La scuola di tutti
di Attilio Monasta

Sommarietto: E’ necessaria una nuova azione riformatrice che abbia un largo consenso e che punti a creare una scuola di tutti, vero “servizio pubblico”, in funzione dell’interesse generale, strutturata in un sistema flessibile, in cui si realizza una progressiva evoluzione della professionalità e dello stato giuridico degli insegnanti

Una questione complessa

Lavorare nella scuola e per la scuola significa, in Italia come altrove, operare per la costruzione di una società civile, ben organizzata e raccolta intorno a valori morali e civili condivisi. La questione, di per sé complessa, assume particolari connotazioni se si tiene conto che la trasformazione in corso nel sistema scolastico italiano presenta difficoltà, limiti e strumentalizzazioni, come tutti sanno, proprio perché essa s’innesta in una cultura ed in una tradizione arretrate, sia sul piano degli elementari livelli di sapere, sia sul piano della gestione della cosa pubblica.

Storia di un cambiamento

Il sogno di un’educazione universale e dell’istruzione per tutti è certamente antico, almeno quanto la cosiddetta “modernità”. Ne parlavano già Campanella e Bacone nelle loro “utopie”, è stata una delle prime realizzazioni della Riforma protestante nei paesi di lingua tedesca, fin dal XVII secolo. Quel sogno fu già tradotto in progetti politici, proposte di legge e poi norme giuridiche fin dalla fine del XVIII secolo: basti ricordare il progetto di Condorcet durante la Rivoluzione francese o quello di Vincenzo Cuoco durante la Rivoluzione napoletana del 1799. A partire da questa epoca, in alcuni paesi, quali ad esempio Francia, Germania, Regno Unito, paesi scandinavi, l’istruzione elementare è diventata, effettivamente, un dato acquisito per tutti i cittadini entro il XIX secolo; nella prima metà del Novecento, poi, il livello di istruzione che effettivamente tutti concludevano in questi paesi, ma anche negli Stati Uniti e nella Russia Sovietica, si era già elevato ai primi anni della scuola secondaria, se non a tutta la scuola.
Tuttavia l’idea e la funzione dell’istruzione che erano a fondamento di questa diffusione della scuola per tutti e delle norme che la promuovevano, non solo erano, ovviamente, molto diverse da quelle di oggi, ma erano collegate ad un progetto diverso. Fino all’avvento della scolarizzazione di massa, infatti, l’istruzione non è mai stata per tutti. Le differenze di classe sociale hanno sempre inciso sia sul successo iniziale, anche di coloro che accedevano ai livelli elementari di istruzione, sia, soprattutto, sull’accesso a livelli superiori ed al tipo di istruzione o formazione successive al livello elementare. Per questo la scuola, anche nei paesi che avevano già raggiunto una scolarizzazione totale entro la metà del Novecento, aveva soprattutto un funzione di canalizzazione, cioè di avvio ai vari percorsi che il sistema formativo offriva, per le esigenze professionali e produttive della società. Vi sono segnali evidenti di questa concezione, anche se diversi a seconda dei vari paesi. Oggi in tutti i paesi avanzati, l’intera popolazione riceve un’istruzione fino a 18 anni, ma, più o meno precocemente viene avviata a livelli diversi di formazione sulla base del risultato scolastico ottenuto. In certi casi, questa divisione in indirizzi di studio e di formazione avviene molto precocemente, cioè nella scuola stessa (come in Germania ed in Austria), in altri casi essa avviene, comunque, al termine della scuola quando solo alcuni possono accedere all’Università, altri ai Colleges o simili istituzioni, altri alla formazione professionale.
Ricerche condotte negli Stati Uniti su generazioni successive di persone, dopo mezzo secolo di scolarizzazione di massa, provano che la scuola non riesce ad essere un fattore di mobilità sociale. Se negli anni trenta i tassisti di New York avevano solo il livello di istruzione obbligatoria, oggi i loro figli hanno il diploma superiore rilasciato dal College, ma, in molti casi, fanno ancora il tassista. Questo, però, è proprio il segno di una trasformazione della funzione e dell’idea stessa di scuola e di istruzione di base. La “canalizzazione”, per quanto insopprimibile, non è e non deve essere più nella scuola e fatta dalla scuola, ma avviene quando la persona è più matura.
E’ troppo complesso cercare di scoprire il perché della scolarizzazione di massa. Ma è certo che, da quando, per i più diversi motivi (molti dei quali nulla hanno a che fare con le utopie pedagogiche), nelle società avanzate l’istruzione per tutti ha raggiunto il livello ultimo della scuola e l’istruzione “di massa” si è riversata anche sull’Università e le altre istituzioni di istruzione superiore, la funzione della scuola è radicalmente cambiata: essa non può e non deve essere più un percorso gradualmente selettivo, disegnato sugli “sbocchi” professionali e sociali che caratterizzano una data società. Questa funzione si sta spostando verso momenti, luoghi e procedure successivi ed esterni alla scuola, almeno come essa era intesa fino ad oggi, cioè successivi ed esterni rispetto al luogo e al tempo in cui la popolazione giovanile, dai 5 o 6 anni (c’è chi dice anche dai 3 anni) fino ai 17 o 18 anni, riceve quella che, in alcuni paesi, infatti, non si chiama più istruzione primaria o secondaria, ma si chiama istruzione di base o “scuola per tutti” (ad esempio, volkeskole in Danimarca).

