Immigrazione sulla pelle
di Andrea Bigalli
sommarietto: Fin tanto non saremo in condizione di confrontarci serenamente con la povertà, l’estraneità, la marginalità, il futuro continuerà ad apparirci una paurosa incognita. Se proveremo ad affrontarlo con le nostre potenzialità più significative, quelle della conoscenza, del dialogo, del coraggio di arricchirsi attraverso l’alterità, il bene essenziale della solidarietà, saremo in grado di raccontare questo tempo come l’inizio di una fase in cui si sono messi i presupposti per un’autentica pacificazione.
I “poveri” delle Sacre Scritture e la Caritas
In sociologia il termine “povero” si sta un po’ usurando. Solitamente adoperato in chiave economica, si trova a identificare una realtà di disagio molto vasta, che si articola su dimensioni come l’affettività, la diversa abilità, la cultura, la rete di relazioni, l’anzianità, la malattia… Forme di diversità sociale, che fino ad adesso erano supportate senza particolari difficoltà di ordine culturale dall’intera collettività, sono adesso da reintegrare nel panorama della accettabilità sociale e non è detto che ciò sia possibile sempre: la mappa della povertà si aggiorna di continuo perché va di pari passo a quella, appunto, dell’esclusione sociale. La Caritas, di cui faccio parte lavorandovi ormai da diversi anni, si è però affezionata alla parola, non saprebbe rinunciarvi per questioni anche strettamente bibliche. Nell’ambito della Scrittura “povero” indica una condizione di vita segnata dalla sofferenza e dal limite, quindi di per sé inaccettabile, ma non per questo incapace di esprimere i valori dell’umano, una prospettiva di relazione e di liberazione che, attraverso il rapporto con il Dio che salva, non è solo propria: attraverso la povertà del Cristo, nato e vissuto povero, Dio salva il mondo.
La Caritas è espressione diretta della Chiesa locale, presente quindi in ogni Diocesi e articolata a livello nazionale e internazionale. Nella Chiesa cattolica esprime quella componente che non vuol rinunciare a definirsi in lotta contro la povertà, pur distinguendo i piani: amiamo i poveri ma non la loro condizione, che è accettabile solo se la si è scelta liberamente, se la si comprende come potenzialità di accesso a una modalità di vita che consente una verità più alta di sé stessi. Abbiamo cercato di far tesoro di quella distinzione tra povertà e miseria – evangelica la prima, inaccettabile secondo i valori autentici dell’umano la seconda – che ci ha insegnato, tra altri grandi maestri, dom Helder Camara, vescovo di Recife in Brasile e testimone nella Chiesa cattolica della necessità di porsi il problema del significato, sul piano di fede e morale, del dato di una umanità divisa tra abbondanza criminale e bisogno assoluto. Nei trent’anni della sua storia, la Caritas ha percorso un cammino notevole in tal senso, vedendo mutare le caratteristiche della povertà nel mondo e nel nostro paese e cercando di intervenire, non solo operando direttamente: il suo compito è più quello di promuovere una reazione di ordine morale, una sensibilità di solidarietà alla sofferenza che parta dalla comunità cristiana, ma non si limiti al suo ambito. Si tratta di far esprimere la tensione ad uno stile di vita solidale, aperto alla comunicazione positiva con ogni alterità, ogni realtà umana che sia prossima, secondo la nuova logica della prossimità sancita dal contesto contemporaneo, che è l’intera famiglia umana, come non mai concepita secondo l’immagine di una realtà unica.
