante, ma anche un esperto: ha scritto un libro, Il conoscitore delle stampe, che è un capolavoro.

D. E’ una storia incredibile, che ha, in se stessa, un grande significato, anche in relazione al tema di cui stiamo parlando.

R. Quando ho saputo di questa immagine della passione, ho pensato che mi sarebbe piaciuto averla, a un prezzo accessibile alle mie finanze da professore. Sono andato a parlare a Salamon, di cui ero divenuto amico. Quando ha rinnovato il suo piccolo negozio di stampe (nel frattempo infatti le sue attività si erano accresciute), ha chiamato me a Torino, come esperto e professore di Estetica e Sgarbi. Sgarbi, che era già famoso come ora, ha cominciato a recitare la parte che più gli è consona: quella dello Sgarbi. Ne nasce un diverbio, siamo quasi venuti alle mani. Sgarbi è così, anche se poi ho capito che è un personaggio che «ci fa», che recita, tant’è vero che poi siamo andati tranquillamente a cena insieme. Il giorno dopo Salamon mi manda un bigliettino con un piccolo pacco con un’incisione. «Professore, mi dispiace per la gazzarra di ieri sera, spero che non si sia offeso…». Ma io non mi ero offeso. Mi dà questa incisione, siamo diventati un po’ amici: egli mi ha dato un suo libro, io uno dei miei…E quando gli ho parlato del mio desiderio, mi ha detto: «Mi dia tempo, cerco di trovargliela ad un prezzo accessibile». E così è stato. Mesi dopo mi telefona, torno da lui e mi racconta la sua storia.

D. E’ così, dunque, che quest’immagine è arrivata fino a te?

R. Questo per dirti come le immagini parlino. Se noi vogliamo interrogarci, come stiamo facendo, sul significato della Resurrezione, cominciamo a chiederci cosa essa ha significato nel passato. Nel passato ha significato tante cose, come abbiamo cercato di capire, guardando queste immagini ed anche riandando a vicende e vicissitudini che ad esse, talvolta, sono legate.

D. E’, certo, una suggestione potente, quella della Resurrezione. Come sottolinea il racconto dell’aneddoto (appreso anni fa dal mio amico Lodovico Grassi e che tu hai ben ricordato prima) del «sindaco santo» Giorgio La Pira, in visita a Budapest, che incontra il grande filosofo marxista Lukàcs e cerca di interessarlo, parlando di temi sociali e finendo, in realtà, per annoiarlo morte. Finché La Pira non se ne esce con una riflessione, a lui congeniale, chiedendosi:«e se Cristo fosse risorto?», riuscendo a far sobbalzare sulla sedia l’incuriosito ed illustre interlocutore, che sentitamente esclama: «Ecco un tema che mi interessa!» Un tema che fa sobbalzare, che dà una prospettiva diversa al senso delle cose. Secondo te per gli uomini e le donne degli anni Duemila (secondo il titolo del volume di «Testimonianze» cui è destinata anche la trascrizione della nostra conversazione) che cosa può evocare la Resurrezione?

R. La prendo apparentemente da lontano per rispondere. Quando, subito dopo l’11 settembre 2001, ci si interrogò su quello che era successo, Andrè Glucksmann, il noto filosofo francese, ha detto: «Se volete capire che cosa è successo, andatevi a leggere Dostoevskij». Certo il terrorismo dei tempi di Dostoevskij era tutt’altra cosa rispetto a quello islamico, però ci sono delle tematiche, o dei temi, come quello del male, come quello del rapporto fra nichilismo e terrore, che aveva già visto Dostoevskij. Nichilisti come sinonimo di possibili terroristi. Tahar Ben Jallun ha cercato di fare una ricostruzione di questo tipo delle ore precedenti all’attentato alle Torri Gemelle e ha visto che i responsabili di quel tremendo atto distruttivo non erano tanto dei fanatici islamici, quanto dei nichilisti contemporanei che non avevano nessuna fede. Era la loro mancanza di fede che li ha portati a fare quello che avevano fatto, esattamente come i terroristi in Dostoevskij.