La nuova funzione della scuola

Questa trasformazione, a prescindere dalla coscienza che se ne può avere e dalle reazioni che provoca, è inarrestabile ed è iniziata, a seconda dei vari paesi, fra gli anni Sessanta e gli anni Settanta del secolo che si è da poco concluso.
A livello teorico, già nei primi anni Settanta, da Althusser a Ivan Illich, da don Milani a Paulo Freire, dalle indagini di Bowel e Gintis in America a quelle di Barbagli e Dei in Italia, il concetto stesso di scuola, seppur con accenti molto diversi, era stato messo in discussione. Si poteva e si può ormai facilmente comprendere cosa è realmente avvenuto in due secoli, anche a partire dall’utopia ottocentesca e novecentesca della scuola per tutti: si è creato, insieme ad una indubbia crescita dei livelli di istruzione delle popolazioni, un sistema di consenso generalizzato alle stratificazioni sociali ed alla divisione sociale del lavoro.
Le contraddizioni esplose nella “scuola per tutti” negli ultimi decenni del XX secolo sono ben sintetizzate dalle diverse posizioni di don Milani e don Borghi in Lettera ad una professoressa: per il primo, più scuola per tutti significava promozione sociale, per il secondo, “questa scuola” estesa a tutti, non faceva che perpetuare e giustificare le differenze sociali.
Sono dello stesso periodo ricerche scientifiche multidisciplinari (come quelle del Club di Roma) e rapporti ufficiali dell’UNESCO (come il rapporto Faure) che già delineano quel sistema di “formazione continua” (oggi si dice, di lifelong learning) che presuppone un tipo di scuola generalizzata, lunga, ma diversa da prima, per garantire lo sviluppo democratico delle società che andavano verso la globalizzazione.
La funzione della scuola sta mutando da circa quaranta anni per i motivi più diversi e tutti assai importanti. Anzitutto, nelle società evolute la vita si allunga, il reddito medio delle persone, cioè le risorse economiche e finanziarie sono aumentate e l’uso che si può fare della propria vita e delle proprie risorse è molto diverso anche solo da quello che era cinquant’anni fa.
Poi il sapere stesso ha subito un’accelerazione ed una rottura delle barriere disciplinari che l’avevano sempre caratterizzato, così che è illusorio pensare di riprodurne delle immagini, anche se altamente riassuntive, in un “programma scolastico”, ma anche in una sola, per quanto autorevole, area disciplinare. Nessuno riuscirà più a “sapere” abbastanza, all’uscita di qualunque percorso di formazione, compresa l’istruzione universitaria. L’alternativa drammatica è fra un’ignoranza, ancora più pericolosa di quella dell’analfabeta del secolo scorso, finalizzata al consumismo ed all’assuefazione mediatica, ed una sufficiente capacità, ma anche una forte motivazione, per utilizzare gli strumenti che la nuova organizzazione del sapere mette a disposizione, al fine di controllare, con senso critico, le trasformazioni che avvengono.
Questa combinazione di fattori ha già imposto, in molte società avanzate, una “scuola di base” più lunga per tutti, articolata soprattutto sull’acquisizione delle “competenze di base”. Resta incerto il rapporto, che si sta instaurando, fra questa scuola, gli altri segmenti del sistema di formazione (l’istruzione post secondaria, universitaria e non, la formazione professionale, la formazione permanente) ed il mercato del lavoro. Le università di tutto il mondo, per quanto assai scosse dall’ondata, ormai trentennale, dell’istruzione di massa, lamentano l’impreparazione che caratterizza le nuove leve ed accusano la scuola di non fare più il suo vecchio mestiere. Mentre pare irreversibile la tendenza di affidare all’istruzione post-secondaria la funzione che, per due secoli (dall’istituzione napoleonica dei Lycées), ha svolto la scuola secondaria superiore.
Sembra che il mondo accademico, un po’ in tutti i paesi, riproponga un ritorno alla funzione selettiva della scuola. Ma una scuola che selezioni precocemente fra chi può andare all’Università e chi non ci può andare è, ormai, uno spreco, oltre che fonte di disagio sociale. E dove le Università vogliono mantenere la loro antica funzione, cresce inevitabilmente un sistema parallelo di istruzione post-secondaria, per far fronte sia alle necessità delle professioni, sia al “recupero” ed al continuo aggiornamento delle competenze essenziali, funzioni tipiche della formazione continua. Il mio parere è che sia ormai impossibile tornare alla funzione che la scuola aveva nella società agricola o industriale, fino alla metà del Novecento. Per cui, operare perché la scuola, in questa direzione, sia in grado di garantire a tutti, secondo le potenzialità di ciascuno, la padronanza degli strumenti essenziali di accesso ai saperi e di scelta consapevole fra le possibilità che, successivamente, sono offerte, significa evitare che altri dirigano questa trasformazione verso esiti diversi.
Ecco perché le politiche di formazione hanno acquisito, negli ultimi trenta anni, un’importanza ed un peso, anche finanziario, come mai era accaduto prima. Ciò dovrebbe far riflettere. All’enfasi politica ed alla crescita di investimenti nella formazione, si accompagnano, infatti, misure di smantellamento delle tradizionali strutture. Il decentramento, l’autonomia finanziaria ed amministrativa, la competitività, la valutazione di sistema, il controllo sui risultati piuttosto che sui “programmi d’insegnamento”, sono tutti segnali di un modo di dirigere l’evoluzione della scuola, in tutti i paesi del mondo, verso un ruolo diverso da quello che ha sempre avuto.