Una guerra tra poveri
Gli scenari mutano, viviamo un passaggio dalle implicazioni forse non ancora identificabili. A qualcuna di esse possiamo trovare coordinate di ordine storico: se il 1989 è anno dai significati facilmente intuibili, si ritorna al 1975 per dichiarare l’Italia paese in cui emigrare, nel saldo positivo dell’immigrazione rispetto a quanti nostri concittadini se ne devono andare, e si arriva al 1991, anno in cui gli sbarchi di massa ci dicono che le frontiere sono tornate ad essere un dato relativo, ricomincia – per certi aspetti dopo secoli – il transito delle persone attraverso il mondo, ancora senza la libertà decretata per le merci e le informazioni, ma nella logica ineludibile delle evoluzioni demografiche, espressioni della storia stessa. All’inizio del fenomeno il flusso di popolazione transita per la nostra penisola più per dirigersi verso altre mete europee e del nord del mondo che per acquisirvi stabilità e magari cittadinanza, ma tra la fine degli anni novanta e l’inizio del secolo appare chiaro che si delinea ormai certa la prospettiva di una società multietnica. Il calo demografico della popolazione italiana autoctona e un insieme di fattori (geografici, politici, economici) ci rendono un paese in cui si presenta la necessità di ingresso di nuova popolazione per compensare le conseguenze non solo della mortalità, ma anche della nuova condizione della cittadinanza locale, adulta e anziana. Si amplia l’aspettativa di vita, non solo per numero di anni ma sul piano della qualità, crescono le necessità per il lavoro di cura e il sistema di previdenza sociale, a cui occorrono lavoratori giovani in grado di pagare i contributi. Il mondo produttivo ha bisogno di manodopera, disponibile a ogni genere di professione e adeguata a nuove esigenze formative: dall’estero giungono uomini e donne, sovente di ottimo livello culturale, che si adeguano a condizioni di vita e di lavoro a cui molti locali non vogliono più sottostare. A parte una percentuale (non così ristretta come si pensa) di stranieri che in Italia raggiungono la stessa condizione medio alta di benessere da cui provengono, si presenta il dato di uno stratificarsi della popolazione in fasce di censo secondo nuove prospettive. Ai quasi nove milioni di cittadini italiani che vivono in condizione di povertà (per oltre due milioni e mezzo si parla di povertà grave: un minore su sei in Italia è in tale condizione), si aggiunge una quota degli immigrati, entrati legalmente o illegalmente, che conosce tale realtà sotto vari aspetti. Sorgono nel corso degli ultimi anni problemi connessi a questa nuova dimensione sociale (e quindi culturale): si assiste al presentarsi di episodi di intolleranza, non giustificabili solo in relazione a fenomeni di xenofobia, praticamente inevitabili nei processi di adeguamento reciproco. Le analisi a riguardo variano di segno, ma a mio parere si può parlare anche di atteggiamenti razzisti, la cui diffusione resta per adesso limitata, a livello di segnale, cui prestare però molta attenzione. Negli ultimi tre anni la media delle aggressioni a sfondo razzista di italiani contro stranieri è salito fino a sfiorare i due casi di media al giorno. Si può interpretare questo dato come il mettersi in discussione dello spirito con cui, nel nostro paese, si è vissuto finora il principio della solidarietà, chiamata a divenire accoglienza. La sociologia legge nella xenofobia recente il dato, non del tutto conscio, della paura di perdere benessere, quell’agio da alcuni conquistato duramente negli anni e che adesso la nostra società non può o non vuol concedere a tutti nello stesso modo. L’idea è che lo straniero sottragga risorse, limitando i privilegi. Non a caso i fenomeni razzisti emergono con più forza nei quartieri popolari, in cui i cittadini stranieri convivono con quella parte di popolazione che li avverte come una minaccia concreta all’accesso a risorse sociali già limitate. Il problema è che questo corrisponde a verità: così sarà sempre di più. Si tratta di un quadro ben delineato da una espressione nota: una guerra tra poveri. Se la borghesia legge un senso di minaccia nella presenza degli stranieri più per l’immaginario mediatico indotto – e in grandissima parte ingiustificato – che per il pericolo reale rappresentato da una nuova componente di povertà, in cerca di rivalsa sociale o orientata alla criminalità (non è certo il caso italiano), in altre realtà il disagio è un dato concreto, che si traduce in condizioni di vita mutate di interi quartieri cittadini.
In Toscana è facile citare il caso di comuni della cintura urbana alle prese con una massiccia immigrazione dalla Cina, che non si è fatto molto per indirizzare secondo un progetto che favorisse un’integrazione il più veloce possibile, tenendo anche conto delle caratteristiche peculiari di tale popolazione, non del tutto incline a costituire comunità aperte.
