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La grande sfida
di Severino Saccardi

Il cibo, oltreché dimensione materiale, è cultura e metafora. E la storia dell’alimentazione umana (come attestano detti popolari, letteratura, arte e tradizioni religiose) ha connotazioni «di classe» e «di genere» ed ha legami profondi con le identità dei singoli, dei popoli e delle comunità locali. Oggi la riflessione critica sul grande tema dei cibi del mondo che rimanda al rapporto patologico fra sovralimentazione e denutrizione ed alla relazione fra tipologia alimentare e consumo di acqua, ci chiama ad assumere la sfida della sostenibilità, della tutela della qualità dei prodotti e della biodiversità ed a vivere la contaminazione fra tradizioni gastronomiche dell’età dell’interdipendenza come una grande occasione di incontro fra le culture del pianeta.

 

Gli «aspri doli» di Bertoldo

«Bertoldo morì tra aspri doli per non poté mangia’ rape e fagioli»: è un detto popolare che, fin da piccolo, ho sentito con intonazione vernacolare toscana ripetere in casa. Senza capirne mai davvero il significato. Perché al povero Bertoldo avessero impedito l’accesso a cibi così semplici (e, quasi, «primordiali») come, appunto, le rape e i fagioli rimaneva un mistero. Adesso di quell’antico adagio ho trovato traccia in un libro[1], documentato e avvincente, di Massimo Montanari che attorno ai termini, alimentari di un altro proverbio (il cacio e le pere) è interamente costruito. Il libro di Montanari fornisce una risposta assai significativa ed eloquente ai miei lontani interrogativi sull’enigma, e sui motivi, della sorte del povero Bertoldo. La cui emblematica, seppur immaginaria, vicenda è ricostruita a partire da «un testo dall’apparenza burlesca come Le sottilissime astuzie di Bertoldo di Giulio Cesare Croce, che introduce alla corte di re Alboino un ‘villano’, Bertoldo (…), facendone un eroe di saggezza popolare con cui il sovrano instaura un ambiguo rapporto di ammirazione e di disprezzo»[2]. A corte, Bertoldo viene comunque trattato benissimo dal punto di vista delle condizioni materiali di vita e dell’alimentazione, ma «“(…) essendo egli usato a mangiar cibi grossi e frutti selvatichi, tosto ch’esso cominciò a gustare di quelle vivande gentili e delicate s’infermò gravemente a morte”»[3]. D’altra parte, i «medici (…) “non conoscendo la sua complessione” cercavano di curarlo con i rimedi che “si fanno alli gentiluomini e cavalieri di corte” senza dare ascolto all’implorazione di Bertoldo “che gli portassero una pentola di fagiuoli con la cipolla dentro e delle rape cotte sotto la cenere, perché sapeva lui che con tali cibi saria guarito“ (…)»[4]. Dunque, solo «i fagioli, la cipolla e le rape» (cioè, cibi consoni al suo stato sociale) «avrebbero potuto salvare Bertoldo»[5], ma i medici non lo vollero ascoltare. Eccola la questione di fondo che, in modo trasparente, il racconto di Bertoldo pone in evidenza. Quelle che vengono chiamate in causa sono la «natura» (come potremmo dire, con un termine evidentemente improprio, ma adeguato a rimarcarne l’insito e perdurante carattere) e la connotazione «di classe» o sociale dei cibi e delle pratiche alimentari. Una connotazione, si badi bene, non legata semplicemente o unicamente al fatto che un certo tipo di alimentazione sia più o meno accessibile (per ragioni economiche e materiali, che pure hanno la loro rilevanza) agli appartenenti a condizioni e ceti sociali differenti, più o meno abbienti. È realtà materiale, ma è anche metafora, infatti, il cibo. E la questione, più di fondo, che la storia e le storie della cucina e delle preferenze alimentari, portano costantemente a rilevare (e che i medici di Bertoldo, per inconsapevolezza di carattere «ideologico», non potevano correttamente inquadrare) è che sono sempre esistiti cibi e gusti «alti» (considerati, cioè, raffinati ed adatti alle classi socialmente elevate) e cibi e gusti «bassi» (più rozzi e grossolani, destinati ai ceti popolari). Il cibo e l’alimentazione, del resto, una connotazione «di classe» ce l’hanno, in qualche modo, anche oggi (lo rileva puntualmente Fabio Dei), in un contesto di apparente livellamento dei gusti, ma in cui è comunque impensabile che il menù di una trattoria per camionisti, quello di una mensa universitaria, quello di un pranzo di lavoro e quello di una serata mondana siano equiparabili. E non solo per una evidente ragione di disparità di risorse economiche dei diversi soggetti e delle diverse tipologie di commensali, ma perché il cibo (per la diversità degli alimenti prescelti e per la varietà dei modi di cucinarlo e di presentarlo) tende a «marcare» e a connotare le appartenenze. È questo, del resto, il tema di fondo, del libro di Montanari di cui ci stiamo occupando.