D. Nichilismo come indifferenza al valore della vita?

R.Il nichilismo come indifferenza alla vita, porta al terrorismo, porta a gesti estremi. Questa constatazione, per opposizione, ci fornisce anche la risposta fondamentale agli interrogativi che si pongono attorno al tema-Resurrezione. Volete sapere cosa può essere per noi la Resurrezione? Andatevi a leggere Dostoevskij. Andava al nocciolo delle cose, questo grande scrittore ed indagatore dell’animo umano. Che si contrapponeva a Tolstoj e contraddiceva radicalmente l’interpretazione della Resurrezione come semplice metafora del destino umano, del progresso, del miglioramento, del superamento dell’ingiustizia.

D. Ma non c’è anche in Tolstoj l’idea del riscatto personale, della redenzione personale e, dunque, della rigenerazione e della rinascita?

R. Secondo la mia lettura, in Tolstoj c’è la Rivoluzione, ma non c’è la Resurrezione. Dostoevskij invece diceva: «Per me tutto si gioca su questo punto: sulla Resurrezione o sulla sua negazione. E, anche se non lo citava, ricordava che se Cristo non è risorto a niente vale la nostra fede, secondo la già ricordata espressione di San Paolo. Questo è l’importante per lui, ma anche per noi, se è vero che lui è un nostro contemporaneo. Perché Dostoevskij aveva posto bene l’aut aut: da una parte il nulla (cioè il fatto che nonostante i nostri sforzi e la nostra speranza in un futuro migliore si va sempre a finire lì: che l’ultima parola ce l’ha il nulla, ce l’ha l’ingiustizia, ce l’ha il male, ce l’ha la morte), dall’altra c’è il valore profondo della verità, della dignità e della libertà spirituale dell’uomo. D’altra parte, c’è il problema che noi l’ingiustizia, il male, li viviamo come insuperabili nella morte.

D. In ultima analisi, non è che, alla fine, ognuno di noi riterrà sempre ingiusta la propria morte per quanto sia, anche, un ineliminabile fatto naturale?

R. Permettimi di proporre un delicato, e toccante, ricordo personale. Mi viene in mente il nostro povero Toraldo di Francia, sul finire della sua vita. L’ho visto battere disperatamente un pugno contro il vetro della macchina, lui, assolutamente laico, anche se non anticristiano, che si ribellava alla sua sorte dicendo: «Ma perché dobbiamo morire? La morte è assurda!». E in lui parla anche il cristiano, in quel momento: per il cristiano la morte è assurda, perché è assurdo ritenere che con la morte tutto finisca. Nel senso che se con la morte tutto finisce allora il male ha l’ultima parola. Se c’è la Resurrezione invece la nostra fede ha senso. La Resurrezione aiuta a pensare la cosa oggi più difficile: nonostante tutto il male non ha l’ultima parola. Il problema è filosofico prima che religioso e riguarda gli uni e gli altri, al di là delle opinioni, delle fedi e delle culture, perché tutti siamo di fronte a questo timore, a questa angoscia: che la morte azzeri il senso di tutta un’esistenza, che nulla ha senso perché la morte ha azzerato tutto, che l’ultima parola sia quella del male. La Resurrezione aiuta a pensare il «nonostante tutto». Se, al di là delle nostre paure, non è quella l’ultima parola, allora la speranza riprende campo e ci aiuta a pensare e a non suicidarsi. Non esiste un teorema della Resurrezione, questo è il punto: esistono delle immagini, esistono dei frammenti che ci mostrano una via possibile: come quell’incisione di Dürer che ci dice: «Nonostante tutto io sono qui. Il male non ha avuto l’ultima parola».