Storie belle di integrazione
Và da sé, almeno secondo una certa logica, che in realtà il pericolo non si genera per la presenza degli stranieri, come se questa fosse responsabile dell’induzione della povertà (essi in realtà ne sono sovente le vittime principali): quest’ultima si afferma per precise logiche sociali ed economiche, che conducono allo squilibrio nella distribuzione delle risorse e al ritirarsi della collettività e dei suoi organi amministrativi dai progetti di assistenza e protezione dei soggetti fragili. La questione piuttosto è che le condizioni di disagio sociale, fino al degrado, possono condurre a comportamenti criminali, possibili sia per stranieri che locali. Le uniche politiche sociali in grado di frenare i fenomeni malavitosi sono perciò quelle che intervengono sulle condizioni di vita, garantendo investimenti per lo sviluppo umano, l’accesso ai beni essenziali, primo tra tutti lo strumento culturale, la lingua, la conoscenza dei diritti e dei doveri, le dinamiche di accesso a opportunità di vario tipo. Se è indubbio che bisogna superare una visione ingenua e schematica dell’immigrazione (“tutti gli immigrati sono buoni, migliori di noi…”) è altrettanto evidente, al di là delle distorsioni informative, che si tratta di persone che vivono magari dinamiche culturali diverse dalle nostre, ma fondate su valori significativi. Valori per lo più comuni alle diverse culture, che però possono essere diversamente vissuti o disattesi a livello individuale. Occorre impostare la riflessione sulla dinamica interculturale più sul piano dei valori comuni che su quanto può dividere. Là dove si sono tentati percorsi dettati da tale filosofia, i risultati non si sono fatti attendere, e sono di segno positivo. L’immigrazione in Italia è un fenomeno di cui si possono già raccontare storie belle, di inserimento positivo, di reciprocità culturale, di incontri tra persone in grado di allontanare la paura. Ma sui media di tutto ciò troverete una pallida traccia. A riguardo la parola d’ordine resta quella di fomentare le inquietudini. La proposta del ministro Fini di consentire il voto agli stranieri non rispecchia l’umore della sua base elettorale: il tutto pare perciò più strumentale che altro. Del resto, di chi si vanta a ogni piè sospinto di aver firmato la legge sull’immigrazione insieme a Bossi non ci si può fidare più di tanto.
Gestire i flussi migratori è possibile
Se si concepisce l’accoglienza come garanzia dei diritti e definizione dei doveri corrispondenti, e si lavora in tale direzione, un flusso migratorio può essere gestito dalla nostra società non affrontando soltanto oneri ma mettendo in conto vantaggi di vario ordine. In questa valutazione le ragioni introdotte dal nostro calo demografico fanno la loro parte (la popolazione che manca deve essere in qualche modo reintegrata), ma resta fondamentale il dato culturale, che vede nella comunicazione tra identità diverse, quale si può realizzare solo con la coabitazione negli stessi spazi, una fonte di ricchezza essenziale per una tradizione culturale, altrimenti destinata a invecchiare e inaridirsi. La società multietnica non comporta solo difficoltà reciproche, ma anche la possibilità concreta di un arricchimento collettivo: è un dato storico, che comporta la responsabilità di un progetto e di una volontà. Senza queste ultime, un processo storico lo si subisce e basta. Mi pare chiaro che le realtà che in tal senso ci sono meno necessarie sono quelle legate ad una xenofobia che non sa darsi motivazioni: se fosse possibile mettere da parte le questioni di ordine morale, legate ai valori fondamentali della relazione umana, resterebbe comunque la stupidità dannosa di chi non sa valutare un fenomeno nella sua complessità, cercando di comprenderne gli aspetti positivi. Può darsi che il ministro Bossi trovi il suo tornaconto elettorale nel chiamare gli africani “Bingo Bongo” (fatto accaduto ai primi del dicembre 2003), ma resta il fatto che una politica fatta così non ha storia e quindi futuro. A meno che la società italiana non si degradi del tutto: allora è possibile che accada qualsiasi cosa, la razionalità non rappresenterebbe un vantaggio…