 
Il cacio e le pere

C’è una relazione di carattere storico-simbolico, oltreché di ordine gastronomico-materiale,fra il cacio e le pere nel loro percorso di progressivo e problematico accostamento. Il formaggio, come viene raccontato, è un prodotto di fattura apparentemente grezza e di origine popolare. Letterariamente, fa notare Montanari, non è fin dall’antichità, il formaggio medesimo l’alimento di cui si cibano personaggi rozzi, al limite dell’animalità, come il ciclope Polifemo? Le pere, invece, verranno, a lungo, considerate, frutti adatti a palati nobili e delicati. Quelle, soprattutto, a più alto tasso di veloce deperibilità, considerate poco adatte ad essere conservate nelle povere dispense dei «villani» (cioè, dei contadini). Poi, con la diversificazione, e con il raffinamento, della produzione casearia, anche il formaggio (soprattutto quello di connotazione più «chic», come oggi diremmo, tipo il brie) entrerà a far parte, a pieno titolo, della lista delle vivande destinate alle classi alte. Ed ecco pronto e dissodato il terreno per la gustosa combinazione fra il formaggio e le pere, una raffinatezza di cui la povera realtà del desco umile e popolare sarebbe stata ritenuta indegna. Ma il conflitto sociale (come rivelano i proverbi, nelle loro molte versioni e nel loro multiforme uso) è condito anche di reciproche, scambievoli, e gustose ripicche, malignità e canzonature fra i soggetti in competizione ed in campo. Così, se il proverbio comunemente citato è quello notissimo, che suona «Al contadino non far sapere / Quanto è buono il formaggio con le pere», del medesimo detto c’è anche una «(…) versione ‘allungata’, rivendicativa e liberatoria, attestata oggi nella campagna senese: Al contadino non far sapere / Quanto è buono il cacio con le pere. / Ma il contadino, che non era coglione, / lo sapeva prima del padrone.»[6]. Una riprova in più, la ricostruzione operata da Montanari, di quanto sia densa di riferimenti e di implicazioni la storia (o, come meglio sarebbe dire, al plurale, lo siano le storie) dell’alimentazione e della cucina, delle ricette, dei gusti, delle combinazioni dei saperi e dei sapori, di cui troviamo un ricco deposito, ben oltre lo stretto ambito degli scritti di gastronomia e di cucina, in una variegata ed ampia tradizione orale (i detti ed i proverbi, appunto), nella letteratura (Sbordoni), nell’arte, nelle tradizioni culturali, nei precetti e nei divieti (Bigalli, Guetta, Faccenda e Parri) delle diverse confessioni religiose. È a questa ampia dimensione di carattere antropologico, che è fatta di un complesso intreccio di storia materiale e di diversificate simbologie, che si riferiscono i testi che danno forma e sostanza alla nostra sezione monotematica dedicata ai cibi del mondo. E’ un universo affascinante, da sempre ed in ogni angolo della terra, quello dei segreti della cucina. Un universo al quale viene da affacciarsi con una ineludibile domanda di fondo: di chi è appannaggio, per tradizione, la conoscenza e (soprattutto) la connessa attività pratica legata a quei «segreti»? Perché se può essere vero, in generale, che «mangiare e conoscere sono la stessa cosa»[7], è evidente, però, che la fonte più vera e profonda della conoscenza risiede nell’attività di confezionamento e di preparazione del cibo. Un’attività tradizionalmente, in gran parte, riservata alle donne.