Una scuola in ritardo

La scuola italiana presenta, all’interno di questa analisi, una sua peculiarità. La scolarizzazione non ha mai raggiunto i livelli quantitativi dei paesi di cui si è parlato. Non si deve dimenticare il primato positivo che ha la scuola dell’infanzia italiana: la percentuale di bambini fra i tre e i cinque anni che vanno a scuola, è fra le più alte del mondo e l’ottima qualità di tante esperienze in questo settore è nota. Ma poi il divario con gli altri paesi si allarga sempre più. Questa situazione era già chiaramente percepita da quanti erano adulti negli anni Settanta. Il riferimento cronologico è d’obbligo se si pensa che proprio sui risultati del censimento del 1971, erano emerse, da un lato, la consapevolezza della gravità dei livelli di analfabetismo, sia reale che funzionale, della nostra popolazione (76,6% di italiani senza diploma di scuola media) e, dall’altro, importanti iniziative per superare questa situazione di marginalità del nostro sistema di istruzione, rispetto a quelli dei paesi che, allora, facevano parte della CEE. Le cosiddette “150 ore” (il diritto allo studio dei lavoratori sancito dai primi contratti di lavoro nel 1973), la prima proposta di legge di riforma della scuola secondaria (1972), la legge del 1974 da cui sono scaturiti i famosi “decreti delegati”, sono direttamente conseguenti sia all’analisi dei bassi livelli di istruzione della popolazione, accertati dal censimento, sia all’avvio di riforme nei sistemi formativi degli altri paesi europei, come la legge francese sulla Formation continue del 1971 ed il superamento delle Grammar schools nel Regno Unito.
Chi lavora per la scuola non può non interrogarsi sull’anomalia di un paese che, dopo quegli inizi, abbastanza in linea con il cambiamento, si è poi sostanzialmente fermato per più di venti anni, almeno per quanto riguarda la struttura della scuola e della formazione professionale. Negli anni Settanta si erano avviati processi di riforma della scuola secondaria superiore, più volte giunti in Parlamento e mai conclusi. Dopo i “decreti delegati” del 1977 lo stato giuridico degli insegnanti non è mutato. La legge-quadro sulla formazione professionale (1978) è ancora in vigore, anche se essa è chiaramente superata.
Quindi, che la condizione del sistema scolastico fosse arretrata e si registrasse un ritardo nel suo adeguamento quando, nel 1996, si è voluto metter mano ad una riforma complessiva, è difficilmente contestabile, se è vero che il censimento del 1991 evidenziava che la percentuale di popolazione italiana con livelli di istruzione inferiori a quello “obbligatorio” era la più alta d’Europa: più del 65%. Nel 1998, l’analisi del sistema italiano di istruzione, fatta dall’OCSE, insieme a elementi positivi di varia natura, sottolineava due primati negativi: un tasso di non completamento degli studi a 16 anni che era il più alto d’Europa (circa il 35 % della classe d’età) e una proporzione inversa, anch’essa unica in Europa, fra livello di istruzione e reddito: più alto è il livello di istruzione, più basso è il reddito medio.