La Caritas, sia a livello nazionale che diocesano, ha impiegato molte energie per affrontare le emergenze sorte in questi anni sul fronte dell’immigrazione. Proprio di emergenze si è trattato e si tratta: garantire alloggio, cibo, vestiario, assistenza sanitaria, un primo livello di conoscenza della lingua, è un impegno enorme, che continua ad assorbire molte delle risorse che abbiamo a disposizione. Si tratta, secondo il quadro sopra delineato, di garantire diritti essenziali, senza dimenticare lo sforzo per allargarne la possibilità. Quella che noi definiamo “la seconda accoglienza” è l’opportunità dei diritti di seconda e terza fascia, legati alla socialità e alle prospettive economiche. Un conto è garantire l’essenziale, un altro cominciare a definire un progetto di inserimento, che tenga conto della necessità di edificare le strutture per una società che si articola su piani nuovi, rappresentati dalla comunicazione interculturale. A riguardo vorrei annotare che non si tratta soltanto di parlare di integrazione: quel che bisogna garantire sono le condizioni per realizzare la reciprocità, la potenzialità del dialogo che mette in comune risorse e strumenti. Si tratta di cominciare a pensare come le generazioni di stranieri che stanno nascendo da noi definiscano una nuova identità di italiano/a, europeo/a, e in che modo essi stessi saranno in condizione di aiutarci ad accogliere i flussi di popolazione che verranno. Si tratta di adoprare la parola “insieme”: l’immigrazione non è un problema solo italiano, quindi va affrontato in chiave europea. Poiché chi arriva ha una sua identità culturale che è esperienza e valori, fa crescere i nostri strumenti per gestire la situazione. Mentre scrivo, la festa del mio Santo patrono, Andrea (personale, della mia comunità parrocchiale, della Regione Toscana), che cade il 30 novembre, ci ha fatto assistere all’evento delle prime elezioni per il consiglio consultivo dei cittadini stranieri del Comune e della Provincia di Firenze. L’inizio di una strada lunga, non del tutto agevole, ma che può condurre lontano. Perché ha motivazioni indiscutibili.
Quali risorse a disposizione?
Il problema da un versante culturale non è impossibile da risolvere, tutt’altro. La domanda difficile su cui confrontarsi è quella sulle risorse a disposizione. Le politiche sociali di accoglienza e garanzia dei diritti costano. Trovare i fondi è compito della realtà politica, ma bisogna vedere se scelte ideologiche e parametri di sostenibilità economica le renderanno possibili. Chi scrive è sbilanciato su posizioni a tutela ed estensione dello stato sociale: oltre che convinto della sua efficacia su di un piano socio/economico, lo sono per ragioni di scelta religiosa. Si tratta di un elemento fondamentale della dottrina sociale della Chiesa, insieme all’obbligo morale di accogliere lo straniero e di assistere il povero. Una società che non sia dotata di strumenti efficaci di tutela sociale è una società insicura, in cui le tensioni si moltiplicano e degenerano. Una collettività che mette il più alto numero possibile dei suoi membri in condizione di partecipare positivamente al lavoro, all’amministrazione, alla vita politica e culturale, motivando alla ricerca del bene comune nella solidarietà, è una società in grado di affrontare nel miglior modo la complessità del tempo corrente. Al contrario, la fase politica che stiamo vivendo (è più corretto scrivere “subendo”…), è improntata dalla rigidità dell’esigenza di concepire ogni azione in vista della quadratura del bilancio economico, quest’ultimo peraltro concepito in favore delle classi sociali già garantite, se non addirittura più abbienti. A riguardo, ripeto la mia opinione: in Italia abbiamo la peggior borghesia di Europa, totalmente priva di senso politico. Infatti, la tensione sociale cresce, l’opposizione politica non è garantita dal pluralismo dei mezzi, la povertà aumenta, diminuiscono le risorse messe a disposizione per affrontare il disagio di molti.