 
Un campo in cui le donne hanno operato per secoli

C’è, dunque, una lettura «di genere» (Di Pasquale), oltre che un’interpretazione in chiave sociale, cui è importante dare spazio per ricostruire vicende, percorsi, travagli e significati della storia dell’alimentazione. Cioè, di un «campo nel quale le donne hanno operato per secoli»[8]. Un campo di cui non sempre è semplice ricostruire, senza inesattezze e possibili (volontarie o meno) deformazioni, l’esatta configurazione, dal momento che, nella storia, per un’infinità di tempo, «le donne hanno cucinato molto, e scritto poco, e quelle che scrivevano, e non di cucina, in genere non cucinavano proprio»[9]. Anche oggi che cucina, alimentazione e cibo sono temi culturalmente alla moda siamo di fronte ad un, non piccolo, paradosso: la cucina quotidiana (nonostante non pochi uomini abbiano maturato la passione per ricette ed esibizione di competenze ai fornelli) è prevalentemente e ancora gestita da mani femminili, mentre i grandi chef, non di rado, sono di sesso maschile. Diverso è il discorso relativo al singolare combinato di divulgazione popolare di ricette e show culinario di intrattenimento che caratterizza le trasmissioni televisive (Parenti), spesso identificate con il volto delle (obbligatoriamente graziose oltreché, spesso, brave) conduttrici donne. Donne cui è affidato, si direbbe, mediaticamente il compito di diffondere il generalizzato invito a mettersi a tavola ed a godere della buona tavola. Un invito, forse, mai pressante e suadente come nel nostro tempo, che gode (certo, solo nelle sole «società affluenti» del consumo di massa) di un’abbondanza inimmaginabile in altre epoche, ma che pure è, in questo ambito, tutt’altro che esente da problemi: dai diktat relativi agli standard sul «peso forma» alla diffusione dei veri e propri (e talora devastanti) «disturbi alimentari». Capitoli ed aspetti inquietanti delle estese, e non rimovibili, patologie del nostro tempo[10].

 
Stare a tavola con bon ton

E’, forse, proprio nella società contemporanea che in taluni contesti può essere smarrito il senso vero e più profondo del consumare insieme il pasto e di sedersi allo stesso desco. Che è quello della condivisione. Una dimensione esaltata, come è noto, dagli antichi greci e resa celebre da Platone che, a convivio, convocava letterariamente e filosoficamente i protagonisti di dialoghi che, insieme, assumevano cibo per il corpo e nutrivano lo spirito con considerazioni sui temi della città, della giustizia, della bellezza e dell’immortalità. Non è un caso, certamente, che l’antico Epicuro, cultore del valore dell’amicizia, sostenesse che una cena consumata da soli equivale ad un pasto da lupo. Stare insieme a tavola è sempre stato sinonimo di cura delle relazioni umane. Una cura che va incrementata, non formalisticamente e leziosamente, anche con un tocco di garbo e di buone maniere. Di cui non è male, dopo tutto, fare memoria. Come sa proporre, mi piace segnalarlo, l’originale e gradevolissimo libro di Roberta Schira su Il nuovo bon ton a tavola e l’arte di conoscere gli altri[11]. Un testo in cui vengono condensate raccomandazioni e regole di galanteria a tavola, riproposte in tono di garbata sfida alle possibili accuse di anacronismo. Come la seguente: «I signori siedono un attimo dopo le signore. Lo so, non lo fa quasi più nessuno tranne che in certi adorabili ambienti. Durante il pasto se una signora si allontana dal tavolo, per qualunque motivo, gli uomini si alzano contemporaneamente a lei, si risiedono appena si allontana e si rialzano appena riappare»[12]. In riferimento ad un intreccio di relazioni e di occasioni (anche fisiche) di contatto, com’è il condividere, con altri commensali, lo stare a pranzo o a cena, non mancano peraltro notazioni maliziose. Una per tutte «rispetto al piedino, quell’intrigante usanza di sfiorare, accarezzare, strofinare e trattenere il proprio piede su quello di un altro commensale», condita con la considerazione che farlo «bene è un arte» e che «è più stimolante farlo in un tavolo da sei, in due è quasi scontato». Un’usanza per cui, come non si immaginerebbe, gli «inglesi dall’alto del loro puritanesimo vanno pazzi» e che «chiamano play footsie», da considerare con la consapevolezza che si tratta di un «gesto» che è «contemplato chiaramente in ambito giuridico» in molti paesi (tra cui l’Italia) «benché, secondo la corte di Cassazione, non costituisca atto di libidine»[13] e non sia pertanto penalmente punibile. Un gesto, viene perentoriamente precisato, in ogni caso, per il quale «essere pronti a scusarsi immediatamente (…) nel caso l’iniziativa non abbia buon esito»[14]. L’intonazione evidentemente un po’ salottiera ed il carattere, certo più «leggero» ed apparentemente eccentrico di questi riferimenti sono tutt’altro che incompatibili ed hanno anzi (come notazioni di costume) un’evidente relazione con la considerazione di fondo da cui ha avuto origine (in unità di intenti con gli amici di «Water Right Foundation») il progetto di questo volume sui cibi del mondo. Una considerazione che riporta al carattere ed ai significati culturali, legati alle relazioni umane, della storia e della pratica dell’alimentazione di ieri e di oggi.