Le trasformazioni in corso

E’ certo che, dall’autunno del 1996 (Accordo fra governo e parti sociali) si è voluto dare un impulso deciso e presumibilmente risolutivo alla riforma della pubblica amministrazione e del sistema formativo, con un progetto complessivo che era già chiarissimo fra il febbraio ed il marzo del 1997. Si può dissentire su questo disegno, ma non si può dire che, all’origine, non fosse chiaro. Anzi, anche la tattica con cui si è affrontato il difficile problema della trasformazione del sistema formativo e della scuola, risulta evidente dai documenti: poiché l’esigenza di ammodernamento della pubblica amministrazione era incontestabile ed ampiamente condivisa (la prima legge sulla nuova dirigenza dello stato era del 1993), si è inserito, nella legge “Bassanini” (L. 59/97) e in un solo maxi-articolo di questa legge (l’art. 21), l’intero impianto di riforma strutturale della scuola. Tutto ciò che è stato effettivamente attuato (decentramento, autonomia, dimensionamento, nuova dirigenza, nuove modalità di gestione delle risorse finanziarie) è scritto in quell’articolo, le cui frasi possono essere riscontrate, talvolta semplicemente copiate, in tutta una serie di provvedimenti adottati successivamente per la trasformazione del sistema scolastico.
La “Bassanini” è diventata legge dello Stato nel marzo del 1997. Questa trasformazione profonda della pubblica amministrazione, realizzata dal governo di centro-sinistra, ha fatto propria una spinta che ha origine dal fatto che fra il 1993 e il 1995 era stato firmato ed entrato in vigore il trattato di Maastricht, che stabiliva l’adozione, entro pochi anni, di una moneta unica, fatto incompatibile con amministrazioni della cosa pubblica e delle finanze dei vari paesi molto differenti fra loro.
La riforma del sistema scolastico, presentata nel gennaio del 1997 con un ampio documento sulla “Riforma dei cicli di istruzione”, per quanto con alcune contraddizioni ed alcune sbavature, rappresentava un chiaro disegno organico, tradotto in proposta di legge (già con alcune mediazioni riduttive) nel maggio del 1997, due mesi dopo l’approvazione della “Bassanini”. Ma fra questo disegno iniziale e l’approvazione definitiva della Legge 30/2000, non sono solo passati ben tre anni, cioè più della metà della legislatura, ma anche tali e tanti interventi di aggiustamento, modifica e mediazione, che le stesse forze politiche, che avevano promosso la riforma, non parlavano più di “disegno”, ma di “mosaico” il cui significato si sarebbe compreso solo dopo la sua realizzazione.
Si dice che la fine della legislatura ed il cambio di maggioranza politica abbiano impedito la realizzazione di questo tipo di riforma e la nuova maggioranza, dalla sua campagna elettorale, fino al varo di una nuova legge (la legge 53/2003), che esplicitamente abroga la legge 30/2000, ha sempre sostenuto che “quella riforma” non si doveva realizzare, ma che era suo intendimento por mano ad una “altra riforma”.
Al fine di dare un contributo costruttivo alla battaglia per la scuola e in una prospettiva di valutazione critica e non settaria di cosa stia realmente succedendo, preferisco proporre una lettura un po’ diversa di queste istanze di cambiamento. Abbiamo di fronte e dobbiamo dirigere un processo di trasformazione irreversibile, fatto di spinte e contro-spinte, frutto di compromessi e interessi i più diversi, i cui veri protagonisti devono essere soprattutto gli insegnanti ed i dirigenti scolastici. Sono essi che influenzano le scelte politiche, con il loro dissenso o il loro consenso. Il regime di autonomia gestionale, amministrativa e finanziaria, che oggi scarica sui singoli istituti scolastici le responsabilità, le difficoltà e l’adozione delle misure necessarie per la vita quotidiana delle istituzioni scolastiche, obbliga a ritenere il personale della scuola protagonista, comunque, della trasformazione in corso.

