Le signore di Bahia
di Patrizia Giancotti

Il culto del Candomblè di origine africana, gestito soprattutto dalle donne, sta
avendo una nuova fortuna e costituisce a Salvador de Bahia un importante
strumento di integrazione sociale

“coloro che si prendono cura del culto degli dei-orixas sono le Signore di Bahia, una più bella e sapiente dell’altra, principesse e regine, le iya, le madri del popolo”
Jorge Amado

“La città delle donne”

Città moderna di circa tre milioni di abitandi, con un centro commerciale avveniristico di cristallo e acciaio e un cuore antico vibrante di tamburi, Salvador ha 365 chiese e 4.000 luoghi di culto afro-brasiliani.
Fino alla fine dell’ottocento la capitale afro del Brasile ha offerto le sue spiagge bianche all’approdo delle navi negriere che hanno scaricato là milioni di africani: “la Forza che ha salvato il Brasile dalla tristezza del fado”, secondo lo scrittore Jorge amado.
Polo propagatore di questa forza tradotta in musica, danza e poesia è la religione del candomblé, col ante portentoso della diaspora nera.
Scampato alle sanguinose persecuzioni, il candomblé non solo è sopravvissuto, ma prospera e si espande vitalmente nella Bahiadi oggi.Tra i motivi di questa espansione c’e senz’altro anche la predominanza dei ruoli femminili in un panorama religioso dominato dal maschio come Dio e come intermediario. Al contrario il candomblé pone al centro la figura della don-a che cura, nutre e interpella gli dèi. Una gran quantità di divinità femminili dalle caratteristiche variegate e affascinanti affollano gli altari di queste sacerdotesse-madri supplementari, sempre prodighe di consigli e benedizioni. E ancora sono in maggioranza le donne che danzando “ricevono” gli orixàs nella trance, ne vestono gli abiti, ne brandiscono le insegne spade o specchi, serpenti di ferro o arco e freccia.

Nel candomblé certo esistono ruoli maschili. Anzi, suonatori, dignitari oga e axogum, possono essere solo di sesso maschile ed anche al massimo livello della gerarchia esistono moltissimi sacerdoti-pai de santo.
Ma l’atmosfera che si respira nel terreiro tra il roteare delle immense gonne, l’arte della preparazione del cibo per gli orixàs, l’atteggiamento in ogni caso materno, di conforto e consiglio dell’officiante, sono tutti al femminile. È il regno delle iyàlo-rixàs, madri degli orixàs in lingua yoruba, maes de santo nel portoghese di Bahia.
Così doveva sembrare anche alla sociologa della Columbian University Ruth Landes che nel 1947 titolava il suo libro su Salvador de Bahia “la città delle donne”. E si chiedeva: “crederanno negli Stati Uniti che esiste un paese dove le donne amano gli uomini, si sentono sicure e a pro-prio agio con loro senza temerli?”. Definendo il terreiro – il luogo di culto del candomblé – “un tempio matriarcale in cui gli uomini anche se necessari, non sono che semplici spettatori” si spinse oltre affermando che “se gli uomini vogliono accedere alle alte cariche lo possono fare solo rinunciando alla propria virilità, imitando il comportamento delle donne.
All’epoca la tesi di Ruth Landes fu liqui-data da eminenti studiosi come “femminista” e subito sepolta dalla comunità dei ricercatori. Era invece una giusta intuizione, anche se mancava effettivamente un riscontro scientifico.
Il culto del candomblé era ufficialmente vietato fino al 1946, anno in cui lo scrittore Jorge Amado, allora parlamentare comunista, propose la legge per la libertà di religione, tuttora vigente in Brasile. La repressione aveva lasciato però un senso di autoprotezione e di chiusura. Aperto nella rappresentazione e nella festa il popolo del candomblé è tuttora serrato in se stesso per quelli che si chiamano fundamentos e non disponibile a svelare i segreti della sua gestione interna.
La nascita del Candomblé