 

Sovralimentazione e denutrizione

Tre sono gli aspetti (come evidenziano le sottosezioni) di questa complessa, affascinante e variegatissima tematica che – a partire da una forte varietà e pluralità di punti di vista – vengono affrontati nel nostro volume. La questione che sta al centro di questo lavoro (come non poteva non essere in una rivista come la nostra, da sempre attenta alle questioni dei bisogni, della giustizia e dello sviluppo umano) è che non tutti, in questo nostro tempo, e su questo nostro pianeta, sono invitati a condividere allo stesso modo le gioie della tavola ed i frutti della terra. Viviamo in un contesto in cui, a questo riguardo, le contraddizioni, sempre più evidenti e stridenti, sono anche universalmente visibili nel tempo della «comunicazione globale» nonostante lo scarso risalto ad esse accordato dal circuito della grande informazione. In un mondo sempre più unito ed interdipendente convivono, in maniera apparentemente (o realmente?) insensata, sovralimentazione e denutrizione. Piaghe e diversificate situazioni di sofferenza e di disagio (che toccano l’estremo nell’inaccettabile ed ancora troppo esteso «universo della fame») che sono presenti e rilevabili non solo lungo le linee ed all’interno della «classica» dimensione del contrasto fra Nord («sviluppato») e Sud (povero e una volta, incongruamente, definito come «emergente») del mondo, di cui, in anni ormai lontani, si occupò il Rapporto Brandt. È, certo, ancora, una questione di relazioni fra Nord e Sud, armi e fame[15] e di palesi ed estese violazioni dei diritti umani (a partire dal primario diritto alla sussistenza) in troppe aree del pianeta. Spesso, abbondanza e nuove forme di povertà (v. Giuntini, nella sezione monotematica dedicata alle tesi economiche di Stiglitz) convivono all’interno degli stessi paesi del mondo «sviluppato». E siamo comunque, al di là delle tradizionali e consolidate demarcazioni, in presenza di un’insolita vicinanza e di una perversa interazione fra fenomeni solitamente considerati come opposti e che caratterizzano, e tormentano, dall’interno, lo stesso Paese e, in esso, lo stesso territorio e la stessa città. Così è nel caso del Messico di cui parla, a partire da un’esperienza di solidarietà sul campo, «padre Pepe». Che si batte per la diffusione di una corretta educazione alimentare, finalizzata a sconfiggere l’obesità (dovuta al cibo di pessima qualità) in un contesto in cui a molti è tutt’altro che garantito il pane quotidiano. C’è molto da fare per battersi (prima di tutto, culturalmente) contro i meccanismi che sono all’origine delle sperequazioni che stanno a fondamento del gigantesco muro eretto a garantire, all’interno dell’unico pianeta, la separazione fra l’area dell’opulenza e la sterminata distesa della povertà e del bisogno estremo. Ci vorrebbe, per promuovere ragionevoli condizioni di giustizia e libertà (e per disinnescare un contrasto così esplosivo), prima di tutto, la «buona politica». Quella «buona politica» di dimensioni planetarie di cui parlava Balducci ed a cui allude, oggi, un lucido pensatore ultranovantenne come Edgar Morin. Non bisogna smettere, al di là dei cattivi esempi (che vengono dati a piene mani) e delle troppe delusioni patite, di cercarla e di lavorare a costruirla. Ma, per intanto, è importante continuare ad impegnarsi in concreti progetti di solidarietà, di cooperazione e di «buone pratiche».