La politica e la scuola

Sul piano dei rapporti di forza e del consenso democratico, è certo che le intenzioni iniziali di chi ha proposto un disegno di riforma, hanno dovuto e debbono fare i conti con l’elettorato. Qualunque ne siano le cause, le trasformazioni imposte alla pubblica amministrazione ed alla scuola dal 1996 ad oggi non godono di grande popolarità. La lotta politica per non perdere o, se possibile, acquistare voti, già condizionata, in Italia, da una connotazione ideologica degli schieramenti, si è frammentata a tal punto, negli ultimi anni, che, anche a causa del nuovo sistema elettorale, basta una manciata di voti per determinare la stabilità o l’instabilità di un governo. Questa frammentazione, purtroppo, non è solo fra le forze politiche, ma anche fra quelle culturali e sociali, divise in centinaia di gruppi e associazioni, lobby e aggregazioni di interesse, che, mentre rivelano la grande vivacità del tessuto sociale italiano e impediscono, forse, grandi concentrazioni di potere, si rivelano spesso reciprocamente esclusive e impotenti, salvo trovare provvisori accordi di spartizione delle loro sfere di influenza.
C’è, in ogni schieramento politico, la necessità di moderare o limitare le proposte più forti e di tener conto delle reazioni dell’elettorato, quando diventa politicamente pericoloso spingere troppo su trasformazioni che, pure, sono necessarie. Un esempio viene proprio dalle vicende della “riforma” Moratti. I documenti prodotti dalla cosiddetta “Commissione Bertagna”, lo dicono chiaramente. Uno dei punti più evidenti è la necessità, condivisa, di creare un percorso lungo di formazione di base che superi le distinzioni secolari fra scuola primaria e scuola secondaria di primo grado (scuola elementare e scuola media), proprio nella direzione della trasformazione del concetto stesso e della funzione della scuola. Poiché la politica si basa sul consenso e sui voti, proprio in quei documenti si legge che ciò potrà avvenire quando fra gli insegnanti sarà maturata una diversa consapevolezza, ma, nello stesso momento, si infila nel testo di legge 53/2003 la soluzione che non faccia sfigurare davanti al mondo intero e cioè si dice che la scuola si articola in “un” primo ciclo composto dalla scuola elementare e dalla scuola media, e da un secondo ciclo che rappresenta il sistema di istruzione e formazione fino ai 18 anni.
Altro dato, che nasconde una sostanziale convergenza sulle linee già avviate dalla maggioranza precedente, è infatti la necessità che tutta la popolazione giovanile sia “in formazione” almeno fino a 18 anni. Le leggi del 1999 parlavano di “obbligo”, la legge 53/2003 parla di “diritto”, ma due realtà sono innegabili: da un lato in tutto il mondo si chiede una formazione più lunga, dall’altro, non si vede, né nelle leggi precedenti né in quelle successive, cosa in realtà si possa fare affinché questo obbligo o questo diritto possano essere realizzati. Quando si passa, infatti, alla possibilità reale di risolvere il problema, entrano in campo tutte le resistenze economiche, culturali e perfino psicologiche che si volevano mascherare con gli artifici del linguaggio.
Non voglio assolutamente dire che ci sia una convergenza, né tanto meno una continuità politica fra il processo avviato dal centro sinistra e quello che il centro destra intende attuare. Sul piano politico la differenza è netta. Ma chi ha a cuore gli interessi della scuola come fattore di democrazia, non può contentarsi del livello ideologico e politico (in questo senso) dello scontro. I problemi da risolvere, gravi e persistenti, restano non solo irrisolti, ma nemmeno discussi. Le linee di trasformazione oggettiva e irreversibile, osservabili facilmente nel contesto internazionale, ci sono e devono essere sapientemente illustrate e fatte comprendere ai protagonisti di queste trasformazioni, che hanno il diritto di gestirle e di non subirle.
Se di continuità si può parlare, essa non si riscontra sul piano politico, bensì sul piano dei problemi irrisolti e delle trasformazioni oggettive, epocali, ormai di lunga durata, che chiamano all’impegno tutti coloro che veramente hanno a cuore la funzione della scuola e della formazione nel nostro paese. Ci sono, fra i tanti, due problemi che rischiano di rimanere irrisolti.