Le Caritas locali lavorano grazie a contributi della pubblica amministrazione, tramite convenzioni per i servizi svolti, ma gran parte delle proprie disponibilità sono rappresentate da una quota dei fondi dell’otto per mille e da fondi ecclesiali, non ultime le offerte dei fedeli. La Caritas è e rimane un ente del privato sociale, che ha a disposizione mezzi limitati: con essa molte altre associazioni hanno affrontato gli eventi legati all’immigrazione ricevendo di fatto una delega a riguardo – non del tutto chiara – da parte degli organismi di governo che si sono succeduti nel tempo. Fa parte della filosofia politica oggi in voga, e trasversale alle parti politiche, la concezione del volontariato come di quella realtà a cui affidare, a mo’ di bacchetta magica, tutte le problematiche sociali. Ma i volontari, per definizione, introducono le tematiche emergenti, dovendo poi essere rimpiazzati – o quantomeno affiancati – sul fronte di questioni che sono comunque nell’interesse di tutti. La pubblica amministrazione interviene con le risorse della collettività, come è nel suo compito: gli enti del privato sociale hanno il compito di segnalare e di supportare, non di restare l’unica presenza nei contesti in cui supplire quella dello Stato. Se l’immigrazione porta vantaggi a parte della società – ad esempio la Confindustria, molto abile finora a privatizzare i profitti e collettivizzare gli oneri – non se ne possono attribuire gli aspetti problematici agli enti privati o al cittadino, contribuente a livello locale. Nei mesi scorsi ha fatto notizia una manifestazione di cittadini che hanno familiari a cui necessita assistenza o che hanno essi stessi bisogno di prestazioni professionali di cura: protestavano contro gli effetti della legge sull’immigrazione dell’attuale governo, che non li assisteva a sufficienza sul piano sanitario e creava difficoltà, con la legge, nel reperire persone che si assumessero la fatica di questo tipo di lavoro.
Secondo il mio confratello
Un mio confratello, direttore di una Caritas della Toscana, invitato (incautamente) ad un congresso di politici della Casa delle Libertà, concludeva il suo intervento augurando ai sostenitori della legge una malattia invalidante: costretti a farsi assistere da uno straniero, avrebbero forse capito che cosa significa aver bisogno di una presenza che può esserti tolta per motivi che assomigliano più all’arbitrio che alle logiche di legge. Micheal Moore, nel suo “Stupid white me”, dedicato alle nefandezze dell’amministrazione Bush (junior) e alla crisi della società nordamericana, ci presenta una preghiera (“Preghiera per Colpire i Benestanti”) in cui augurare malanni ai potenti della Terra, capaci forse, in conseguenza a ciò, di assumere un atteggiamento più umano. La stessa Caritas Italiana si è pronunciata con una certa forza (anche se a livello regionale avremmo gradito ancor più chiarezza di denuncia): un suo documento del luglio 2002 dichiara che la Bossi Fini è una legge ingiusta e quindi non obbliga in coscienza. Una posizione precisa sul piano dottrinale, a cui ci sarebbe piaciuto seguisse un atteggiamento analogo da parte della Conferenza Episcopale Italiana, sempre molto prudente nei suoi pronunciamenti. Di fronte alle pesanti affermazioni di Bossi sull’operato della Caritas sarebbe stato opportuno, a nostro giudizio di responsabili di base, un intervento diretto e duro, vista l’importanza del tema. Vi garantisco che la Caritas non si arricchisce sul lavoro nero degli stranieri: rispedisco l’accusa al mittente, chiedendo al ministro Bossi se ha idea del livello di evasione fiscale e di diffusione di pratiche illegali sul lavoro che alligna tra la sua base elettorale. I toni adoperati riguardo ad alcune condizioni di vita che riguardano la morale familiare, per esempio, sono assai più netti. La messa in discussione dei diritti primari degli immigrati è un fatto di enorme gravità perché nega il valore fondante della solidarietà sociale, rischiando di spalancare la porta all’arbitrio del più forte, che rende ogni società un inferno. Può darsi che divorzio e nuovi modelli familiari abbiano un impatto sulla moralità di un organismo collettivo del tutto negativo: ma sul piano della responsabilità e del male arrecato i livelli della valutazione morale non sono paragonabili. Si sa, la Chiesa cattolica