D. E, secondo te, percorsi, indizi, tracce che vadano in questa direzione come possono essere riconosciuti?

R. Possiamo rinvenirli ovunque venga contestato il Pensiero unico. Può essere in una lotta sociale per la giustizia nel Terzo mondo, può essere qui da noi laddove uno dice: «Non è vero che l’economia è l’ultima parola sul mondo, non è vero che i simboli, la trascendenza sono cose insensate…». Guarda il Risorto: è certo che fa saltare la logica del pensiero unico, e contesta quelle che sono le credenze oggi (perché sono miti e credenze anche quelle molto realistiche che ci dicono: «Stai coi piedi per terra, non cercare risposte in astrusi ideali ed in aeree speranze»).

D. Un invito a ribellarsi contro il puro e semplice dominio (e l’«idolatria») delle cose?

R. Certo, anche il dominio delle cose è un mito, può essere visto come l’ultima mitologia. Una volta non avevamo altro che questo: Gesù che fa saltare l’ordine delle cose e Lazzaro che salta fuori dalla tomba. Povero Lazzaro! È davvero uno saltato fuori dall’oscurità del pensiero unico. E’ sbalordito. E ogni volta che uno sbalordisce è perché intravede, o vive, qualcosa di straordinario. Non è così facile trovare il punto di sbalordimento, il punto che fa saltare le maglie di questa rete di cui siamo tutti prigionieri.

D. Ma non è uno sbalordimento che si innesca all’interno dei percorsi individuali oltreché (e più ancora) che nei processi sociali? Pascal è, in questo senso, un grande e quasi obbligato riferimento, laddove parla dello smarrimento nel porre in rapporto la brevità della propria vita individuale con l’immensità di quel che c’era prima e di quello che verrà dopo di essa. Questo senso di sperdimento, questo interrogarsi di ognuno di fronte all’infinità d quel che c’era prima e di quel che sarà dopo di noi, come può individualmente essere affrontato, senza soccombervi?

R. Questo sperdimento, lo sai meglio di me, è già un atto di fede, è già qualcosa che fa saltare gli schemi, perché nessuno più si sperde di fronte agli spazi infiniti. Si sa: è così! Nessuno si sperde di fronte al dominio degli apparati, delle logiche dominanti e così via. Sperdersi, sgomentarsi, smarrirsi anche, è già intravedere un barbaglio di luce, una piccola esplosione di questa catena, di questo mondo che sembra l’unico possibile. Allora, ovunque c’è questo soprassalire, io vedo già una risoluzione. Ovunque c’è lo sperdimento che può avvenire di fronte a Gesù Cristo, ma anche di fronte a qualsiasi entità ed all’interrogazione sul senso profondo delle cose, io vedo una scintilla, una possibilità di Resurrezione. Ma di sbalordimento ne vedo davvero molto poco. Di fede ne vedo molto poca, se dentro lo sbalordimento o lo sgomento c’è già un principio di fede, ne vedo poca. Però c’è da qualche parte. C’è. Non è stato, forse, chiesto: «Ci sarà ancora fede sulla Terra?».

D. E’, dunque, questa la domanda di fondo?

R. Sì, nel senso che abbiamo fin qui detto: che fede e Resurrezione hanno un legame strettissimo.

D. Fin qui abbiamo parlato di possibili percorsi di rigenerazione, di speranza e di rinascita. Ma quali sono luoghi in cui cercarne oggi le tracce?

R. Come cercavo di dire prima, forse, sono quelli meno visibili. Simbolicamente e storicamente, la dislocazione e la destinazione ideale potrebbe essere una qualche città del terzo mondo. Dove se non lì? E non penso necessariamente ai missionari (pur se ve ne sono che fanno un grande lavoro). Come dice il Salmo, «Dio non fa rumore», Dio, che poi è il bene, non si vede, però c’è. Lo Spirito, il principio di Resurrezione c’è.

R. Qualcuno, non provocatoriamente, potrebbe chiedere: anche nelle Chiese?

D. Questa è una domanda che ha dilaniato, a volte, uomini e donne di profonda fede e che porterebbe molto lontano. Non voglio evitarla, né banalizzarla. Provo a porre, a mia volta, una semplice domanda: perché no?