 

I grandi temi del cibo e dell’acqua

Come quelle del movimento «Shalom» (di cui parla don Andrea Cristiani) e come quelle cui è legata l’esperienza di Giancarlo Ceccanti e di «Acquifera» Onlus, impegnati a fare provvidenzialmente i portatori d’acqua[16] in paesi del mondo che ne sono carenti, in stretta collaborazione con le comunità locali. Il bisogno (ed il consumo) di acqua[17] (una risorsa, fino a non molto tempo fa, improvvidamente ritenuta inesauribile) ed il bisogno (e il consumo) di cibo sono temi fondamentali per l’umanità della nostra epoca così come il nesso cibo-acqua (Federici) appare centrale per il ripensamento di un modello di alimentazione, e di vita, scarsamente improntato alla sostenibilità e strutturalmente incline a mettere a dura prova gli equilibri del pianeta. E’ in ordine a tutto questo che anche gli stili[18] e le scelte di vita (Coser, e Baldini Tosi spiegano, in questi termini, l’opzione vegetarianesimo[19]) vanno forse ripensati. Ripensamento dei modelli di cooperazione, attenzione ai bisogni ed ai diritti fondamentali, equità nella distribuzione delle risorse e sostenibilità dello sviluppo umano costituiscono l’orizzonte culturale comune (a partire dal riferimento ai grandi temi del cibo e dell’acqua) di realtà come «Water Right Foundation»e «Testimonianze». Sottoscrivo pienamente, in questo senso, le affermazioni di Mauro Perini (che di WRF è presidente) e di Vincenzo Striano, che ben identificano e delineano la connotazione politico-ideale e culturale che sta alla base del comune lavoro di riflessione a fondamento anche del presente volume, alla cui realizzazione abbiamo insieme lavorato. Una riflessione, come già accennato, che non poteva non mettere al centro (accanto ai grandi nodi umani, politici e sociali legati ai bisogni fondamentali ed al diritto al cibo e all’acqua) la portata (e, potremmo dire, la fascinazione) culturale della dimensione, della storia e delle vicende umane connesse all’alimentazione. Il cibo è cultura. E, come abbiamo già avuto modo di considerare, l’identità culturale si forma anche in relazione alla preparazione, alla degustazione ed alle modalità di consumazione di cibi e bevande. Naturalmente, non c’è bisogno di ricordare che «identità» e «cultura» sono termini che vanno, su un tema come quello qui affrontato, come non mai, declinati al plurale. Sono le diverse identità e le diverse culture ad essere evidentemente chiamate in causa in merito all’intreccio di storie che danno sostanza e sapore, è il caso di dirlo, ad ogni discorso su cucine e gastronomia.

 