ha sempre messo in crisi i propri fedeli su questo piano delle valutazioni di ordine etico: la pluralità di opinioni produce in dialettica con le autorità uno dei meccanismi più fecondi della Chiesa, il dissenso critico, senza il quale un’entità di qualsiasi genere non è capace di evolvere e crescere. A me sembra notevole che essa si sia dotata di una componente come la Caritas, che ha avuto il merito di essere un laboratorio di ricerca per la proposta di stili di vita compatibili con l’identità sociale della persona umana. Perseguire l’idealità della società multietnica, rifletterci sopra, fare proposte di ordine culturale sostenute dall’azione diretta sono un esempio di questo tentativo di analisi e di cambiamento. Le società si definiscono per lo più secondo le loro strutture, colte nell’ottimale che riescono a garantire: noi viviamo l’esigenza di pensare altre categorie di giudizio, basate proprio su ciò che non si riesce a garantire, anche su quel piano squisitamente umano che è la facilitazione a comunicare. Secondo quest’ottica, una collettività conosce una divisione in fasce e sono categorie che rappresentano maggiore o minore difficoltà nel vivere, da tradurre in volti, vicende, percorsi, non solo di dolore ma anche di lotta per la propria dignità, di recupero della capacità di considerarsi persone, di affrancamento da prigionie che appaiono addirittura connaturate all’idea vigente di collettività. E’ l’errore più grave, quello di considerare i problemi come in una logica immutabile: la società degli esseri umani non è un ecosistema biologico, le cui leggi non si possono stravolgere senza rischiare di annientarvi la vita. Al contrario, un sistema sociale conosce il suo più autentico benessere proprio nella ricerca di dinamiche nuove, che tengano conto della novità costante rappresentata dalle persone, dal succedersi delle generazioni.
Esperienze di impotenza
Nei Centri di Ascolto della Caritas, sua articolazione a livello di territorio e parrocchiale, e nei Centri Operativi diocesani i nostri volontari, gli operatori, ragazze e ragazzi del servizio Civile, fanno esperienza molto spesso del senso di impotenza con cui ci si trova a davanti a problemi enormi, concretizzati in persone che hai davanti agli occhi, non sono certo una teoria sociologica. Persone che molto spesso non hai i mezzi per aiutare. Quante volte la ricerca di alloggio per uno straniero, del tutto in grado di fornire garanzie significative, spesso migliori di quelle prospettate da tanti nostri concittadini, sembra concludersi positivamente ma trova dinieghi di ogni genere quando appare evidente di qual colore sia la pelle di chi chiede o a quale etnia egli appartenga, elemento che il telefono non rivela… Il problema devastante è rappresentato dall’indifferenza, dal pregiudizio, dalla paura, nei confronti della diversità che non vuoi conoscere. In questa contemporaneità è uno dei limiti più gravi che mi sia capitato di incontrare, anche dentro di me: esso rappresenta il termine o l’impossibilità di ogni tentativo per rinnovare la propria identità.
Per questo il fronte più urgente da affrontare è quello culturale. Fin tanto non saremo in condizione di confrontarci serenamente con la povertà, l’estraneità, la marginalità, il futuro continuerà ad apparirci una paurosa incognita. Se proveremo ad affrontarlo con le nostre potenzialità più significative, quelle della conoscenza, del dialogo, del coraggio di arricchirsi attraverso l’alterità, il bene essenziale della solidarietà, saremo in grado di raccontare questo tempo come l’inizio di una fase in cui si sono messi i presupposti per un’autentica pacificazione. E la pace non è più soltanto da definire come possibile: essa è propriamente essenziale.
Margherita, la giovanissima figlia di una collega insegnante, 5 anni, bionda, ha raffigurato in un disegno il suo matrimonio, con tanto di fotografo a immortalare l’evento. Lo sposo è indiscutibilmente un giovane, simpaticissimo, africano. Forse la cultura circostante le farà cambiare atteggiamento. Io credo che siamo di fronte ad una generazione capace di farci bellissime sorprese: ad esempio, quella di una società in cui i pregiudizi siano considerati solo il retaggio di un’epoca un po’ triste, in cui molti stupidi hanno prosperato, che un bel giorno è arrivata al suo termine.
Senza rimpianti.