Mi interessava la forza intrinseca di questo culto che aveva resistito alla schiavitù e alla repressione spietata ed i motivi che avevano portato le donne ad esserne le esperte rituali per eccellenza.
Prima di affrontare il lavoro sul campo per appurare una effettiva preponderanza femminile ai vertici del culto, volli consultare il Grande Vecchio degli studi afrobrasiliani. L’etnologo francese Pierre Verger: aveva all’epoca ottantasei anni e ne aveva passati quaranta a studiare i rapporti tra l’Africa e Bahia. Nel suo ampio abito africano, faceva saettare gli occhietti az-zurrissimi e mi scoraggiava energicamente «Per il loro splendore le donne nel candomblé eclissano gli uomini, ricercatori poco attenti possono confondere appariscenza con posizione gerarchica concludendo affrettatamente per una maggiore importanza delle donne. E già stato dimostrato che gli uomini sacerdoti sono anche più numerosi».
Pensai di cambiare strada, ma poi scoprii che esisteva un organo preposto al censimento dei luoghi dì culto e dopo un anno riuscii ad avere accesso ai dati e a fare io stessa una ricerca sul terreno.
Le donne erano il 68%, non solo «appariscenza».Vivendo con loro capii che avevano fatto del terreiro un luogo di riunione quotidiano sorretto da una sorta di sorellanza di mutuo soccorso in una società che spesso relega le donne a ruoli di subordinazione.
Le donne, le uniche capostipiti possibili in tempo di schiavitù, ebbero il compito di adattare i precetti tradizionali al nuovo mondo e quello di fondare i primi luoghi di culto.
Secondo Basil Davidson nei duecento anni della tratta arrivarono alle coste del Brasile circa cinque milioni di africani. Per quelle navi stipate di «merce umana» Bahia fu il porto d’arrivo.
Nell’ultima fase della tratta, che in Brasile fu decretata fuori legge, almeno sulla carta, il 13 maggio del 1888, approdarono a Bahia molti africani del ceppo linguistico yoruba (presente in vari stati dell’attuale Nigeria, Kwara, Bende!, Ogun, Ondò, Oyo, del Benin e del Togo).
Tra questi discendenti di Keto, Ljexà, Egbò, Oyo c’erano principi, sacerdoti e dignitari; tra le donne, che secondo i documenti dell’epoca costituivano solo il 10%, 15% del carico, vi erano «madri di palazzo» e sacerdotesse personali del re di Oyo.
Sebbene fossero arrivati a Bahia verso la fine del commercio di schiavi, gli yoruba furono tra i primi a liberarsi senza aver avuto il tempo di dimenticare i precetti religiosi lasciati da poco tempo, contribuendo a rifondare l’istituzione religiosa e sociale che doveva adattarsi alla nuova situazione.
Il ruolo delle donne nella gestione del culto

Questo compito spettò alle donne.
La prima, intorno al 1830, fu Iyà Nasso, schiava liberta, madre spirituale del re di Oyo, addetta al culto di Xango dio della giustizia, del fulmine e del fuoco, orixà capostipite della dinastia reale. Secondo la tradizione Iyà Nasso piantò in terra brasiliana l’axé, la forza sacra yoruba, il principio vitale che pervade gli orixàs, gli esseri viventi e tutte le cose del creato e che si trasmette attraverso mezzi simbolici. Nacque il terreiro llé lyà Nasso Lngenho Velho – Casa Branca ancor oggi uno dei più attivi e prestigiosi della città.
«lyà Nasso non era sola – scrive l’etnologa brasiliana Juana Elbein -con essa è venuto Xango, da lei “ricevuto” e personificato, dio della giustizia regale, principio dell’organizzazione sociale e politica che porta con sè l’axé, il potere realizzatore».
Le fanno eco con un canto celebratico gli adepti odierni del candomblé, per i quali lyà Nasso rappresenta l’origine e l’emanazione del principio sacro:
«lì figlio discende dalla Madre Poderosa
lì figlio è l’immagine della Madre
Siamo i figli di Xango Afonjà
Siamo qui!
La guerra ha portato la madre
Lei non teme la battaglia
Perché la Madre ha perso la paura
Chiediamo agli orixàs che l’allegria si allarghi sul mondo»
Ma non potrebbe essere solo il ruolo di prestigio rivestito in Africa dalla prima fondatrice a favorire la gestione del culto da
parte delle donne.
Il minor valore sul mercato delle schiave femmine, che costavano un terzo dei maschi, fu per una volta un vero vantaggio.
Mentre gli uomini tagliavano canna da zucchero o raccoglievano cacao nelle piantagioni, le donne lavoravano in città,
in famiglia, come domestiche, balie, amanti o vendendo in strada cibi cotti e manufatti per conto del padrone che lasciava loro un piccolo guadagno. Quando, nel 1871, con l’articolo 4 della legge 2.040, cosiddetta del «ventre libero», fu possibile «ricomprare» la propria libertà le
donne poterono riscattarsi molto più facilmente liberandosi molto prima o in maggior numero.
Libere di agire e di incontrarsi si riorganizzarono socialmente attorno all’axé.
lì gruppo della diaspora si consolidava così a partire dai nuovi avi in terra straniera:
le Madri fondatrici dei terreiros, nuove capostipiti e antenate della comunità.
Alla famiglia tradizionale disgregata si offriva il riscatto della familia de santo, una
rete di rapporti di parentela basati sulla iniziazione rituale, con a capo una madre.