L’unità gastronomica d’Italia

De te, è il caso di dirlo, fabula narratur. Chi più di noi italiani (cittadini ed eredi della storia del «mosaico Italia»[20]) è partecipe e fruitore insieme del singolare crogiuolo di percorsi da cui deriva quella che solitamente, ed unitariamente, è definita ed apprezzata come «cucina italiana» (Zani) pur nella persistente, e vitale, valorizzazione di ricette, predilezioni e gastronomie locali e regionali? Certo è che questo patrimonio (oggi spesso tutelato da marchi DOC, DOP e IGP), così ricco di tradizioni (sia pure, talora, aggiornate, ripensate e, a volte, evidentemente ritoccate) e di prodotti tipici (v. in proposito la «ghiottosissima» edizione della «garzantina» dedicata ai prodotti tipici d’Italia[21] che spazia dalla A di agnolotti fino alla Z di zuccotto), non avrebbe lo stesso valore se i diversi tipi di percorsi non avessero trovato modo di dialogare, porsi in rapporto ed interagire fra loro. Fu, questa, come è noto, l’intuizione ed è questo il merito storico del giornalista romagnolo (di Forlimpopoli, poi naturalizzato fiorentino) Pellegrino Artusi che nel suo fondamentale La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene[22] (libro che aprì con la dedica ai «miei genitori che mi nutrirono così bene»), nel dialogo costante e nella corrispondenza epistolare con le lettrici di ogni parte della penisola, seppe costruire un grande ricettario che fu anche un fenomenale contributo all’unità gastronomica d’Italia. Un’unità (quella dell’Italia della gastronomia) fondata sul dialogo fra le diversità. Uno spunto ed un’impostazione che si prestano ad essere, evidentemente, ripresi ed attualizzati, all’interno della complessità e dell’interdipendenza del «mondo globale». Un mondo, giova ripeterlo, solcato da contraddizioni profonde e inasprito da inedite forme di ingiustizia ma aperto, anche, nella sua ambivalenza, alla sperimentazione del nuovo ed al dialogo fra comparti di umanità che prima si ignoravano a vicenda. Le culture si avvicinano, si toccano e si compenetrano in una commistione che è esposta al rigetto ed al conflitto, ma anche alla comprensione, alla condivisione ed al dialogo. L’umanità, fin dall’inizio, è stata, per così dire, aperta e improntata al «meticciato». Ed il «meticciato» dei gusti, la sperimentazione dei sapori e la commistione degli ingredienti è l’essenza stessa della cucina e del cibo. Così è stato (ricorda Lelia El Houssi) nel nostro Mediterraneo dove il sapore delle verdure, della carne del pesce è stato mescolato alla semola, insieme, da livornesi, marocchini e tunisini. Così è stato nella cucina della nostra emigrazione dove ingredienti capaci di evocare il sapore inconfondibile della nostalgia (Meli) si sono fusi e confusi con prodotti ed alimenti di terre in cui tutto sembra diverso, eppure è uguale a ciò che è alle spalle nelle terre delle proprie radici. Così è ancora oggi (come nel caso della giovanissima Rebecca) in sperimentazioni personalissime, ed apparentemente improbabili, in cui le gustose e tradizionali ricette della cucina toscana non escludono l’accostamento agli esotici, e gradevoli, ingredienti della lontana Thailandia. Tutto è «globale» e tutto rischia, certo, di essere omologato nel calderone indistinto di un flusso consumistico in cui tradizioni, cibi locali e varietà «etniche» dei cibi vengono messi in circolo e svuotati di significato e di gusto nel momento stesso in cui vengono riconosciuti ed assunti.

 

Life is too short to drink bad wine

Ma va pur detto, ed è questa l’altra faccia della medaglia, che anche l’impero gastronomico McDonald (che più che di una catena di ristoranti assume l’aspetto di una gigantesca metafora planetaria della standardizzazione dei gusti) deve flessibilmente adeguarsi e duttilmente piegarsi alle cucine ed alle usanze «glocali» (Dei). Non è una considerazione da poco. La battaglia culturale è in pieno corso e molti capitoli della tenzone (e tensione) fra fast food e slow food sono ancora da scrivere. Come, su un piano più generale, continua ad essere aperta la battaglia generale (Vandana Shiva) e quella in ambiti locali (Niccolai) per la difesa dei semi, delle colture tradizionali e della biodiversità. Una battaglia particolarissima è, d’altra parte, quella che, con accenti di grande partecipazione, evoca Carmassi nel nome degli aromi più genuini di «fratello vino» da difendere dall’omologazione della produzione globalizzata e dall’invasione universale del gusto fruttato. Life is too short to drink bad wine, come recitava, fino a qualche anno fa, il puntiglioso e spiritoso cartello esposto nella vetrina di una libreria antiquaria fiorentina oggi purtroppo chiusa. L’uomo è (anche) ciò che mangia (e ciò che beve), come diceva una nota asserzione troppo sbrigativamente catalogata con l’etichetta del grezzo materialismo. In una storia che è in cammino, in questione è il soddisfacimento dei bisogni (non semplice in un mondo popolato da miliardi di persone), la difesa e la tutela della qualità dei prodotti, l’esaltazione – pur nella loro compenetrazione e in un contesto di circolazione planetaria di modelli culturali, uomini e merci – delle identità e delle diversità. Né va peraltro dimenticato che veniamo da una storia in cui, anche nella nostra porzione di mondo (oggi etichettato, anche nel travaglio della crisi, come «mondo sviluppato») regnava la penuria. Nel nostro inconscio in cui le immagini connesse al cibo si legano ai bisogni, ai rimandi affettivi ed alle evocazioni simboliche, il ricordo e il timore, di quel tempo apparentemente sepolti continuano segretamente a sopravvivere e ad agire. E’ auspicabile, ora, che si creino le condizioni di un tempo nuovo in cui il pane[23] (che la preghiera cristiana del paternostro, così definita da Luciano Artusi con bellissimo e toscaneggiante arcaismo, chiede per la tavola quotidiana) sia davvero per tutti. Il cibo (e le bevande) come arte e come impresa (Picchi e Frias) sono anche il terreno, come forse sono sempre stati, ma oggi più che mai, di una grande sfida. La cui posta è data dalla possibilità di far posto idealmente (ma, sperabilmente, anche in termini reali) a uomini e donne delle più diverse identità e culture alla tavola apparecchiata, ed al convivio della condivisione, della nostra unica casa che è il mondo.