 

Uno spreco di risorse

In primo luogo, lo spreco delle risorse intellettuali (e quindi anche della ricchezza materiale e spirituale) dell’intera popolazione, rappresentato sia dal massiccio “insuccesso scolastico” sia dall’illusorio “successo scolastico” di chi termina un percorso di studi, incoerente con l’evoluzione non solo economica, ma anche sociale e culturale, della società contemporanea. Il sistema non funziona, non solo perché perde per la strada una percentuale troppo alta di giovani, senza nemmeno sapere quale sia l’effettiva natura di questa “selezione”, ma anche perché limita e delude le aspettative di chi nel sistema resta, anche fino alla laurea. Quando si parla di “sistema” non si parla solo di scuola. I dati degli ultimi anni, da quando si è parlato di “obbligo di istruzione e formazione” fino ai 18 anni, dimostrano che la maggior parte di coloro che escono precocemente dalla scuola, non vanno da nessuna parte: se non accedono direttamente al mercato del lavoro, spesso illegale, si perdono proprio “per la strada”. Ma neppure un accesso precoce e, quindi, privo di forti elementi formativi, al mercato del lavoro è un fatto positivo: la stragrande maggioranza di piccoli e piccolissimi imprenditori, anche quelli di successo economico, non ha l’istruzione e la cultura sufficienti per una “convergenza” europea in materia di tasse, sicurezza, innovazione tecnologica e così via. D’altro canto, neppure il successo scolastico, per un numero di cittadini che è sempre più ristretto, via via che ci si avvicina ai livelli più alti di istruzione, garantisce un inserimento sociale adeguato.

Tra formazione professionale e formazione culturale

In secondo luogo, l’antica distinzione fra formazione culturale e formazione professionale si rivela oggi, sempre più, come un mascheramento ideologico della divisione non fra due tipi di formazione diversa, ma fra due schieramenti di potere, per quanto non riconducibili, ognuno, ad uno schieramento politico, anzi tanto più difficili da ricondurre ad una oggettiva strategia comune, quanto più hanno, al loro interno, tutte le varie componenti ideologiche e politiche della società. In tutte le società post-industriali è ormai assodato sia che la professionalità si comincia a costruire (o si comincia a deformare) fin dai primi anni della scuola, sia che la formazione culturale, vuoi quella generale e funzionale, vuoi quella proprio “disinteressata”, cioè non finalizzata all’esercizio di un particolare mestiere, si deve coltivare per tutta la vita, qualunque mestiere si faccia. La distinzione fra cultura come “ornamento” e professionalità come “affare” è oggi sicuramente una distinzione che non ha più nessun fondamento, né nella ricerca del sapere, anche più sofisticato e più astratto, né nella ricerca dello sviluppo economico, anche il più competitivo.