Il Candomblé

Oggi il culto degli orixas, rabilitato, ha mantenuto il suo importante ruolo di integratore sociale ed ha allargato il cerchio dei suoi adepti e simpatizzanti a fasce sociali sempre più ampie. I frequentatori degli oltre tremila luoghi di culto, tra loto liberi professionisti, uomini politici, artisti, scrittori, sono attratti dal ricchissimo patrimonio simbolico del candomblé.
Dalle feste per gli orixas che sono vere e proprie celebrazioni della vita, dalla musica rituale dalla quale non smette di sgorgare ispirazione per tutta la musica popolare brasiliana, dalla danza, dal senso di appartenenza al gruppo che coinvolge tutti i presenti, dal carisma delle maes de santo, sorta di madri supplementari sempre pronte al conforto, al consiglio, alla benedizione.
Il comune denominatore non è più necessariamente l’origine africana. Forse il grande Pierre Verger, non più in questo mondo dal maggio ’96, conoscendo molto bene la situazione in Nigeria e Benin, stentava ad accettare che qualcosa fosse cambiato nella traversdata e che il potere religioso, più maschile in Africa, fosse qui in mano alle donne. A Bahia il culto africano è diventato qualcosa di diverso. Inglobando divinità indigene e santi cattolici, superava il recinto della schiavitù, prescindeva dal colore della pelle e dalla nazionalità diventava una religione per tutti. Le divinità legate alla discendenza patrilineare diveniva divinità personali, sorta di alter ego divini.
Il nome candontié designava anticamente l’apparato musicale, strumenti e ritmi, che accompagnavano le cerimonie dedicate agli dei africani oixàs. Col passare del tempo passò ad indicare il culto vero e proprio ed anche il luogo in cui si svolgono le celebrazioni, altrimenti detto terreiro. La festa dì candomblé ha per gli adepti lo scopo di mettere in comunicazione l’essere umano con il suo alter-ego divino. Ciò si ottiene mediante lo scrupoloso susseguirsi di ritmi e danze che “richiamano” gli orixas sino al loro manifestarsi nella trance degli adepti.
Gli orixàs hanno una personalità ben precisa che si esprime anche attraverso la danza, sempre riconoscibile. Questi dèi formano un vero e proprio olimpo africano dove il creatore supremo è un dio lontano dagli uomini, Olorum, che manda i suoi intermediari sulla terra. In Africa queste divinità erano venerate in luoghi diversi, ma in Brasile il luogo di culto è stato unificato. Gli stessi orixàs che in Africa erano divinità familiari tramandate per via paterna, e sparse su tutto il territorio diventano in Brasile divinità personali, raccolte in un unico luogo. La divinità personale è stabilita dalla sacerdotessa o dal sacerdote – mae de santo, pai de santo – mediante una seduta divinatoria. Si consultano gli dèi utilizzando delle conchiglie-cauri. Una volta stabilito l’orixà, l’esperta rituale prepara una collana di perle di ceramica con i colori associati alla divinità in questione. Dopo il trattamento il filo di perle diviene, per l’adepto, un prezioso oggetto personale che protegge e guida chi lo indossa partecipando dell’axé, la forza del dio al quale è stato consacrato.