 


[1] M. Montanari, Il formaggio con le pere. Storia di un proverbio, Editori Laterza, Roma-Bari 2010.

[2] Ivi, p. 50.

[3] Idem.

[4] Ivi, pp. 50-51

[5] Ivi, p..51,

[6] Ivi, pag,. 127

[7] M. G. Mazzarelli, Nelle mani delle donne. Nutrire, guarire, avvelenare dal Medioevo a oggi, Editori Laterza Roma-Bari 2013, pag. 133

[8] Ivi, p. 174.

[9] Ivi, p. 175.

[10] V. in prop. Patologie del nostro tempo (sez. monotematica a cura di S. Saccardi), in «Testimonianze» nn.438-439.

[11] R. Schira, Il nuovo bon ton a tavola e l’arte di conoscere gli altri, Salani Editore, Milano 2012.

[12] Ivi, p. 191.

[13] Ivi, pp.117-118.

[14] Ivi, p.118.

[15] Nord e Sud/armi e fame era il titolo del secondo convegno Se vuoi la pace prepara la pace di «Testimonianze», svoltosi al Palazzo dei Congressi di Firenze il 12-13 Febbraio 1983 a Firenze (Atti in «Testimonianze» nn.253-255).

[16] G. Ceccanti, Portatori d’acqua, «Testimonianze» nn.466-467.

[17] V. in prop. Il volume di «Testimonianze» (nn. 478-479) su Il grande tema dell’Acqua con un’ampia sezione monotematica (a cura di F. Dei, M. Meli, M. Sbordoni, S. Saccardi, S. Siliani) dedicata a Il grande tema dell’Acqua, con il quale il presente fascicolo incentrato sul tema-cibo si pone in evidente collegamento.

[18] V. in prop. Stili di vita ed etica del consumare (sez. monotematica a cura di A. Giuntini, R. Mosi, S. Saccardi, S. Siliani) in «Testimonianze» n.470.

[19] V. in merito l’articolo (il quarto di un’interessante serie dedicato alle dietologie) di M. Niola («la Repubblica» 5 Agosto 2013) sull’orgoglio vegetariano.

[20] V. in prop. Il «mosaico Italia» a 150 anni dall’Unità (sez. monotematica a cura di S. Saccardi) in «Testimonianze» nn. 473-474.

[21] Enciclopedia dei prodotti tipici d’Italia (della serie de «Le garzantine»), a cura di D. Paolini, ed. Garzanti, Milano 2005.

[22] P. Artusi, La scienza in cucina e l’’arte del mangiar bene (con introduzione e note a cura di Piero Camporesi), Einaudi editore, Torino 1974

[23] Pane nostro (ed. Garzanti, Milano 2010) è il titolo di un bel libro di Predrag Maatvejevic dedicato alle tipologie, alle storie e all’immagine evocativa di un alimento-simbolo.