Alcune proposte

Per affrontare e tentare di risolvere questi problemi è necessario un consenso ampio, strategico, che vada al di là delle necessità contingenti della politica di parte, soprattutto della politica delle infinite piccole parti. L’impegno chiede un modo diverso di far politica, che deve comunque diventare il costume, la regola morale e professionale di chi opera nella scuola e con la scuola. Non è più possibile nascondersi dietro le responsabilità del quadro politico, dietro la mancanza di fondi, dietro l’illegalità diffusa a molti livelli. Che cosa può effettivamente fare, chi opera nella scuola e nell’università per trasformare il luogo e la funzione per cui lavora? Non è un appello agli individui, tutti con i loro comprensibili problemi. E’ una proposta di impegno organizzativo e professionale di natura nuova, di cui già, ad esempio, si trovano significativi esempi nelle reti e nelle associazioni di istituti scolastici, che proprio per l’autonomia giuridica di cui godono e che molti all’inizio deprecavano, possono diventare sia luoghi di elaborazione collettiva di cultura, di strategie e di proposte, sia gruppi di pressione politica non riconducibili meccanicamente agli schieramenti consolidati.
I punti essenziali di un’azione di governo che regoli le trasformazioni in corso nella scuola e nella formazione, sono, in maniera necessariamente assai sintetica, questi:
a) La scuola è, prima di tutto, un servizio pubblico, cioè un servizio di cui il gestore della cosa pubblica è responsabile di fronte al paese, alle giovani generazioni, ai cittadini, ai produttori di ricchezza. La scuola non può più essere intesa come una funzione delegata dalla famiglia allo stato o, peggio, ad agenzie private di varia tendenza ideologica, che garantiscano la divisione dei cittadini in tante corporazioni. E’ la scuola di tutti che, al suo interno, è responsabile di armonizzare e rendere pluralistica, democratica, solidale la convivenza fra persone e gruppi anche assai diversi, sulla base dei valori condivisi e sanciti dalla Costituzione. La famiglia e altre realtà sociali, hanno funzioni educative irrinunciabili, ma non possono di per sé garantire una crescita democratica di questo genere, né è corretto chiederlo, soprattutto quando non si dà nessuna effettiva provvidenza perché ciò sia realizzabile.
b) La scuola è l’asse della formazione delle giovani generazioni fino alla maggiore età, ma essa deve al suo interno potersi articolare progressivamente in percorsi che valorizzino al massimo le potenzialità e le capacità di ciascuno, non in funzione degli sbocchi occupazionali o della divisione del lavoro esistente, ma in funzione dell’interesse collettivo, e di lungo periodo, della società di avere cittadini capaci di contribuire nel modo migliore possibile alla vita democratica ed al benessere comune. Pensare ad una precoce distinzione fra “istituzioni” diverse che, prima dei 18 anni, canalizzino i cittadini in percorsi funzionali alle necessità produttive (per non dire politico-sociali) del paese, non è solo ingiusto, ma è oggi dannoso per lo sviluppo economico di lunga durata del paese.
c) Le istituzioni d’istruzione superiore, universitarie e non, e di formazione professionale, hanno la funzione di avviare alle varie professioni ed ai vari ruoli sociali. E’ opportuno che esse non chiedano di avere un’utenza già selezionata dalla scuola, anche perché avrebbero, forse, un piccolo vantaggio di qualità, ma un grosso danno di quantità. Sarà loro compito primario divenire luoghi di formazione e orientamento alle scelte professionali e di ulteriore sviluppo scientifico.
d) Le varie finalità della scuola, comprese quelle di crescita personale, culturale, sociale e professionale, vanno soddisfatte all’interno di un sistema assai flessibile, che preveda anche molte opzioni, ma non indirizzi rigidi, e che abbia al suo interno un sistema di valutazione basato sull’osservazione, il potenziamento e la certificazione di competenze, e finalizzato alla capitalizzazione dei risultati in qualunque modo acquisiti. Il percorso scolastico, se concluso, di fatto, a 17 o 18 anni, potrebbe anche essere un unico percorso gradualmente diversificato al suo interno. Ove non si creassero le condizioni per questa soluzione, resta il fatto che la principale finalità dell’istruzione e della formazione fino a 18 anni non è quella della selezione, per strade e percorsi diversi, bensì quella della reale motivazione e capacità dei soggetti, anche ottenuta per vie diverse, a volersi formare.
e) La divisione disciplinare del sapere, anche quando sia, com’è necessario, rivista, deve riguardare gli insegnanti e non essere una frantumazione dell’apprendimento degli allievi. La professionalità degli insegnanti si misurerà non solo sulla loro padronanza di un sufficiente sapere disciplinare, ma soprattutto sulla loro capacità di spaziare in aree di sapere più vaste e di fornire organizzazione e strumenti per l’acquisizione continua di nuove conoscenze e nuove abilità al di fuori e dopo il tempo della scuola.
Tutto ciò comporta una progressiva evoluzione della professionalità e dello stato giuridico degli insegnanti, nella direzione di un’articolazione di funzioni e di orari anche diversi fra loro e, non ultimo, la ristrutturazione degli ambienti scolastici, per rendere la scuola, non solo un migliore ambiente di apprendimento, ma anche un vero luogo di lavoro, per il personale che vi opera.